Giornata di preghiera per la liberazione dell'arcivescovo di Mossul
Nuove violenze in Iraq. Anche oggi si contano diverse vittime, sia civili che militari
americani, in attentati avvenuti a Baghdad. Intanto, nella Chiesa cattolica, e non
solo, aumenta l’apprensione per la sorte dell'arcivescovo caldeo di Mossul, mons.
Faraj Paulos Rahho, rapito nella città irachena lo scorso 29 febbraio da un commando
armato. “Non cali il silenzio su questa vicenda” – ribadisce con forza l’arcivescovo
di Kirkuk, mons. Louis Sako. Per invocare la liberazione del presule, i caldei in
Iraq e della diaspora hanno indetto per oggi una giornata di digiuno e preghiera:
a Roma, nel pomeriggio, è prevista la celebrazione di una Messa nella Chiesa di Santa
Maria degli Angeli e dei Martiri, mentre martedì scorso c’è stato un appello di vari
leader islamici. Giancarlo La Vella ne ha parlato con don Renato Sacco,
di Pax Christi, da poco rientrato dall’Iraq:
R. –
Quindici capi islamici hanno condannato questo rapimento ed hanno chiesto la liberazione
di mons. Rahho. Il vescovo di Kirkuk chiedeva all’Occidente di impegnarsi a fare qualcosa
in più: lo ha chiesto ai governi, ai mass media. Lo ha chiesto anche agli Stati Uniti
che di fatto sono responsabili secondo il diritto internazionale anche della sicurezza
della popolazione. Bisogna fare in modo che non diventi normale questa situazione,
che non diventi normale il rapimento di un vescovo. L'arcivescovo di Kirkuk ha chiesto
soprattutto di non rimanere indifferenti e di cercare di fare di tutto. Se posso dire,
ho sentito in loro una grande gioia quando qualcuno li chiama, quando qualcuno gli
dice di non essere con loro e di non sentirsi soli. Ma li sento anche molto provati,
perché quello che sta vivendo mons. Rahho è quello che stanno vivendo anche tante
altre persone rapite: l’Iraq è da troppi anni che soffre. Ll’Iraq è da troppi anni
che ha il bisogno di trovare una strada di pace. Non dimentichiamo, tra l’altro, che
quello che si dice in Italia ed in Occidente viene sentito e rilanciato anche in Iraq.
Un appello, quindi, automaticamente ha eco anche in Iraq.
D.
– Lei è tornato da poco da una missione nel Paese del Golfo. Si ha la sensazione che
le cosa, invece, di migliorare peggiorino di giorno in giorno…
R.
– Il rapimento è diventato quasi una prassi, che viene preceduto dalle minacce; se
va in porto c’è la liberazione. Se invece non va in porto si perdono le tracce. Io
ho tanti amici che hanno ormai perso le notizie delle persone rapite. Questo è quello
che vive tantissima gente. Molti profughi scappano perché hanno ricevuto minacce.
Fuggono per evitare rapimenti od uccisioni. Credo che sia davvero una situazione che
va peggiorando sempre più. Io sono stato otto volte in Iraq e tutti, ma proprio tutti,
dicono che le cose vanno sempre peggio. Come anche il Papa ha ricordato nell’Angelus,
questa è una situazione di sofferenza e non secondo la volontà di Dio. Oggi siamo
tra l’altro quasi alla ricorrenza dall’anniversario dell’intervento armato (il 19
marzo). Quelli che incontriamo ci dicono che qui va sempre peggio. L’unica prospettiva,
l’unica speranza che hanno i giovani è di lasciare il Paese. Noi dobbiamo aiutarli
a non avere solo questa prospettiva.