2007-12-21 10:57:55

L'Italia ha bisogno di un sussulto di speranza per fermare il suo declino: così padre Cantalamessa nella terza predica d'Avvento, alla presenza del Papa


Stamani, padre Raniero Cantalamessa, predicatore della Casa Pontificia, ha dedicato alla speranza la terza ed ultima predica dell’Avvento alla presenza del Santo Padre e della Famiglia Pontificia, nella Cappella Redemptoris Mater del Palazzo Apostolico. Ecco il testo integrale della predica.
 

 
1. Gesú, il Figlio

 
“Dio, che aveva già parlato nei tempi antichi molte volte e in diversi modi ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio, che ha costituito erede di tutte le cose e per mezzo del quale ha fatto anche il mondo” (Eb 1, 1-2). Questo testo richiama da vicino la parabola dei vignaioli infedeli. Anche lì, Dio dapprima invia dei servi, poi “da ultimo” manda il Figlio, dicendo: “Avranno rispetto per mio Figlio” (Mt 21, 33-41).

 
In questa terza ed ultima meditazione, lasciando ormai da parte i profeti e Giovanni Battista, ci concentriamo esclusivamente sul punto di arrivo di tutto: il “Figlio”. In un capitolo del libro su Gesú di Nazaret, il papa illustra la fondamentale differenza tra il titolo “Figlio di Dio” e quello di “Figlio”, senza altre aggiunte. Il semplice titolo di “Figlio”, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, è molto più pregnante che non “Figlio di Dio”. Quest’ultimo arriva a Gesú dopo una lunga trafila di attribuzioni: così era stato definito il popolo d’Israele e, singolarmente, il suo re; così si facevano chiamare i faraoni e i sovrani orientali e così si proclamerà l’imperatore romano. Da solo, esso non sarebbe stato sufficiente perciò a distinguere la persona di Cristo da ogni altro “figlio di Dio”.
Diverso è il caso del titolo di “Figlio”, senza altre aggiunte. Questo appare nei vangeli come esclusivo di Cristo ed è con esso che Gesú esprimerà la sua identità profonda. Dopo i vangeli è proprio la Lettera agli Ebrei a testimoniare con più forza questo uso assoluto del titolo “il Figlio”; esso vi ricorre per ben cinque volte.

 
Il testo più significativo in cui Gesú si definisce lui stesso “il Figlio” è Matteo 11, 27: “ Tutto mi è stato dato dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare”. Il detto, spiegano gli esegeti, ha una chiara origine aramaica e dimostra che gli sviluppi posteriori che si leggono, a questo proposito, nel vangelo di Giovanni hanno la loro remota origine nella coscienza stessa di Cristo.
Una comunione di conoscenza così totale e assoluta tra Padre e Figlio, nota il papa nel suo libro, non si spiega senza una comunione ontologica, o dell’essere. Le formulazioni posteriori, culminanti nella definizione di Nicea, del Figlio come “generato, non fatto, della stessa sostanza del Padre”, sono dunque sviluppi arditi, ma coerenti con il dato evangelico.
La prova più forte della coscienza che Gesú aveva della sua identità di Figlio è la sua preghiera. In essa la figliolanza non è solo dichiarata, ma vissuta. Per il modo e la frequenza con cui ricorre nella preghiera di Cristo, l’esclamazione Abbà attesta una intimità e familiarità con Dio che non ha l’eguale nella tradizione d’Israele. Se l’espressione è stata conservata nella lingua originaria e diventa il marchio della preghiera cristiana (cf. Gal 4,6; Rom 8, 15) è proprio perché si era convinti che era stata la forma tipica della preghiera di Gesú.

 
2. Un Gesú degli atei?

 
Questo dato evangelico getta una luce singolare sul dibattito attuale intorno alla persona di Gesú. Nell’introduzione del suo libro, il papa cita l’affermazione di R. Schnackenburg secondo cui “senza il radicamento in Dio la persona di Gesú rimane fuggevole, irreale e inspiegabile”. “Questo, dichiara il papa, è anche il punto di appoggio su cui si basa questo mio libro: considera Gesú a partire dalla sua comunione con il Padre. Questo è il vero centro della sua personalità” .
Ciò mette in luce, a mio parere, la problematicità di una ricerca storica su Gesú che non solo prescinda, ma escluda in partenza la fede; in altre parole, la plausibilità storica di quello che è stato definito a volte “il Gesú degli atei”. Non parlo, in questo momento, della fede in Cristo e nella sua divinità, ma di fede nell’accezione più comune del termine, di fede nell’esistenza di Dio.
Lungi da me l’idea che i non credenti non abbiano diritto di occuparsi di Gesú. Quello che vorrei mettere in evidenza, partendo dalle affermazioni citate del papa, sono le conseguenze che derivano da un tale punto di partenza, come cioè la “precomprensione” di chi non crede incida sulla ricerca storica enormemente di più di quella del credente. Il contrario di ciò che gli studiosi non credenti pensano.

 
Se si nega o si prescinde dalla fede in Dio, non si elimina solo la divinità, o il cosiddetto Cristo della fede, ma anche il Gesú storico tout court, non si salva neppure l’uomo Gesú. Nessuno può contestare storicamente che il Gesú dei vangeli vive e opera in continuo riferimento al Padre celeste, che prega e insegna a pregare, che fonda tutto sulla fede in Dio. Se si elimina questa dimensione dal Gesú dei vangeli non resta di lui assolutamente niente.

Se dunque si parte dal presupposto, tacito o dichiarato, che Dio non esiste, Gesú non è che uno dei tanti illusi che ha pregato, adorato, parlato con la propria ombra, o con la proiezione della propria essenza, per dirla con Feuerbach. Gesú sarebbe la vittima più illustre di quella che l’ateo militante Dawkins definisce “l’illusione di Dio” . Ma come si spiega allora che la vita di quest’uomo “ha cambiato il mondo” e, a distanza di duemila anni, continua a interpellare gli spiriti come nessun altro? Se l’illusione è capace di operare quello che ha operato Gesú nella storia, allora Dawkins e gli altri devono forse rivedere il loro concetto di illusione.

 
C’è una sola via d’uscita da questa difficoltà, quella che si è fatta strada nell’ambito del “Jesus Seminar” di Berkeley negli Stati Uniti. Gesú non era un credente ebreo; era nel fondo un filosofo itinerante, nello stile dei cinici; non ha predicato un regno di Dio, né una prossima fine del mondo; ha solo pronunciato massime sapienziali nello stile di un maestro Zen. Il suo scopo era di ridestare negli uomini la coscienza di sé, convincerli che non avevano bisogno né di lui né di altro dio, perché loro stessi portavano in sé una scintilla divina. Sono però – guarda caso - le cose che va predicando da decenni New Age! Un’ennesima immagine di Gesú, prodotto della moda del momento. È vero: senza il radicamento in Dio, la figura di Gesú rimane “fuggevole, irreale e inspiegabile”.

 
3. Preesistenza di Cristo e Trinità

 
Anche su questo punto, come sulla riduzione di Gesú a un profeta, il problema non si pone soltanto nella discussione con la critica non credente; si pone, in maniera e con spirito diversi, anche nella discussione teologica all’interno della Chiesa. Cerco di spiegare in che senso.
Circa il titolo di Figlio di Dio si assiste a una specie di risalita a monte nel Nuovo Testamento: All’inizio esso è messo in rapporto con la risurrezione di Cristo (Rom 1, 4; At ); Marco fa un passo indietro e lo pone in rapporto con il suo battesimo nel Giordano (Mc 1, 11); Matteo e Luca lo fanno risalire alla sua nascita da Maria (Lc 1, 35). La Lettera agli Ebrei opera il salto decisivo, affermando che il Figlio non ha cominciato ad esistere al momento della sua venuta tra noi, ma che esiste da sempre. “Per mezzo di lui, dice, [Dio] ha fatto il mondo”, egli è “l’irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza”. Una trentina di anni più tardi, il vangelo di Giovanni consacrerà questa conquista iniziando il suo vangelo con le parole: “In principio era il Verbo…”
Ora, sulla preesistenza di Cristo come Figlio eterno del Padre sono state avanzate, nell’ambito di alcune delle cosiddette “nuove cristologie”, delle tesi assai problematiche. In esse si afferma che la preesistenza di Cristo come Figlio eterno del Padre è un concetto mitico derivato dall'ellenismo. In termini moderni, esso significherebbe semplicemente che “il rapporto fra Dio e Gesù non si è sviluppato solo in un secondo tempo e per così dire casualmente, ma esiste a priori ed è fondato in Dio stesso”.

 
In altre parole, Gesù preesisteva in senso intenzionale, non reale; nel senso, cioè, che il Padre, da sempre, aveva previsto, scelto e amato come figlio il Gesù che un giorno sarebbe nato da Maria. Preesisteva, dunque, non diversamente da ognuno di noi, dal momento che ogni uomo, dice la Scrittura, è stato “ prescelto e predestinato” da Dio come suo figlio, prima della creazione del mondo! (cfr. Ef 1,4).

 
Insieme con la preesistenza di Cristo, cade, in questa prospettiva, anche la fede nella Trinità. Questa è ridotta a qualcosa di eterogeneo (una persona eterna, il Padre, più una persona storica, Gesú, più una energia divina, lo Spirito Santo); qualcosa, inoltre, che non esiste ab aeterno ma diviene nel tempo.

 
Mi limito a far notare come anche questa tesi non è nuova. L’idea di una preesistenza solo intenzionale e non reale del Figlio fu avanzata, discussa e rigettata dal pensiero cristiano antico. Non è vero, perciò, che essa è imposta dalle concezioni nuove, non più mitiche, che abbiamo di Dio, come non è vero che l’idea contraria, di una preesistenza eterna, era l’unica soluzione pensabile nel contesto culturale antico e che i Padri non avevano, dunque, possibilità di scelta.

 
Fotino, nel IV secolo, conosceva già l'idea di una preesistenza di Gesù “a modo di previsione” (kata pr^gnosin) o “a modo di anticipazione” (prochrestik^s). Contro di lui un sinodo decretò: “Se qualcuno dice che il Figlio, prima di Maria, esisteva solo secondo previsione e non che è generato dal Padre prima dei secoli per essere Dio e per mezzo suo far venire all'essere tutte le cose, sia anatema” . L’intenzione di questi teologi era lodevole: tradurre in un linguaggio comprensibile all’uomo d’oggi il dato antico. Purtroppo però, ancora una volta, quello che viene tradotto in linguaggio moderno non è il dato definito dai concili, ma quello condannato dai concili.

 
Già sant’Atanasio faceva notare che l’idea di una Trinità composta di realtà eterogenee compromette proprio quell’unità divina che con essa si vuole mettere al sicuro. Se poi si ammette che Dio “diviene” nel tempo, nessuno ci assicura che la sua crescita e il suo divenire siano finiti. Chi è divenuto diverrà ancora. Quanto tempo e fatica farebbe risparmiare a noi moderni una conoscenza meno superficiale del pensiero dei Padri!

 
Vorrei terminare questa parte dottrinale della nostra meditazione con una nota positiva, a mio parere di straordinaria importanza. Per quasi un secolo, da quando Wilhelm Bousset, nel 1913, scrisse il suo famoso libro sul Cristo Kyrios, nell’ambito degli studi critici ha dominato l’idea che l’origine del culto di Cristo come essere divino fosse da ricercare nel contesto ellenistico, quindi molto dopo la morte di Cristo.

 
Nell’ambito della cosiddetta “terza ricerca” sul Gesú storico, recentemente la questione è stata ripresa dalle fondamenta da Larry Hurtado, professore di lingua, letteratura e teologia del Nuovo Testamento a Edimburgo. Ecco la conclusione a cui egli giunge, al termine di una ricerca di oltre 700 pagine:

 
“La venerazione di Gesú come figura divina, esplose all’improvviso e presto, non poco alla volta e tardi, tra cerchie di seguaci del I secolo. Più in particolare, le origini stanno nelle cerchie cristiane giudaiche dei primissimi anni. Solo un modo di pensare idealistico continua ad attribuire la venerazione per Gesú come figura divina all’influenza decisiva della religione pagana e all’influsso dei convertiti gentili, presentandola come recente e graduale. La venerazione di Gesú come ‘Signore’, che trovava espressione adeguata nella venerazione cultuale e nell’obbedienza totale, era inoltre generale, non era confinata e attribuibile a cerchie particolari, ad esempio gli ‘ellenisti’ o i cristiani gentili di un ipotetico ‘culto di Cristo siriaco’. Con tutta la diversità del primo cristianesimo, la fede nella condizione divina di Gesú era incredibilmente comune”.
Questa rigorosa conclusione storica dovrebbe porre fine all’opinione, tuttora dominante in una certa divulgazione, secondo cui il culto divino di Cristo sarebbe un frutto posteriore della fede (imposto per legge da Costantino a Nicea nel 325, secondo Dan Brown, nel suo Codice da Vinci!).
4. La “bambina Speranza”

 
Oltre al libro su Gesú di Nazaret, il Santo Padre, nell’anno in corso, ci ha fatto dono anche dell’enciclica sulla speranza. L’utilità di un documento pontificio, oltre il suo contenuto altissimo, sta anche nel fatto che concentra su un punto l’attenzione di tutti i credenti, stimolando su di esso la riflessione. In questa linea, vorrei fare qui una piccola applicazione spirituale e pratica del contenuto teologico dell’enciclica, mostrando come il testo della Lettera agli Ebrei che abbiamo meditato può contribuire ad alimentare la nostra speranza.

 
Nella speranza - scrive l’autore della Lettera con una bellissima immagine destinata a divenire classica nell’iconografia cristiana - ”noi abbiamo come un'àncora della nostra vita, sicura e salda, la quale penetra fin nell'interno del velo del santuario, dove Gesù è entrato per noi come precursore” (Ebr 6, 17-20). Il fondamento di questa speranza è proprio il fatto che “negli ultimi tempi Dio ha parlato a noi per mezzo del Figlio”. Se ci dato il Figlio, dice san Paolo, “come non ci donerà ogni cosa insieme con lui?” (Rom 8,32). Ecco perché “la speranza non delude” (Rom 5,5): il dono del Figlio è pegno e garanzia di tutto il resto e, in primo luogo, della vita eterna. Se il Figlio è “l’erede di tutto” (heredem universorum) ( Ebr 1,2), noi siamo i suoi “coeredi” (Rom 8, 17).

 
I vignaioli iniqui della parabola, vedendo arrivare il figlio, dicono tra sé: “Costui è l'erede; venite, uccidiamolo, e avremo noi l'eredità” (Mt 21, 38). Nella sua onnipotenza misericordiosa, Dio Padre ha volto in bene questo disegno criminoso. Gli uomini hanno ucciso il Figlio e hanno avuto davvero l’eredità! Grazie a quella morte, sono diventati “eredi di Dio e coeredi di Cristo”.

 
Noi creature umane abbiamo bisogno di speranza per vivere, come dell'ossigeno per respirare. Si dice che finché c'è vita c'è speranza; ma e vero anche il rovescio: che finché c'è speranza c'è vita. La speranza è stata per molto tempo, ed è tutt'ora, tra le virtù teologali, la sorella minore, la parente povera. Si parla spesso della fede, più spesso ancora della carità, ma assai poco della speranza.

 
Il poeta Charles Péguy ha ragione quando paragona le tre virtù teologali a tre sorelle: due adulte e una bambina piccina. Vanno per strada tenendosi per mano (le tre virtù teologali sono inseparabili tra di loro!), le due grandi ai lati, la bambina al centro. Tutti, vedendole, sono convinti che sono le due grandi –la fede e la carità – a trascinare la bambina speranza al centro. Si sbagliano: è la bambina speranza che trascina le altre due; se si ferma essa, si ferma tutto .

 
Lo vediamo anche sul piano umano e sociale. In Italia si è fermata la speranza e con essa la fiducia, lo slancio, la crescita, anche economica. Il “declino” di cui si parla nasce da qui. La paura del futuro ha preso il posto della speranza. La scarsità delle nascite ne è il rivelatore più chiaro. Nessun paese ha bisogno di meditare l’enciclica del papa quanto l’Italia.

 
La speranza teologale è il “filo dall’alto” che sostiene dal centro tutte le speranze umane. “Il filo dall’alto” è il titolo di una parabola dello scrittore danese Johannes Jrrgensen. Parla del ragno che si cala dal ramo di un albero lungo un filo che lui stesso produce. Posandosi sulla siepe, tesse la sua rete, capolavoro di simmetria e di funzionalità. Essa è tesa ai lati da altrettanti fili, ma tutto è retto al centro da quel filo da cui è sceso. Se si tronca uno dei fili laterali, il ragno interviene, lo ripara e tutto è a posto, ma se si tronca il filo dall’alto (io una volta ho voluto verificare e ho visto che è vero) tutto si affloscia e il ragno scompare, sapendo che non c’è più nulla da fare. È un’immagine di quello che avviene quando si tronca il filo dall’alto che è la speranza teologale. Solo essa può “ancorare” le speranze umane alla speranza “che non delude”.

 
Nella Bibbia assistiamo a dei veri e propri sussulti o soprassalti di speranza. Uno di essi si trova nella terza Lamentazione: “ Io - dice il profeta - sono la persona che ha provato la miseria e la pena… Ho detto: È sparita la mia gloria, la speranza che mi veniva dal Signore”.

 
Ma ecco il sussulto di speranza che capovolge tutto. A un certo punto, l'orante dice a se stesso: “Ma le misericordie del Signore non sono finite; dunque in lui voglio sperare! Il Signore non rigetta mai, ma se affligge avrà anche pietà. Forse c'è ancora speranza “ (cf Lam 3, 1-29). Dall’istante che il profeta decide di tornare a sperare, il tono del discorso cambia completamente: la lamentazione si trasforma in supplica fiduciosa: “Il Signore non rigetta mai. Ma, se affligge, avrà anche pietà secondo la sua grande misericordia” (Lam 3, 32).

 
Noi abbiamo un motivo molto più forte per avere questo sussulto di speranza: Dio ci ha dato suo Figlio: come non ci donerà ogni cosa insieme con lui? A volte giova gridare a se stessi: “Ma Dio c’è e tanto basta!”. Il servizio più prezioso che la Chiesa italiana può fare, in questo momento al paese, è quello di aiutarlo ad avere un sussulto di speranza. Contribuisce a questo scopo chi (come ha fatto Benigni nel suo recente spettacolo in Tv) non ha paura di contrastare il disfattismo, ricordando agli italiani i tanti e straordinari motivi, spirituali e culturali, che essi hanno di avere fiducia nelle proprie risorse.

 
La volta scorsa parlavo di una aromaterapia basata sul sull’olio di letizia che è lo Spirito Santo. Di questa terapia abbiamo bisogno per guarire dalla malattia più perniciosa di tutte: la disperazione, lo scoraggiamento, la perdita di fiducia in sé, nella vita e perfino nella Chiesa.” “Il Dio della speranza vi riempia di ogni gioia e pace nella fede, perché abbondiate nella speranza per la virtù dello Spirito Santo” (Rom 15,13): così scriveva l’Apostolo ai Romani del suo tempo e ripete a quelli di oggi.

 
Non si abbonda nella speranza senza la virtù dello Spirito Santo. C'è un canto spiritual afro-americano, dove non si fa che ripetere continuamente queste poche parole: “C’è un balsamo in Gilead che guarisce le anime ferite” (There is a balm in Gilead / to make the wounded whole...). Gilead, o Galaad, è una località famosa nell’Antico Testamento per i suoi profumi e unguenti (cf Ger 8,22). Il canto prosegue dicendo: “A volte mi sento scoraggiato e penso che tutto sia inutile, ma viene lo Spirito Santo e ridà vita alla mia anima”. Gilead è per noi la Chiesa e il balsamo che guarisce è lo Spirito Santo. Egli è la scia di profumo che Gesú si è lasciato dietro, passando su questa terra.

 
La speranza è miracolosa: quando rinasce in un cuore, tutto è diverso anche se nulla è cambiato. “Anche i giovani faticano e si stancano, si legge in Isaia, gli adulti inciampano e cadono; ma quanti sperano nel Signore riacquistano forza, mettono ali come aquile, corrono senza affannarsi, camminano senza stancarsi” (Is 40, 30-31).

 
Dove rinasce la speranza rinasce anzitutto la gioia. L’Apostolo dice che i credenti sono spe salvi, “salvati nella speranza” (Rom 8, 24) e che perciò devono essere spe gaudentes “lieti nella speranza” (Rom 12, 12). Non gente che spera di essere felice, ma gente che è felice di sperare; felice già ora, per il semplice fatto di sperare.

 
Che in questo Natale il Dio della speranza, per virtù dello Spirito Santo e per intercessione di Maria “Madre della speranza”, ci conceda di essere lieti nella speranza e di abbondare in essa.

 
 







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