Il presidente Bush dal Kuwait elogia i progressi fatti in Iraq e ammonisce Iran e
Siria a non sostenere i terroristi
Prosegue la missione diplomatica del presidente statunitense George W. Bush nei Paesi
arabi. A Kuwait City, dove è giunto ieri, il capo della Casa Bianca ha incontrato
il comandante delle operazioni militari in Iraq, il generale David Petraeus, e ha
parlato della situazione nel Paese del Golfo puntando il dito contro Siria ed Iran.
Il nostro servizio:
In Iraq
sta tornando la speranza perché al Qaeda ha subito colpi duri in questi ultimi mesi.
Il presidente Bush, incontrando i soldati americani, ha confermato la strategia statunitense,
che, come previsto, mira a ritirare 20 mila uomini entro il prossimo mese di luglio.
Dunque le cose vanno bene - secondo il presidente USA - e sarebbero numerosi i progressi
fatti nell’ultimo anno, ma - afferma - non bisogna abbassare la guardia perchè c’è
ancora tanto lavoro da fare. In questo quadro Bush ha spezzato una lancia a favore
del governo di Baghdad, affermando che è quasi impossibile “passare all'istante dalla
tirannia alla democrazia”. Oggi fra l’altro il parlamento iracheno ha approvato una
misura molto attesa per la riconciliazione nazionale che prevede la riabilitazione
degli ex membri del Baath, il partito di Saddam Hussein. Il Capo della Casa Bianca
ha quindi sottolineato che un successo a lungo termine in Iraq è di vitale importanza
per la stabilità in tutto il Medio Oriente. Per questo tutti i Paesi dell’area devono
dare il proprio contributo. Senza mezzi termini il presidente si è rivolto alla Siria
chiedendo a Damasco di bloccare il flusso di terroristi che seminano violenza in Iraq.
Ancora più forte il monito all’Iran, che - afferma Bush - deve smetterla “di appoggiare
le milizie irachene nei loro attacchi contro le truppe statunitensi e le forze governative
locali”.
La visita di Bush in Terra Santa Il presidente Bush
è arrivato oggi in Bahrain e successivamente visiterà gli Emirati Arabi Uniti, l’Arabia
Saudita e l’Egitto. Tra i vari obiettivi della suo tour, quello di sollecitare ancora
i Paesi arabi a sostenere i negoziati di pace fra israeliani e palestinesi. Un intento
rilanciato con forza anche nei giorni scorsi durante la sua prima missione in Terra
Santa. Ma come valutare proprio questa visita nei Territori e in Israele? Philippa
Hitchen Lo ha chiesto all’arcivescovo emerito di Washington, cardinale Theodore
Edgar McCarrick:
R. –
I think it was a good visit... Penso che sia stata una visita positiva e
che alle persone che già avevano la speranza gliene abbia data ancora di più e a quelle
che non ne avevano gliene abbia donata almeno un po’. E’ realista il presidente? Io
spero di sì. Spero che, lavorando tutti insieme, riusciremo ad arrivare ad una soluzione.
Non risolverà tutti i problemi che esistono. Per esempio, il problema di Gaza andrà
avanti probabilmente ancora per un po’. Ma darà forse la sensazione alla gente che
si sta concludendo un lavoro che è stato avviato da tempo e che talvolta non ha avuto
sviluppi.
D. – Il presidente Bush ha parlato apertamente dell’occupazione
israeliana nei territori palestinesi. C’è un cambio di atteggiamento da parte americana
che potrebbe insistere sull’abbandono dei territori da parte di Israele?
R.
– I think it marks another stage... Penso che sottolinei un altro stadio
nel viaggio verso una duplice soluzione. Credo che il presidente non avrebbe usato
questa espressione se gli avessero anticipato che avrebbe creato qualche perplessità
in alcune zone di questa area. Penso tuttavia che mostri che egli sia più realista
di quanto possiamo pensare, e che creda che, comunque si chiami la situazione che
stiamo affrontando, ci deve essere una soluzione, e che questa soluzione debba avvenire
il più presto possibile.
Raid turchi nel Kurdistan iracheno Improvvisa
escalation militare nel Kurdistan iracheno, dove l’esercito turco ha scatenato ieri
una nuova offensiva nella provincia di Dahuk. Secondo Ankara, nel nord Iraq troverebbero
riparo i guerriglieri curdi del PKK, responsabili di numerosi attentati in Turchia,
l’ultimo contro la città turca di Diyarbakir, il 3 gennaio scorso, in cui sono morte
sei persone. Dal mese di dicembre, inoltre, sembra essersi rafforzata la cooperazione
tra Washington ed Ankara contro le basi del PKK nel Kurdistan iracheno. Quanto sono
alti dunque i rischi che Ankara intensifichi le proprie operazioni militari nel nord
dell’Iraq? Stefano Leszczynski lo ha chiesto a Paolo Quercia, analista
del Centro militare di studi strategici:
R. –
Erdogan è più prudente rispetto ai militari e alla parte secolare nazionalistica in
quanto la sua piattaforma di islam moderato lo porta a non enfatizzare l’elemento
nazionalista od etnica e tenta, quindi, di ridurre l’effetto delle operazioni.
D.
– E’ possibile che gli Stati Uniti abbiano cambiato la loro politica nei confronti
della questione curda, lasciando così – tutto sommato – mano libera alla Turchia nell’Iraq
settentrionale?
R. – Certo gli Stati Uniti hanno
avuto questo problema: da un lato la Turchia come alleato strategico di lungo periodo
degli americani, mentre i curdi del nord dell’Iraq come alleato tattico – di breve
periodo – ma utile per evitare il deterioramene totale della situazione irachena.
Il Kurdistan iracheno è infatti la parte più pacifica di tutto l’Iraq. Ovviamente
gli americani hanno molta paura che queste operazioni della Turchia nell’Iraq settentrionale
portino ad una destabilizzazione totale dell’Iraq in un momento in cui qualche passo
avanti sulla stabilizzazione si inizia ad intravedere.
D.
– A queste operazioni, secondo lei, potrebbero corrispondere dei prossimi attacchi
in territorio curdo da parte del PKK?
R. – Questa
è una domanda veramente difficile a cui rispondere. Bisognerebbe chiedersi perché
il PKK ha rotto l’armistizio: se si è trattato di un fenomeno etnico la cui logica
è tutta interna all’elemento curdo o se ci sono stati, invece, attori esterni che
hanno agito sulle strutture del PKK per creare un problema geopolitico agli Stati
Uniti d’America.
Campagna di Amnesty International per la chiusura di
Guantanamo A sei anni dall’apertura del carcere americano di Guantanamo a Cuba,
Amnesty International rilancia la campagna per la chiusura del penitenziario e la
fine delle detenzioni illegali nel contesto della “guerra al terrore”. Un documento
firmato da oltre 1.200 parlamentari di tutto il mondo è stato presentato dall’organizzazione
all'amministrazione statunitense, mentre a Washington la polizia ha fermato 81 persone
che protestavano, nel corso di una manifestazione non autorizzata, davanti alla Corte
Suprema contro il mantenimento del carcere. Paolo Ondarza ha intervistato Paolo
Pobbiati, presidente di Amnesty International Italia:
R. –
Il risultato più importante è stato quello di accrescere la sensibilità su quanto
avviene in questo carcere. Oggi sono diverse le istituzioni internazionali che si
sono mobilitate in molti governi che hanno chiesto o stanno chiedendo la chiusura
di Guantanamo all’amministrazione statunitense. Bush si è pronunciato sulla chiusura
di Guantanamo, ma purtroppo a queste affermazioni non è seguito alcun elemento concreto.
D. – Vogliamo ricordare cosa accade a Guantanamo?
R.
– A Guantanamo sono oggi detenute circa 300 persone. La maggior parte di queste sono
state arrestate in maniera assolutamente illegale ed una sola di loro è stata processata.
Le 500 persone circa che sono state rilasciate in questi sei anni, sono state rilasciate
senza che fosse emessa a loro addebito alcuna accusa, senza che venisse rilevata alcuna
colpevolezza da parte loro. L’85 per cento delle persone che sono transitate per Guantanamo,
addirittura, non sono state nemmeno ar-restate dagli americani, ma sono state arrestate
da loro alleati o addirittura da bande di cacciatori di taglie che spesso in questa
pesca a strascico hanno bloccato e fermato persone che avevano l’unico torto di trovarsi
nel posto sbagliato al momento sbagliato. Questa sorta di limbo giuridico in cui si
trova Guantanamo, al di fuori delle tutele previste dalle Convenzioni di Ginevra e
al di fuori anche delle tutele previste dalla legge americana, fa sì che queste persone
abbiano anzitutto un limitatissimo accesso ai diritti fondamentali e, quindi, alla
contestazione stessa della legittimità della propria detenzione e al diritto ad avere
un processo. Ma l’utilizzo di pratiche che possono essere tranquillamente configurate
come torture o come trattamenti inumani e degradanti, la volontà di annichilimento
nei confronti di queste persone, sono poi quelle che noi abbiamo verificato anche
attraverso tante testimonianze.
Opposizione in testa nelle elezioni
a Taiwan Urne chiuse questa mattina a Taiwan dove sedici milioni e mezzo di
votanti si sono recati ai seggi per il rinnovo del Parlamento. In lizza 423 candidati
di 12 partiti per i 113 posti di deputato al parlamento nazionale. Secondo quanto
riferito dalla tv locale, il Partito Nazionalista d’opposizione è al momento in testa
con 57 seggi conquistati, mentre i democratici progressisti sono indietro con soli
12 seggi, dei 69 finora scrutinati. Con questa tornata elettorale si apre un periodo
cruciale per le relazioni tra Taiwa e la Repubblica Popolare cinese, che considera
Taipei una sua provincia ribelle. Dopo aver rinnovato il Parlamento, gli elettori
taiwanesi saranno chiamati, in marzo, ad eleggere un nuovo presidente.
Libano:
ennesimo rinvio dell'elezione del nuovo presidente L'elezione del nuovo presidente
della Repubblica libanese è stata rinviata al 21 gennaio, per la dodicesima volta
dal 25 settembre scorso. Le divergenze sulla composizione del nuovo governo hanno
indotto il presidente dell'assemblea e capo dell’opposizione Nabih Berri a rinviare
la sessione, nonostante gli sforzi del segretario generale della Lega Araba, Amr Mussa,
di far accettare ai leader rivali il piano arabo per metter fine alla crisi che da
mesi paralizza la vita istituzionale del Paese.
Pakistan: ‘no’ ad inchiesta
ONU sull'omicidio di Benazir Bhutto Il presidente pakistano Pervez Musharraf
ha escluso la possibilità di un’inchiesta ONU sull’omicidio della leader dell’opposizione
Benazir Bhutto, avvenuto il 27 dicembre scorso. A chiedere un intervento delle Nazioni
Unite era stato il Partito popolare della Bhutto, mentre Musharraf ha ribadito che
il Pakistan è in grado da solo di svolgere le indagini grazie anche all’aiuto della
polizia londinese di Scotland Yard.
Colombia: Uribe rifiuta di mediare con
le FARC Il presidente colombiano Alvaro Uribe ha respinto la proposta del suo
collega venezuelano, Hugo Chavez, di ritirare la definizione di ‘terroristi’ per
i guerriglieri delle FARC al fine di risolvere il problema degli ostaggi attraverso
il dialogo. Il governo colombiano proseguirà la “lotta fino a sconfiggere questi gruppi”,
ha fatto sapere un portavoce di Uribe. Kenya: appello dell'ONU
per la ripresa delle trattative In Kenia è necessario il dialogo per uscire
dalla crisi che si è innescata dopo le contestate elezioni dello scorso dicembre.
E’ il nuovo appello del segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, che
si è rivolto al presidente Mwai Kibaki, accusato di estesi brogli, e il leader dell’opposizione
Raila Odinga, ufficialmente sconfitto nella tornata elettorale. Anche gli Stati Uniti
hanno esortato le parti a riprendere le trattative, definite “imperative”. In Kenya
secondo stime Onu a due settimane dallo scoppio delle violenze il numero dei morti
è arrivato a 500 persone, mentre 250 mila sono gli sfollati.
Darfur: l'UE
invierà rinforzi Francia, Belgio e Polonia invieranno aiuti militari in Africa.
Le forze per il mantenimento della pace verranno impiegate nel Ciad orientale e nella
Repubblica Centrale Africana, dove si trovano circa 234 mila rifugiati del Darfur
e circa 200 mila sfollati interni. La Francia si è impegnata a fornire all’Eufor (forza
di pace dell’UE) circa 1.300 uomini, che potranno diventare fino a 3.500 ed è pronta
a schierare da subito sul terreno mezzi di trasporto, tra cui una decina di elicotteri
e un aereo da trasporto.
Emergenza rifiuti in Italia Prosegue l’emergenza
rifiuti in Italia, con nuovi disordini a Cagliari davanti alla villa del presidente
della Regione Sardegna, Renato Soru, dove questa notte una folla si è radunata per
protestare contro l’arrivo dei rifiuti dalla Campania. Dura la condanna da parte del
premier Romano Prodi che ha difeso il senso di responsabilità e di solidarietà dimostrato
da Soru nell’accogliere i rifiuti campani. Negli scontri anche il sagrato dalle Basilica
di Nostra Signora di Bonaria è stato seriamente danneggiato, mentre oggi un'altra
nave piena di rifiuti è partita da Napoli. Martedì prossimo la questione approderà
al Parlamento europeo.
Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana
Anno LII no. 12 E'
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Bollettino del Radiogiornale. La richiesta può essere effettuata sulla home page del
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