Benedetto XVI alla Messa in suffragio di mons. Rahho: la sua morte ispiri agli iracheni
di buona volontà, cristiani e musulmani, la volontà di vivere in pace e giustizia
“Un uomo di pace e di dialogo” tra i cristiani e i musulmani del suo Paese, condannato
a una fine “disumana”, seguita da una “indegna sepoltura”. Con parole di intensa partecipazione,
Benedetto XVI ha iniziato oggi la sua giornata nel ricordo dell’arcivescovo caldeo
ucciso a Mossul, Paulos Faraj Rahho. Celebrandone la Messa di suffragio nella cappella
“Redemptoris Mater”, in Vaticano, il Papa ha avuto a più riprese parole di solidarietà
verso l’Iraq. L’esempio di mons. Rahho, ha auspicato alla fine, possa “sostenere tutti
gli iracheni di buona volontà” nella costruzione di una nazione pacifica e solidale.
La cronaca della celebrazione nel servizio di Alessandro De Carolis:
Il compianto
per la morte di un uomo giusto e la consapevolezza, dettata dalla fede, che in questa
morte vi sia il seme e l’esempio perché cristiani e musulmani riescano infine a costruire,
in Iraq, una convivenza “fondata sulla fratellanza umana e sul rispetto reciproco”.
E’ il pensiero di suffragio che Benedetto XVI dedica a mons. Paulos Faraj Rahho, vittima
inerme di una violenza che - per la coincidenza dei tempi - non può non rinviare il
pensiero a una morte e a un calvario più antichi di duemila anni.
(canto)
Le
note della liturgia orientale, fanno da sfondo alla voce del Papa che è commossa,
addolorata. Pronuncia le parole dell’omelia evidentemente rattristato da una vicenda
che l’ha colpito nel profondo del cuore per la sua crudeltà: mons. Rahho, un uomo
che guidava una comunità cattolica in Iraq nel segno della gioia e della carità -
le due parole che danno il nome all’associazione da lui fondata per l’aiuto ai portatori
di handicap - brutalizzato da un rapimento e da una morte culminata nel supremo e
immeritato oltraggio di una “tomba” scavata nella spazzatura. Il Vangelo della Messa
di questa mattina, con l’episodio di Maria di Betania che unge i piedi a Gesù con
olio profumato, ha suggerito al Papa questo parallelo:
“Penso
al sacro Crisma, che unse la fronte di mons. Rahho nel momento del suo Battesimo e
della sua Cresima; che gli unse le mani nel giorno dell’ordinazione sacerdotale, e
poi ancora il capo e le mani quando fu consacrato vescovo. Ma penso anche alle tante
'unzioni' di affetto filiale, di amicizia spirituale, di devozione che i suoi fedeli
riservavano alla sua persona, e che l’hanno accompagnato nelle ore terribili del rapimento
e della dolorosa prigionia - dove giunse forse già ferito -, fino all’agonia e alla
morte. Fino a quella indegna sepoltura, dove poi sono state ritrovate le sue spoglie
mortali”.
Con nel cuore il mistero del dolore
della Settimana Santa, a Benedetto XVI è venuto spontaneo paragonare le sofferenze
patite da mons. Rahho al supplizio subito dal “Servo sofferente” descritto nella liturgia
dal profeta Isaia, tanto misterioso nella sua identità quanto simile in tutto al Cristo
della Passione. Il Servo, ha osservato il Papa, è presentato come colui che porterà,
proclamerà, stabilirà il diritto: tre verbi la cui “insistenza”, ha detto, “non può
passare inosservata”. E il Servo che - ha proseguito Benedetto XVI - “realizzerà
questa missione universale con la forza non violenta della verità” prefigura Gesù
che, pure “di fronte a un’ingiusta condanna, rende testimonianza alla verità, rimanendo
fedele alla legge dell’amore”:
“Su questa stessa
via, mons. Rahho ha preso la sua croce e ha seguito il Signore Gesù, e così ha contribuito
a portare il diritto nel suo martoriato Paese e nel mondo intero, rendendo testimonianza
alla verità. Egli è stato un uomo di pace e di dialogo. So che egli aveva una predilezione
particolare per i poveri e i portatori di handicap, per la cui assistenza fisica e
psichica aveva dato vita ad una speciale associazione, denominata Gioia e Carità (“Farah
wa Mahabba”), alla quale aveva affidato il compito di valorizzare tali persone e di
sostenerne le famiglie, molte delle quali avevano imparato da lui a non nascondere
tali congiunti e a vedere Cristo in essi. Possa il suo esempio sostenere tutti gli
iracheni di buona volontà, cristiani e musulmani, a costruire una convivenza pacifica,
fondata sulla fratellanza umana e sul rispetto reciproco”.
Questo
appello del Papa - dopo quello di ieri all’Angelus, molto apprezzato dalla comunità
cattolica locale, come ha confermato oggi l’ausiliare di Baghdad, Shlemon Warduni
- segue il primo che aveva aperto l’omelia, quando Benedetto XVI aveva invitato gli
iracheni a non “perdersi d’animo”, e ne precede di poco un altro, ancora dedicato
a mons. Rahho e alla speranza che specialmente i cristiani del Paese siano i primi
a credere in “un futuro migliore” per l’Iraq:
“Come
l’amato arcivescovo Paulos si spese senza riserve a servizio del suo popolo, così
i suoi cristiani sappiano perseverare nell’impegno della costruzione di una società
pacifica e solidale sulla via del progresso e della pace”.