Si allarga nel mondo la guerra del pane. L'analisi di Riccardo Moro
Da Haiti alle Filippine, a tutto il continente africano - di oggi è la notizia di
scontri di piazza in Tunisia - l’aumento dei costi dei cereali sta scatenando una
vera e propria “guerra del pane”, con morti, feriti, proteste e scioperi. In un Rapporto
presentato oggi, la FAO ha stimato in una crescita del 56% - fra il 2007 e il 2008
- il prezzo dei cereali, sempre più considerati “oro verde”. Le cause sono molte:
una su tutte, l’imponente richiesta di cereali necessaria alla produzione di carburanti
alternativi - l’etanolo e il biodiesel - ricavati dalla fermentazione dei cereali
e della canna da zucchero. Un'analisi del fenomeno è offerta da Riccardo Moro,
direttore della Fondazione Giustizia e solidarietà, promossa dalla Conferenza episcopale
italiana (CEI), intervistato da Alessandro De Carolis:
R. -
Sta aumentando il prezzo dei cereali, cioè dell’elemento base per la nutrizione sia
esso riso sia esso grano, ormai, dovuto ad alcune ragioni, anche diverse tra di loro.
Da un lato, la riduzione della produzione per uso alimentare, che è determinata dall’aumento
della produzione, invece, per i cosiddetti “bio-cereali”; dall’altra parte, c’è anche
un aumento della produzione dedicata a mangimi, alla realizzazione di mangimi animali,
perché c’è una maggiore domanda di proteine animali derivante dalla richiesta di carne
bovina o di latte. E allora aumenta il numero di capi di bestiame allevati. Questi
due fenomeni, uniti anche alla crisi del petrolio che sta producendo un po’ di inflazione
- anche se non è solo il petrolio che genera questo, ci sono anche altri fattori un
po’ in tutto il mondo. Generano soprattutto nelle fasce più povere, ma oggi anche
nei Paesi medi, una maggiore fatica ad approvvigionarsi di cibo. E dunque, mi pare
che non governare la vicenda possa portare a degli squilibri che poi peseranno ancora
di più sui più vulnerabili.
D. - Si ha l’impressione
che i Paesi ricchi siano stati presi di sorpresa: indifferenza, sottostima del fenomeno...
qual è il problema, secondo lei?
R. - Sicuramente,
è un fenomeno che si sta muovendo rapidamente. Se si vanno a guardare gli indicatori
economici, questo è un aumento che parte sostanzialmente dal 2002, ma negli ultimi
due anni ha avuto un’impennata da un anno all’altro: un aumento del 30-35% è un aumento
molto pesante. Possiamo dire, allora, che vi sia non tanto una sorpresa, ma che si
tratti di un fenomeno abbastanza rapido. Forse un po’ di sorpresa c’è nell’impatto
che ha avuto la questione dei biocarburanti - salutata giustamente con grande entusiasmo
perché consente consumi, dal punto di vista ambientale, sostenibili - che però poi
ha avuto una ricaduta sulla quale, forse, siamo stati un po’ impreparati. Però, dicevo,
se non viene affrontata nella sede politica adeguata, e la sede politica adeguata
prima di tutti è il WTO, questa questione rimane ingovernata.
D.
- A livello di Organizzazione mondiale del commercio, c’è una linea di indirizzo verso
la quale muovere forze e risorse per migliorare la situazione?
R.
- Onestamente, mi pare di no. Oggi abbiamo sul tavolo la cosiddetta “agenda di Doha”
- nata dopo il Giubileo e dalle richieste di nuove risorse per i cosiddetti "Obiettivi
del Millennio" - dopodiché sono passati sette anni e non si è riusciti ancora a trovare
un’intesa internazionale, anche se adesso si è un po’ più vicini. Tuttavia, la parte
principale di queste intese mirava più ad immaginare una liberalizzazione totale del
mercato agricolo internazionale, per consentire ai prodotti del Sud del mondo - che
costano di meno e dunque diventano competitivi - di entrare nei mercati del Nord del
mondo. Il risultato sarebbe stato un afflusso di denaro, dovuto al ricavo di queste
vendite verso i Paesi del Sud del mondo che avrebbe favorito lo sviluppo. La mia preoccupazione
invece è che lasciar fare al mercato e basta sia rischioso: io non sono affatto sicuro
- e l’esperienza storica ci dice esattamente questo - che consenta la tutela dei più
vulnerabili, dei più deboli.
D. - Quale potrebbe
essere allora una strada alternativa, secondo lei?
R.
- Un’idea che può apparire oggi per certi aspetti forse un po’ sognatrice, un po’
peregrina - ma io non credo che lo sia - è quella di tentare di replicare, a livello
globale, quella che è stata l’esperienza dell’Unione Europea. L’Unione Europea ha
scelto una politica delle quote, ha scelto una politica agricola comunitaria che prima
guardava alla tutela sia dei produttori sia dei consumatori - per evitare di farci
una guerra intestina all’interno della nostra stessa Europa - e poi ha usato il mercato
per distribuire il prodotto. In questa maniera, noi abbiamo avuto uno sviluppo agricolo
graduale. Oggi, quella politica è obsoleta perché il mercato agricolo non è più solo
continentale, ma bisogna tentare di replicare quell’esperienza in termini evidentemente
nuovi a livello globale, per capire quali siano i fabbisogni alimentari, quali le
opportunità di produzione, come si possa produrre per coprire quei fabbisogni in una
maniera ambientalmente sostenibile. E questo è mestiere della politica.