Ancora critica la situazione al confine tra Iraq e Turchia. Nelle ultime ore aerei
di Ankara hanno bombardato nuovamente postazioni di ribelli curdi del Pkk nella regione
montuosa di Hakurk, nel nord dell’Iraq. Altri 41 militanti del Pkk e due soldati turchi
sono morti negli scontri. Gli Usa intanto auspicano che l’operazione militare di Ankara
sia breve. Una situazione drammatica dunque che coinvolge tutto il Kurdistan iracheno,
dove molti cristiani hanno trovato riparo. Ce ne parla don Renato Sacco, esponente
di Pax Christi Italia, appena rientrato dalla regione e intervistato da Stefano Leszczynski
R. –
Direi che il Nord dell’Iraq - quella regione che chiamiamo il Kurdistan iracheno e
che vorrebbe con molta forza l’autonomia, il riconoscimento a tutti i livelli - è
la zona più “sicura”, più controllata anche militarmente nel Nord. Qui hanno trovato
rifugio migliaia e migliaia di cristiani che invece sono fuggiti da altre città e
soprattutto da Mosul, che è forse una delle città più invivibili, a tutt’oggi, dell’Iraq,
e anche da Baghdad.
D. – Quanto è delicata quest’area
dell’Iraq nella geopolitica attuale?
R. – Kirkuk
galleggia sul petrolio e il Kurdistan iracheno sta facendo di tutto perché si arrivi
ad un referendum – che è già stato però rinviato – per annettere questa grande città,
con oltre un milione di abitanti, al Kurdistan. Questo sarebbe una grossa ricchezza:
certo è che la Turchia non permetterà mai che il Kurdistan si annetta Kirkuk ed abbia
il controllo del petrolio così pesante ed importante. Temo quindi che ci siano ripercussioni.
D.
– Si ha l’impressione che la comunità internazionale abbia un po’ distolto lo sguardo
da quello che succede nella parte settentrionale del Paese?
R.
– Il rischio è che ci sia proprio il disinteresse, o meglio, nel Nord c’è un interesse
per il business. Ad Arbil ci sono anche molte ditte europee, anche italiane, non tanto
per una condivisione ma per un possibile business. Forse davvero c'è bisogno di un
richiamo, partendo dalla sofferenza di chi vive la situazione di profugo, di persecuzione,
di minacce, di integralismo, di ogni violenza, un richiamo alla comunità internazionale
a non distogliere lo sguardo. E allora forse la comunità internazionale potrà ancora
fare molto, investendo non sulle armi, sulla violenza, su interventi militari, ma
sul lavoro dal basso, di ascolto, di condivisione e di dialogo.