Trent'anni fa la strage di via Fani e il rapimento di Aldo Moro
“I 55 giorni più lunghi della Repubblica” sono in molti a definire così il tragico
rapimento a Roma del presidente della Democrazia Cristiana, Aldo Moro, avvenuto il
16 marzo del 1978 e costato la vita ai 5 uomini della scorta: Raffaele Iozzino, Oreste
Leonardi, Domenico Ricci, Giulio Rivera e Francesco Zizzi. Oggi nel 30esimo anniversario,
molte le forze politiche che hanno espresso vicinanza ai familiari delle vittime e
rinnovato l’impegno a far luce sui punti ancora oscuri della vicenda, conclusasi 55
giorni dopo il sequestro con la morte di Moro. Ma ripercorriamo quei tragici momenti
del sequestro nel servizio di Massimiliano Menichetti: “Il
presidente della Democrazia Cristiana, l’onorevole Aldo Moro, è stato rapito poco
fa a Roma, da un commando di terroristi. I terroristi avrebbero sparato contro la
scorta composta da cinque agenti; sarebbero tutti morti”.
E’ l’edizione
straordinaria del GR2 della RAI a dare il primo l’annuncio del rapimento del presidente
della Democrazia Cristiana, onorevole Aldo Moro, e dell’uccisione dei cinque uomini
della scorta, avvenutao alle 9.15. E’ il 16 marzo del 1978: l’Italia rimane attonita,
confusa; è il giorno del dibattito sulla fiducia al nuovo governo Andreotti, che per
la prima volta avrebbe avuto l’appoggio, da Moro ampiamente favorito, del Partito
Comunista Italiano. L’auto che trasporta lo statista della DC in Parlamento viene
bloccata in via Fani da un commando delle Brigate Rosse. Pochi istanti:
cinque vite vengono spezzate e inizia la prigionia dell’onorevole Moro che si concluderà
55 giorni dopo, con il ritrovamento del suo cadavere nel cofano di una Renault
4, in via Caetani; emblematicamente a poca distanza da Piazza del Gesù,
sede nazionale della Democrazia Cristiana, e via delle Botteghe Oscure,
quartier generale del Partito Comunista Italiano. Il presidente Giulio
Andreotti:
“C’erano convergenze a volersi
opporre a Moro tanto in un senso politico quanto nel senso opposto. Perché Moro? Moro
era il più intelligente e anche il più abile di tutti noi, quindi è chiaro che per
obiettivo era stato scelto lui perché sapevano che mettere fuori gioco Moro significava
mettere in crisi il sistema”.
Moro nasce a Maglie in Puglia nel
1919. A 24 anni, all’Università di Bari, è professore incaricato di Filosofia del
diritto, poi ordinario in Diritto penale; presidente della FUCI (Federazione Università
Cattolica Italiana), membro della Costituente, nell’ottobre del 1976 è eletto presidente
della Democrazia Cristiana. Fu uno dei principali artefici della politica di centro-sinistra.
Più volte ministro, cinque volte presidente del Consiglio, Moro, auspicò la collaborazione
organica fra tutti i partiti con la maggior rappresentatività popolare ovvero la Democrazia
Cristiana, il Partito Comunista Italiano, il Partito Socialista
Italiano. Il giorno del rapimento, CGIL, CISL e UIL proclamano lo sciopero
generale. Il 18 marzo, una telefonata al quotidiano il Messaggero indica come trovare
il “Comunicato n.1” delle BR, che annuncia che Moro è in una cosiddetta “prigione
del popolo”. Ancora il presidente Giulio Andreotti:
“Le
Brigate trattavano con lo Stato da pari a pari: questo era il primo ostacolo che venne
e causò veramente angoscia”.
Il 19 marzo all’Angelus in Piazza
San Pietro, Papa Paolo VI lancia il suo primo appello per lo
statista italiano, ma prima di tutto si stringe in preghiera con le famiglie degli
uomini della scorta uccisi dalle BR:
“Preghiamo insieme per quanti,
in questi giorni, soffrono, portando più viva in se stessi l’impronta della Passione
di Gesù: per le famiglie che piangono i loro cari, stroncati nel compimento del loro
dovere da un insensato odio omicida che ancora una volta ha voluto minare la pacifica
convivenza sociale; preghiamo per l’onorevole Aldo Moro, a noi caro, sequestrato in
vile agguato, con l’accorato appello affinché sia restituito ai suoi cari”.
Seguirono
altri appelli: due del Papa, di leader politici mondiali; l’intelligence a livello
internazionale cercò di scovare la tana dei terroristi. Mentre la politica e l’opinione
pubblica iniziavano a dividersi: da una parte chi voleva mediare con i brigatisti,
dall’altra chi affermava la linea della “fermezza”. Aldo Moro incessantemente invocava,
tramite numerose lettere, una trattativa che non arrivò mai.
In questi
30 anni spesso sono state dimenticate le famiglie dei cinque uomini della scorta.
Fabio Colagrande ha sentito in proposito Maria Laura Rocchetti vedova
dell’appuntato dei Carabinieri, Domenico Ricci, ucciso nella strage di via Fani:
R.
- Mi ricordo benissimo come se fosse oggi perché è una piaga che purtroppo è rimasta
sempre aperta. Verso le 9.30, accendendo la radio ho sentito il GR speciale in cui
si annunciava il rapimento dell'onorevole Moro. Io in quel momento non capii nulla,
era come mi fosse caduto il mondo addosso, mentre casa si riempiva di persone. Alle
ore 13.00 un ufficiale dei carabinieri venne e mi confermò la morte di mio marito.
Sono stati giorni di pianto, continuamente, ancora tutt'oggi.
D.
- Con che stato d'animo suo marito svolgeva un servizio così rischioso?
R.
– Mio marito amava la divisa come la famiglia. Per lui era un lavoro di grande gioia.
Ma un giorno mi disse: “Sotto al bar mi hanno detto ‘ecco, arriva il servo dello Stato.
Che ci fai con quel pezzo di ferro?’”
D. – Signora
Maria Laura, crede che lo Stato italiano abbia fatto abbastanza per i familiari delle
vittime del terrorismo?
R. – Posso dire che l’Arma dei
Carabinieri ci è stata sempre vicino. Per quanto riguarda lo Stato, per 20 anni abbiamo
dovuto lottare, poi, nel 2001-2002, abbiamo avuto il riconoscimento dei nostri diritti.