2008-02-27 14:56:11

Accogliere la vita sofferente nella sua integralità: all’indomani della chiusura del Congresso della Pontificia Accademia per la Vita sul malato morente, la riflessione del prof. Pessina e la testimonianza del dott. Sanna


Chiude oggi la tre giorni di lavori della XIV assemblea plenaria della Pontificia Accademia per la Vita. L’assise è stata accompagnata da un Congresso internazionale sul tema “Accanto al malato inguaribile e al morente”. Momento culminante dell’evento, l’udienza del Papa ai congressisti, lunedì scorso. Benedetto XVI ha ribadito che una società incapace di accogliere con amore i sofferenti è una società disumana. Sui temi affrontati dal Papa, Fabio Colagrande ha raccolto la riflessione del prof. Adriano Pessina, direttore del Centro di Bioetica all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano:RealAudioMP3


R. - Il discorso del Santo Padre è stato, come sempre, di grande respiro umano ed anche di una grande lucidità intellettuale, perché ha delineato la fatica dell’accogliere la vita, laddove la vita si sta spegnendo e, quindi, la necessità di riempire la solitudine delle persone che si accostano all’ultimo passaggio. Benedetto XVI ha ricordato, con grande chiarezza, la dimensione della fede cristiana che vede nella morte un passaggio ed un ritorno nell’amore misericordioso di Dio, ma ha anche richiamato, allo stesso tempo, ad una responsabilità umana di chi non riconosce questa verità, di essere accanto a coloro che stanno per morire. Un grande insegnamento, quindi, sulla consapevolezza del valore - direi - della finitezza umana.

 
D. - Benedetto XVI ha toccato anche il tema delicato del dovere morale di somministrare da parte dei medici e di accogliere da parte del paziente quei mezzi di preservazione della vita, che nella situazione concreta risultino ordinari e, dall’altra parte, ha invece parlato delle terapie rischiose spiegando che il ricorso ad esse sarà da considerare moralmente lecito, ma facoltativo…

 
R. - Direi che il Santo Padre ha confermato, nelle sue linee generali, il pensiero, che non è solo peraltro il pensiero della Chiesa. Un pensiero che sta sempre di più diventando concreto. In un’epoca in cui la tecnologia può molto sulla nostra dimensione finale, occorre trovare un equilibrio. Un equilibrio che metta al centro la persona umana nella sua singolarità e - direi - che questi giorni di studio della Pontificia Accademia dovrebbero aiutarci a comprendere, in qualche modo, quali sono gli elementi in gioco in una assistenza che non deve finire o in un abbandono terapeutico o in una sorta di tragica scorciatoia che è il procurare o l’anticipare la morte delle persone. Siamo in un’epoca in cui possiamo e dobbiamo permetterci il dovere di accogliere la vita sofferente e di usare i mezzi più adeguati che abbiamo. Questo comporta, ovviamente, tutto uno sforzo di riflessione a tutto campo.

Dal Papa arriva dunque l’invito a guardare la persona sofferente nella sua globalità abbracciando tutte le sue esigenze, fisiche, emozionali e spirituali. Proprio questo è il principio che ispira l’attività del Centro di cura e riabilitazione Santa Maria Bambina di Oristano, promosso dalla Fondazione diocesana “Nostra Signora del Rimedio”. Una struttura all’avanguardia che, in 5 anni, ha assistito 1500 pazienti affetti da gravi cerebrolesioni e 500 in stato di coma. Per una testimonianza su questa esperienza, Alessandro Gisotti ha intervistato il dott. Giovanni Maria Sanna, direttore del Centro di Oristano:RealAudioMP3


R. - La nostra opera consiste nel vedere queste persone in modo globale e con una dignità tale che non può che essere l’immagine stessa del Cristo. Noi ci avviciniamo a queste persone, cercando di aiutarle per quello che è possibile. E’ possibile aiutarle a guarire? Allora facciamo in modo di dar loro tutto ciò che è necessario perché possano guarire. Altrimenti, cerchiamo di accompagnarli alla morte facendogli conoscere cosa è Gesù Cristo e cosa li può attendere dopo la morte.

 
D. - Dunque, lo spirito che anima il centro di cura e di riabilitazione è di rifiutare radicalmente l’eutanasia, ma anche l’accanimento terapeutico?

 
R. - E non soltanto l’eutanasia attiva. Non c’è infatti soltanto quell’eutanasia, ma c’è anche una eutanasia passiva, che è quella di non curarsi oppure di curarsi solo di una parte della persona, di risolvere un solo problema. La persona è integra sia nella sua parte corporale che nella sua spirituale. Questo è ciò che noi vogliamo fare: vogliamo creare un ambiente intorno che faccia sentire la persona come tale. Una persona, per definizione, non è soltanto l’ammalato, ma è la persona sofferente. Quando c’è un ragazzo in coma, perché ha avuto un incidente stradale, la sofferenza è triplice: c’è l’ammalato, ci sono i suoi familiari, ci sono i suoi amici. A tutti questi noi dobbiamo fare attenzione nella nostra opera quotidiana.

 
D. - Tra l’altro, il Papa proprio parlando all’Accademia per la Vita ha sottolineato - riprendendo delle parole di Madre Teresa - che nessuno dovrebbe mai morire da solo, abbandonato a se stesso. E’ anche questa la vostra esperienza?

 
R. - Esatto, è proprio questa la nostra esperienza. Il centro di cura e riabilitazione Santa Maria Bambina sta facendo uno sforzo affinché la persona non sia soltanto l’ammalato, ma sia persona anche il familiare. Venga cioè aiutato anche il familiare. Il malato grave, che viva o che muoia, è importante che abbia il familiare vicino, che abbia gli amici vicini. E’ necessario creare un ambiente umano intorno alla persona sofferente. Questa è per me la vera visione globale dell’uomo. Non può esserci soltanto una visione materialistica.







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