Speranze di riconciliazione in Kenya dopo il varo del governo di coalizione
Varato ieri in Kenya un governo di grande coalizione. Quarantuno i ministri, mentre
la carica di premier è stata assunta dal capo dell’opposizione, Raila Odinga, che
va a controbilancire la figura del presidente Mwai Kibaki. Secondo gli osservatori
internazionali si tratta di un esecutivo equilibrato, come previsto dagli accordi
faticosamente messi a punto nel corso della lunga mediazione portata avanti dall'ex
segretario generale dell'Onu Kofi Annan. Ma che tipo di convivenza sarà quella tra
Kibaki e Odinga? Salvatore Sabatino lo ha chiesto a Daniele Moschetti,
padre comboniano, che da anni vive nella baraccopoli di Korogocho, alla periferia
di Nairobi:
R. –
Sicuramente è un punto di arrivo, per il momento, dopo quattro mesi di attesa. E’
un momento storico. Certo ci sono tanti ministri, troppi: sono 41. Questo è stato
molto criticato dalla società civile, dalle Chiese, da tanti. Però, questo almeno
è un primo passo per arrivare a qualcosa di più concreto – si spera – per il futuro
del Kenya e soprattutto per i poveri, per la gente che soffre. In questo momento,
c’era grande tensione ancora aspettando questo risultato. La settimana scorsa è stata
pesante, era scoppiato qualche scontro; oggi c’è molta più tranquillità.
D.
– Il governo avrà come compito quello di far ripartire il Paese dopo mesi di violenza.
Quali le prime mosse che possiamo attenderci, a questo punto?
R.
– Si spera che una delle prime cose sia la Costituzione, perché ormai sono più di
dieci anni che se ne parla, ci si è lavorato molto, si sono spesi tanti soldi, e poi
si è dissolto tutto, anche con un referendum perso apertamente dal governo, in maniera
molto brutale, nel 2005. Poi, logicamente, il lavoro: creare lavoro, creare sicurezza
nel Paese, perché in alcune zone non c’è ancora sicurezza, in questo momento.
D.
– A questo punto, il Kenya potrà acquisire nuovamente il ruolo di Paese-chiave del
continente africano, così come era prima di questa crisi?
R.
– Ci sono delle lezioni da imparare da parte del governo kenyota e da parte della
politica kenyota, perché dal punto di vista economico è rimasto bloccato tutto l’East
Africa: non soltanto il Kenya, ma anche l’Uganda, il Rwanda, il Burundi, il Congo
del Nord, il Sud Sudan e la Tanzania. Quindi, la ferrovia che non si poteva più usare,
le merci che non potevano essere trasferite da Mombasa ad altre parti dell’East Africa
... Oggi probabilmente gli altri Paesi stanno guardando ad altre soluzioni, non soltanto
al Kenya, perché è stato un segnale che se questo succede altre volte, indubbiamente
anche le loro economie vanno al collasso. Quindi, è un momento molto particolare.
Penso che anche il Kenya dovrà riflettere molto su questo e trovare una coesione politica
su una visione più grande che non è quella del proprio Paese.
D.
– Qual è il ruolo della Chiesa?
R. – In questo momento,
ormai non c’è opposizione in questo Paese, perché tutti sono nel governo. Allora,
automaticamente, chi è all’opposizione è la società civile, sono le Chiese, le religioni,
il cittadino comune, i poveri. E quindi è questo l’importante: riuscire a prendere
posizioni anche politiche – non partitiche, ma politiche – per quello che sono i diritti
della gente, per i poveri sorprattutto, ma soprattutto lavorare per la riconciliazione
tra le etnie: ci sono ancora divisioni tra le varie etnie.