Essere famiglia per bambini gravemente malati e abbandonati: la straordinaria esperienza
d’amore della Casa Famiglia “Angeli Custodi” di Rimini
Essere mamma e papà di quei bimbi abbandonati, che non vengono accolti mai da nessuno:
è questo l’impegno d’amore preso da Rita Gallegati e suo marito Riccardo il
giorno in cui si sono sposati, nel 1994. Assieme hanno dato vita alla Casa Famiglia
“Angeli Custodi” di Rimini. A sostenerli in questa testimonianza di carità cristiana,
contro la cultura della morte, hanno avuto a loro fianco, sin dai primi passi, don
Oreste Benzi e la sua Comunità Papa Giovanni XXIII. Per Rita, poi, come spiega al
microfono di Alessandro Gisotti, questa toccante esperienza con i bambini disagiati
è iniziata già trent’anni fa:
(musica)
R.
- Eravamo nel 1979, una sera – io sono di Faenza – venne a parlare nella mia città
don Benzi. Don Oreste parlò di queste case famiglia dove c’erano un papà ed una mamma
che accoglievano bimbi, ma anche adulti che da soli non ce l’avrebbero fatta. Io,
mentre lui parlava, mi sono sentita letta dentro ed ho avuto proprio la chiarezza
che fosse quello che andavo cercando e a cui non sapevo dare un nome. Volevo vivere
nella condivisione con i piccoli, con gli ultimi. Con l’incoscienza dei 20 anni, accolsi
la proposta di don Benzi di andare a fare la mamma in una casa famiglia lì vicino
a Faenza.
D. – Dunque, la sua esperienza è soprattutto
un condividere la sofferenza attraverso una testimonianza di amore e di speranza?
R.
– Io credo che la condivisione sia una delle forme più grandi dell’amore. Anche se
non si risolve niente si sta accanto a colui che soffre. Non si deve far soffrire
nessuno da solo. Credo che questa sia l’unica speranza possibile per chi soffre, solo
la condivisione rende meno amara la croce perché non si soffre da soli.
D.
– Che cosa vuol dire, per questi bambini, essere accolti nella casa famiglia?
R.
– All’inizio arrivano con delle ferite molto profonde, soprattutto nel cuore e nello
spirito. Spesso vengono portati via dalle famiglie proprio perché stanno vivendo delle
situazioni atroci, maltrattamenti spesso. Quindi, da grosse sofferenze, grosse cicatrici.
Per un po’ stanno sulla difensiva, si mettono alla prova. Quindi per un po’, è un
gioco di forza. Quando vedono che non ci sono punizioni, che li si cerca di amare
molto semplicemente per quello che sono, allora cedono ogni forma di difesa, vengono
fuori per tutto il potenziale bello che queste creature hanno e che sanno dare.
D.
– C’è una storia, tra le tante che avete vissuto lei e suo marito in questi anni,
che può sintetizzare in qualche modo l’esperienza della Casa Famiglia “Angeli Custodi”?
R.
– Sono stati tanti gli episodi. Quello che rimarrà per sempre nel cuore, penso il
più significativo, è legato ad Alessandra, una bimba cieca in quanto priva di cervello
eppure una bimba serena e felice; la mattina quando si apriva la finestra e le si
diceva: “Buongiorno Alessandra”, lei faceva un sorriso che ripagava di qualunque notte
insonne. Quando Alessandra è morta, i medici ci hanno chiamato e ci hanno detto: “Volete
donare gli occhi”? Io lì per lì ho avuto una reazione, mi sono quasi sentita presa
in giro e mi sono detta: “Come, state sbagliando bambina, cioè la mia bambina non
vedeva, era cieca”. E i medici ci hanno detto: “Sì, era cieca perché non aveva il
cervello ma gli occhi sono sanissimi”. Così Alessandra quando è morta ha regalato
i suoi due occhi a due bimbi, uno per ciascun bimbo. A me è sempre rimasto questo
pensiero: lei che non ha mai visto la luce, è diventata portatrice di luce per due
bimbi ed ha regalato tutto di sé fino alla fine.