Sembra non esserci tregua per il Kenya, percorso da sanguinosi scontri tra sostenitori
del presidente Kibaki e seguaci del leader dell’opposizione, Odinga, scoppiati dopo
le elezioni del 27 dicembre che hanno riconfermato al potere il capo dello Stato.
A fianco dei contrasti politici, anche le rivalità etniche tra Kikuyu, a cui appartiene
Kibaki, e Luo, base elettorale di Odinga. Almeno 13 persone sono morte la scorsa notte
nelle città di Nakuru e Naivasha, nella Rift Valley. Le vittime si sommano alle altre
64, i cui corpi straziati sono stati portati all’ospedale di Nakaru. Il bilancio provvisorio
delle violenze supera ormai gli 800 morti: tra questi, anche padre Michael Kamau Ithondeka,
vice rettore del seminario Mathias Mulumba di Tindinyo, ucciso sabato scorso proprio
nella Rift Valley. Il rettore dell’istituto, padre Dominic Kimemgiph, all’Agenzia
Fides ricorda il religioso assassinato come “un bravo insegnante, che desiderava trasmettere
ai suoi studenti” la conoscenza delle Sacre Scritture. Sulla situazione oggi in Kenya,
Giada Aquilino ha raggiunto telefonicamente a Nairobi il padre comboniano
Renato Kizito Sesana, da 20 anni nel Paese africano:
R. –
In Kenya, come in tutta l’Africa, l’appartenenza etnica è importante. Qui, però, non
è mai arrivata ad un punto tale da diventare una forma di sopraffazione verso gli
altri. Devo anche dire che, negli ultimi due anni, l’opposizione ha lavorato molto
sulla questione etnica, ripetendo continuamente alla gente questa frase: “E’ arrivato
il nostro turno. Dopo i Kikuyu, che sono stati al potere con il primo e il secondo
presidente, adesso è il nostro turno, è il turno dei Luo”. In realtà, poi, questa
identificazione etnica è molto artificiosa e fasulla, tanto più che la vera divisione
in Kenya non è fra i Luo ed i Kikuyu, ma fra ricchi e poveri.
D.
– In base a quali dinamiche c’è tale divisione fra ricchi e poveri?
R.
– C’è un Paese che dall’indipendenza ad oggi ha sempre seguito una politica capitalistica
e di libero mercato. I due contendenti appartengono a due fra le famiglie più ricche
del Kenya. In questi giorni hanno purtroppo ottenuto il risultato di far sì che i
poveri si uccidessero a vicenda, a loro nome.
D.
– Quali sono oggi le ricchezze del Kenya?
R. – Il
the, il caffè e il turismo, ma soprattutto la vera ricchezza è la gente. Il Kenya
ha una serie di università che sfornano intorno ai 10-15 mila laureati ogni anno ed
è diventato un polo di tecnologia informatica. La ricchezza del Kenya è stata pure
la stabilità del Paese, con Nairobi che è divenuta in questi anni il centro commerciale
più importante di tutta la zona, ma anche il centro per gli aiuti umanitari per i
Paesi vicini. Non dimentichiamo che, a parte la Tanzania, tutti i Paesi confinanti
col Kenya (Somalia, Etiopia, Sudan, Uganda) sono stati coinvolti in guerre, in disastri
e in calamità di vario genere.
D. – E invece l’altro
Kenya?
R. – E’ quello povero. La maggioranza degli
immigrati nelle città è accorsa per realizzare il sogno di una vita migliore e si
trova invece in ghetti, dai quali non si riesce ad uscire.
D.
– Qual è la speranza della Chiesa per il Kenya?
R.
- Coloro che hanno fatto le manifestazioni e causato i morti rappresentano una percentuale
minima della popolazione del Kenya. La maggioranza della popolazione resta profondamente
buona. Sono, quindi, sicuro che sarà questa gente a rappresentare la base da cui partire
per la ricostruzione della società civile nel Paese.