Mons. Elio Sgreccia: una società che mette a morte i malati terminali consentendo
l'eutanasia ha smarrito il senso autentico della solidarietà al morente
Prima di essere ricevuti in udienza da Benedetto XVI, i partecipanti alla 14.ma Assemblea
generale della Pontificia Accademia per la Vita avevano assistito questa mattina all'apertura
dei lavori - che si protrarranno fino a domani - da parte del presidente dell'Accademia,
il vescovo Elio Sgreccia. Al microfono di Giovanni Peduto, il presule
sintetizza le questioni affrontate nel suo intervento, in particolare gli aspetti
etici della tutela della vita umana nella sua fase finale e le questioni connesse
con il ricorso all’eutanasia:
R. -
Ho sottolineato che è la terza volta che la Pontificia Accademia per la Vita viene
a riproporre il tema dell’assistenza al morente, la condanna dell’eutanasia e le modalità
obbligate per i medici nella loro condotta e nella loro somministrazione del sostegno,
delle terapie e delle cure. La prima volta, nel ’99, abbiamo esaminato sia gli atteggiamenti
sociali, sia la psicologia di questa società, che fa certamente fatica a pensare alla
morte, che fa fatica ad accogliere il morente e ad assistere il morente, perché è
tutta protesa sulla produttività. Ed abbiamo anche poi esaminato tutti gli aspetti
medici dell’assistenza. Più recentemente, nel 2004, abbiamo preso in esame una categoria
speciale che è quella che riguarda lo stato vegetativo persistente, dove erano appuntate
le prime proposte di eutanasia per questa categoria di pazienti, che alle volte vivono
a lungo, che non hanno coscienza e che vengono appunto trattati come vegetali, anche
se vegetali non sono come si sa. Abbiamo, quindi, voluto precisare tutti i doveri
di assistenza che ci sono in questi casi. Questa volta, invece, vogliamo prendere
in esame l’ultimo tratto di questa vita e cioè il malato non più guaribile e il morente
e quindi il malato più fragile che ci sia, il più afflitto anche dalla solitudine
e dalla coscienza spesso pienamente consapevole di dover morire a breve. Abbiamo scelto
questa categoria di paziente perché si possano, da una parte, offrire tutti gli aiuti
della speranza, della speranza cristiana e, dall’altra parte, si possano dare tutti
i debiti sostegni dell’assistenza medica. Ho annunciato, quindi, il programma dei
lavori e quelli che saranno i temi affrontati, partendo dalla somministrazione delle
terapie e come ci si deve regolare davanti alle terapie rischiose o straordinarie;
come ci si deve regolare con le cure e le terapie palliative, quando la speranza della
guarigione non c’è più; ma anche come si deve gestire il dolore e le terapie analgesiche;
e, infine, l’importanza dell’informazione al paziente moribondo e quindi anche l’assistenza
religiosa e teologica. Tutto questo, perché in questo momento che è il più fragile,
il più solitario, il più afflitto venga illuminato dalle forze migliori della medicina,
della società e della fede.
D. - L’eutanasia, letteralmente
“dolce morte”, è presentata appunto come una fine umana per chi soffre …
R.
– Così viene presentata in una società del benessere, con un volto seducente. Si tratta
in realtà dell’anticipazione della morte. E’ una morte inflitta, è un abuso sul dono
della vita, che non appartiene a nessuno, neanche il malato stesso può gestire arbitrariamente
la sua vita. Di fronte a queste proposte di eutanasia non basta dire “no”, che è scontato
e che è stato ripetuto, perché rappresenta uno dei grandi delitti che si commettono.
Anche il paziente che si trova sconfortato e che chiedesse di morire prima non va
certamente accontentato in questo campo. La società e la medicina vengono chiamate
e questa volta con una maggiore attenzione ad una loro responsabilità.
D.
- Potrebbe diventare l’eutanasia uno strumento per eliminare persone che sarebbe costoso
curare?
R. – E’ la filosofia che sottintende, che
è sottesa nell’attuale spinta pro-eutanasia e suicidio assistito che ha già avuto
le sue prime manifestazioni in Olanda, in Belgio e adesso preme sul Lussemburgo e
la Danimarca. Non è tanto, quindi, che si debba o che ci si stia preoccupando della
sofferenza del paziente, anche perché ora come ora il dolore è dominabile da parte
della medicina. Il fatto è che non abbiamo il coraggio e la forza e molte volte anche
il desiderio di impegnare le forze economiche in malattie che durano molto e che costano
a coloro che stanno bene, a coloro che si dovrebbero impegnare nell’assistenza. Se
non si mobilita la responsabilità e la solidarietà, se permettiamo che scompaia la
solidarietà accanto al morente, come sta purtroppo accadendo accanto a chi chiede
di nascere dopo essere stato concepito, la società stessa cade in un precipizio, proprio
perché perde i suoi valori fondamentali e il solidarismo.