La crisi del calcio al centro di un incontro promosso dai gesuiti de "La Civiltà Cattolica"
“Il calcio italiano tra crisi e speranze” è il titolo dell’incontro promosso da "La
Civiltà Cattolica", quindicinale dei gesuiti, tenuto sabato pomeriggio a Roma. Tra
i partecipanti, Giancarlo Abete, presidente della Federazione Italiana Giuoco Calcio,
Roberto Ghiretti, docente di Marketing sportivo all’Università di Parma e il padre
gesuita Farncesco Occhetta, scrittore de "La Civiltà Cattolica", autore di un articolo
dal titolo “Restituire al calcio i suoi valori” pubblicato sul numero di Civiltà Cattolica
del 19 gennaio scorso. I lavori sono stati introdotti dal padre gesuita Antonio Spadaio.
Luca Collodi ha chiesto a padre Francesco Occhetta, il motivo che ha
spinto i gesuiti ad occuparsi di sport e di calcio italiano, in particolare:
R. –
Come gesuiti ci siamo un po’ chiesti se il calcio sia anzitutto chiamato a formare
uomini o campioni. Ci siamo chiesti anche se basta vincere un campionato mondiale
di calcio per sminuire anche una situazione di crisi e di degrado e ci chiedevamo
anche, nell’apertura del nostro articolo, perchè due campioni che litigano in un mondiale
non si riescono a perdonare. Queste sono tutte domande etiche e che toccano il nostro
vivere insieme e la nostra società. Da una parte denunciamo una crisi ma soprattutto
vorremmo far risplendere i segni di speranza che ha il nostro Paese. Quindi, custodire
i valori sociali del calcio significa garantire speranza e futuro alla nostra società
ma non solo: siamo chiamati a rilanciare la speranza in un Paese che si sta chiudendo
nel privato, dove c’è paura di un po’ di tutto, anche di incontrare il giocatore che
mi sfida. Per non far diventare il calcio un detonatore sociale è necessario recuperare
quei valori che fino agli anni ’80 c’erano nel nostro paese e che a lungo hanno garantito
pace, giustizia, solidarietà e anche perdono.
D.
– Padre Occhetta, si può ancora dire che il calcio è un po’ un valore aggiunto della
società italiana?
R. – E’ ancora vero, perché dire
cultura italiana è dire calcio. Pensi che in Italia ci sono un milione e mezzo di
giocatori di calcio, ci sono 54 mila squadre, si disputano 700 mila partite all’anno.
Sono 23 milioni le persone legate al calcio, persone che accompagnano i ragazzi, allenatori,
volontari che prestano il loro servizio nel tagliare l’erba, etc, e ci sono 32 milioni
di tifosi: è tutto il nostro Paese! Il calcio è certamente il valore aggiunto della
nostra società, che permette una dimensione ludica di amicizia, di gioia. Chi non
si ricorda le partite che si facevano in oratorio da giovani? Ma non bisogna che il
calcio professionistico, che è in crisi, intacchi e inquini il calcio amatoriale che
è invece fatto ancora di valori e di persone generose.
D.-
Si può parlare di crisi culturale del calcio?
R.
– Nel calcio c’è questa tesi fondamentale, secondo noi: girano troppi soldi. Le 20
squadre di calcio di Serie A spendono 660 milioni di euro per gli stipendi dei giocatori.
Gli sponsor impongono risultati da brivido. Gli allenatori diventano, invece di essere
testimoni ed esempi per i ragazzi, degli addestratori a cui interessa selezionare
i bravi. Le famiglie rischiano di privilegiare il sogno di avere un campione in casa
piuttosto che accompagnarli nella fatica degli studi e formare un uomo. La nostra
società deve stare attenta.