BENEDETTO XVI Omelia della Santa Messa Crismale (Testo integrale)
Ascolta Cari fratelli
e sorelle, ogni anno la Messa del Crisma ci esorta a rientrare in quel „sì” alla
chiamata di Dio, che abbiamo pronunciato nel giorno della nostra Ordinazione sacerdotale.
“Adsum – eccomi!”, abbiamo detto come Isaia, quando sentì la voce di Dio che domandava:
“Chi manderò e chi andrà per noi?” “Eccomi, manda me!”, rispose Isaia (Is 6, 8). Poi
il Signore stesso, mediante le mani del Vescovo, ci impose le mani e noi ci siamo
donati alla sua missione. Successivamente abbiamo percorso parecchie vie nell’ambito
della sua chiamata. Possiamo noi sempre affermare ciò che Paolo, dopo anni di un servizio
al Vangelo spesso faticoso e segnato da sofferenze di ogni genere, scrisse ai Corinzi:
“Il nostro zelo non vien meno in quel ministero che, per la misericordia di Dio, ci
è stato affidato” (cfr 2 Cor 4, 1)? “Il nostro zelo non vien meno”. Preghiamo in questo
giorno, affinché esso venga sempre riacceso, affinché venga sempre nuovamente nutrito
dalla fiamma viva del Vangelo.
Allo stesso tempo, il Giovedì Santo è per noi
un’occasione per chiederci sempre di nuovo: A che cosa abbiamo detto “sì”? Che cosa
è questo “essere sacerdote di Gesù Cristo”? Il Canone II del nostro Messale, che probabilmente
fu redatto già alla fine del II secolo a Roma, descrive l’essenza del ministero sacerdotale
con le parole con cui, nel Libro del Deuteronomio (18, 5. 7), veniva descritta l’essenza
del sacerdozio veterotestamentario: astare coram te et tibi ministrare. Sono quindi
due i compiti che definiscono l’essenza del ministero sacerdotale: in primo luogo
lo “stare davanti al Signore”. Nel Libro del Deuteronomio ciò va letto nel contesto
della disposizione precedente, secondo cui i sacerdoti non ricevevano alcuna porzione
di terreno nella Terra Santa – essi vivevano di Dio e per Dio. Non attendevano ai
soliti lavori necessari per il sostentamento della vita quotidiana. La loro professione
era “stare davanti al Signore” – guardare a Lui, esserci per Lui. Così, in definitiva,
la parola indicava una vita alla presenza di Dio e con ciò anche un ministero in rappresentanza
degli altri. Come gli altri coltivavano la terra, della quale viveva anche il sacerdote,
così egli manteneva il mondo aperto verso Dio, doveva vivere con lo sguardo rivolto
a Lui. Se questa parola ora si trova nel Canone della Messa immediatamente dopo la
consacrazione dei doni, dopo l’entrata del Signore nell’assemblea in preghiera, allora
ciò indica per noi lo stare davanti al Signore presente, indica cioè l’Eucaristia
come centro della vita sacerdotale. Ma anche qui la portata va oltre. Nell’inno della
Liturgia delle Ore che durante la quaresima introduce l’Ufficio delle Letture – l’Ufficio
che una volta presso i monaci era recitato durante l’ora della veglia notturna davanti
a Dio e per gli uomini – uno dei compiti della quaresima è descritto con l’imperativo:
arctius perstemus in custodia – stiamo di guardia in modo più intenso. Nella tradizione
del monachesimo siriaco, i monaci erano qualificati come “coloro che stanno in piedi”;
lo stare in piedi era l’espressione della vigilanza. Ciò che qui era considerato compito
dei monaci, possiamo con ragione vederlo anche come espressione della missione sacerdotale
e come giusta interpretazione della parola del Deuteronomio: il sacerdote deve essere
uno che vigila. Deve stare in guardia di fronte alle potenze incalzanti del male.
Deve tener sveglio il mondo per Dio. Deve essere uno che sta in piedi: dritto di fronte
alle correnti del tempo. Dritto nella verità. Dritto nell’impegno per il bene. Lo
stare davanti al Signore deve essere sempre, nel più profondo, anche un farsi carico
degli uomini presso il Signore che, a sua volta, si fa carico di tutti noi presso
il Padre. E deve essere un farsi carico di Lui, di Cristo, della sua parola, della
sua verità, del suo amore. Retto deve essere il sacerdote, impavido e disposto ad
incassare per il Signore anche oltraggi, come riferiscono gli Atti degli Apostoli:
essi erano “lieti di essere stati oltraggiati per amore del nome di Gesù” (5, 41).
Passiamo
ora alla seconda parola, che il Canone II riprende dal testo dell’Antico Testamento
– “stare davanti a te e a te servire”. Il sacerdote deve essere una persona retta,
vigilante, una persona che sta dritta. A tutto ciò si aggiunge poi il servire. Nel
testo veterotestamentario questa parola ha un significato essenzialmente rituale:
ai sacerdoti spettavano tutte le azioni di culto previste dalla Legge. Ma questo agire
secondo il rito veniva poi classificato come servizio, come un incarico di servizio,
e così si spiega in quale spirito quelle attività dovevano essere svolte. Con l’assunzione
della parola “servire” nel Canone, questo significato liturgico del termine viene
in un certo modo adottato – conformemente alla novità del culto cristiano. Ciò che
il sacerdote fa in quel momento, nella celebrazione dell’Eucaristia, è servire, compiere
un servizio a Dio e un servizio agli uomini. Il culto che Cristo ha reso al Padre
è stato il donarsi sino alla fine per gli uomini. In questo culto, in questo servizio
il sacerdote deve inserirsi. Così la parola “servire” comporta molte dimensioni. Certamente
ne fa parte innanzitutto la retta celebrazione della Liturgia e dei Sacramenti in
genere, compiuta con partecipazione interiore. Dobbiamo imparare a comprendere sempre
di più la sacra Liturgia in tutta la sua essenza, sviluppare una viva familiarità
con essa, cosicché diventi l’anima della nostra vita quotidiana. È allora che celebriamo
in modo giusto, allora emerge da sé l’ars celebrandi, l’arte del celebrare. In quest’arte
non deve esserci niente di artefatto. Deve diventare una cosa sola con l’arte del
vivere rettamente. Se la Liturgia è un compito centrale del sacerdote, ciò significa
anche che la preghiera deve essere una realtà prioritaria da imparare sempre di nuovo
e sempre più profondamente alla scuola di Cristo e dei santi di tutti i tempi. Poiché
la Liturgia cristiana, per sua natura, è sempre anche annuncio, dobbiamo essere persone
che con la Parola di Dio hanno familiarità, la amano e la vivono: solo allora potremo
spiegarla in modo adeguato. “Servire il Signore” – il servizio sacerdotale significa
proprio anche imparare a conoscere il Signore nella sua Parola e a farLo conoscere
a tutti coloro che Egli ci affida.
Fanno parte del servire, infine, ancora
due altri aspetti. Nessuno è così vicino al suo signore come il servo che ha accesso
alla dimensione più privata della sua vita. In questo senso “servire” significa vicinanza,
richiede familiarità. Questa familiarità comporta anche un pericolo: quello che il
sacro da noi continuamente incontrato divenga per noi abitudine. Si spegne così il
timor riverenziale. Condizionati da tutte le abitudini, non percepiamo più il fatto
grande, nuovo, sorprendente, che Egli stesso sia presente, ci parli, si doni a noi.
Contro questa assuefazione alla realtà straordinaria, contro l’indifferenza del cuore
dobbiamo lottare senza tregua, riconoscendo sempre di nuovo la nostra insufficienza
e la grazia che vi è nel fatto che Egli si consegni così nelle nostre mani. Servire
significa vicinanza, ma significa soprattutto anche obbedienza. Il servo sta sotto
la parola: “Non sia fatta la mia, ma la tua volontà!” (Lc 22, 42). Con questa parola,
Gesù nell’Orto degli ulivi ha risolto la battaglia decisiva contro il peccato, contro
la ribellione del cuore caduto. Il peccato di Adamo consisteva, appunto, nel fatto
che egli voleva realizzare la sua volontà e non quella di Dio. La tentazione dell’umanità
è sempre quella di voler essere totalmente autonoma, di seguire soltanto la propria
volontà e di ritenere che solo così noi saremmo liberi; che solo grazie ad una simile
libertà senza limiti l’uomo sarebbe completamente uomo, diventerebbe divino. Ma proprio
così ci poniamo contro la verità. Poiché la verità è che noi dobbiamo condividere
la nostra libertà con gli altri e possiamo essere liberi soltanto in comunione con
loro. Questa libertà condivisa può essere libertà vera solo se con essa entriamo in
ciò che costituisce la misura stessa della libertà, se entriamo nella volontà di Dio.
Questa obbedienza fondamentale che fa parte dell’essere uomini, diventa ancora più
concreta nel sacerdote: noi non annunciamo noi stessi, ma Lui e la sua Parola, che
non potevamo ideare da soli. Non inventiamo la Chiesa così come vorremmo che fosse,
ma annunciamo la Parola di Cristo in modo giusto solo nella comunione del suo Corpo.
La nostra obbedienza è un credere con la Chiesa, un pensare e parlare con la Chiesa,
un servire con essa. Rientra in questo sempre anche ciò che Gesù ha predetto a Pietro:
“Sarai portato dove non volevi”. Questo farsi guidare dove non vogliamo è una dimensione
essenziale del nostro servire, ed è proprio ciò che ci rende liberi. In un tale essere
guidati, che può essere contrario alle nostre idee e progetti, sperimentiamo la cosa
nuova – la ricchezza dell’amore di Dio. “Stare davanti a Lui e servirLo”: Gesù
Cristo come il vero Sommo Sacerdote del mondo ha conferito a queste parole una profondità
prima inimmaginabile. Egli, che come Figlio era ed è il Signore, ha voluto diventare
quel servo di Dio che la visione del Libro del profeta Isaia aveva previsto. Ha voluto
essere il servo di tutti. Ha raffigurato l’insieme del suo sommo sacerdozio nel gesto
della lavanda dei piedi. Con il gesto dell’amore sino alla fine Egli lava i nostri
piedi sporchi, con l’umiltà del suo servire ci purifica dalla malattia della nostra
superbia. Così ci rende capaci di diventare commensali di Dio. Egli è disceso, e la
vera ascesa dell’uomo si realizza ora nel nostro scendere con Lui e verso di Lui.
La sua elevazione è la Croce. È la discesa più profonda e, come amore spinto sino
alla fine, è al contempo il culmine dell’ascesa, la vera “elevazione” dell’uomo. “Stare
davanti a Lui e servirLo” – ciò significa ora entrare nella sua chiamata di servo
di Dio. L’Eucaristia come presenza della discesa e dell’ascesa di Cristo rimanda così
sempre, al di là di se stessa, ai molteplici modi del servizio dell’amore del prossimo.
Chiediamo al Signore, in questo giorno, il dono di poter dire in tal senso nuovamente
il nostro “sì” alla sua chiamata: “Eccomi. Manda me, Signore” (Is 6, 8). Amen.