L'Italia ha bisogno di un sussulto di speranza per fermare il suo declino: così padre
Cantalamessa nella terza predica d'Avvento, alla presenza del Papa
Stamani, padre Raniero Cantalamessa, predicatore della Casa Pontificia, ha dedicato
alla speranza la terza ed ultima predica dell’Avvento alla presenza del Santo Padre
e della Famiglia Pontificia, nella Cappella Redemptoris Mater del Palazzo Apostolico.
Ecco il testo integrale della predica.
1.
Gesú, il Figlio
“Dio, che aveva già parlato nei tempi
antichi molte volte e in diversi modi ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente,
in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio, che ha costituito erede di
tutte le cose e per mezzo del quale ha fatto anche il mondo” (Eb 1, 1-2). Questo testo
richiama da vicino la parabola dei vignaioli infedeli. Anche lì, Dio dapprima invia
dei servi, poi “da ultimo” manda il Figlio, dicendo: “Avranno rispetto per mio Figlio”
(Mt 21, 33-41).
In questa terza ed ultima meditazione,
lasciando ormai da parte i profeti e Giovanni Battista, ci concentriamo esclusivamente
sul punto di arrivo di tutto: il “Figlio”. In un capitolo del libro su Gesú di Nazaret,
il papa illustra la fondamentale differenza tra il titolo “Figlio di Dio” e quello
di “Figlio”, senza altre aggiunte. Il semplice titolo di “Figlio”, contrariamente
a quanto si potrebbe pensare, è molto più pregnante che non “Figlio di Dio”. Quest’ultimo
arriva a Gesú dopo una lunga trafila di attribuzioni: così era stato definito il popolo
d’Israele e, singolarmente, il suo re; così si facevano chiamare i faraoni e i sovrani
orientali e così si proclamerà l’imperatore romano. Da solo, esso non sarebbe stato
sufficiente perciò a distinguere la persona di Cristo da ogni altro “figlio di Dio”.
Diverso è il caso del titolo di “Figlio”, senza altre aggiunte. Questo
appare nei vangeli come esclusivo di Cristo ed è con esso che Gesú esprimerà la sua
identità profonda. Dopo i vangeli è proprio la Lettera agli Ebrei a testimoniare con
più forza questo uso assoluto del titolo “il Figlio”; esso vi ricorre per ben cinque
volte.
Il testo più significativo in cui Gesú si
definisce lui stesso “il Figlio” è Matteo 11, 27: “ Tutto mi è stato dato dal Padre
mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non
il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare”. Il detto, spiegano gli esegeti,
ha una chiara origine aramaica e dimostra che gli sviluppi posteriori che si leggono,
a questo proposito, nel vangelo di Giovanni hanno la loro remota origine nella coscienza
stessa di Cristo. Una comunione di conoscenza così totale e assoluta tra
Padre e Figlio, nota il papa nel suo libro, non si spiega senza una comunione ontologica,
o dell’essere. Le formulazioni posteriori, culminanti nella definizione di Nicea,
del Figlio come “generato, non fatto, della stessa sostanza del Padre”, sono dunque
sviluppi arditi, ma coerenti con il dato evangelico. La prova più forte
della coscienza che Gesú aveva della sua identità di Figlio è la sua preghiera. In
essa la figliolanza non è solo dichiarata, ma vissuta. Per il modo e la frequenza
con cui ricorre nella preghiera di Cristo, l’esclamazione Abbà attesta una intimità
e familiarità con Dio che non ha l’eguale nella tradizione d’Israele. Se l’espressione
è stata conservata nella lingua originaria e diventa il marchio della preghiera cristiana
(cf. Gal 4,6; Rom 8, 15) è proprio perché si era convinti che era stata la forma tipica
della preghiera di Gesú.
2. Un Gesú degli atei?
Questo
dato evangelico getta una luce singolare sul dibattito attuale intorno alla persona
di Gesú. Nell’introduzione del suo libro, il papa cita l’affermazione di R. Schnackenburg
secondo cui “senza il radicamento in Dio la persona di Gesú rimane fuggevole, irreale
e inspiegabile”. “Questo, dichiara il papa, è anche il punto di appoggio su cui si
basa questo mio libro: considera Gesú a partire dalla sua comunione con il Padre.
Questo è il vero centro della sua personalità” . Ciò mette in luce, a mio
parere, la problematicità di una ricerca storica su Gesú che non solo prescinda, ma
escluda in partenza la fede; in altre parole, la plausibilità storica di quello che
è stato definito a volte “il Gesú degli atei”. Non parlo, in questo momento, della
fede in Cristo e nella sua divinità, ma di fede nell’accezione più comune del termine,
di fede nell’esistenza di Dio. Lungi da me l’idea che i non credenti non
abbiano diritto di occuparsi di Gesú. Quello che vorrei mettere in evidenza, partendo
dalle affermazioni citate del papa, sono le conseguenze che derivano da un tale punto
di partenza, come cioè la “precomprensione” di chi non crede incida sulla ricerca
storica enormemente di più di quella del credente. Il contrario di ciò che gli studiosi
non credenti pensano.
Se si nega o si prescinde dalla
fede in Dio, non si elimina solo la divinità, o il cosiddetto Cristo della fede, ma
anche il Gesú storico tout court, non si salva neppure l’uomo Gesú. Nessuno può contestare
storicamente che il Gesú dei vangeli vive e opera in continuo riferimento al Padre
celeste, che prega e insegna a pregare, che fonda tutto sulla fede in Dio. Se si elimina
questa dimensione dal Gesú dei vangeli non resta di lui assolutamente niente. Se dunque si parte dal presupposto, tacito o dichiarato, che Dio non esiste,
Gesú non è che uno dei tanti illusi che ha pregato, adorato, parlato con la propria
ombra, o con la proiezione della propria essenza, per dirla con Feuerbach. Gesú sarebbe
la vittima più illustre di quella che l’ateo militante Dawkins definisce “l’illusione
di Dio” . Ma come si spiega allora che la vita di quest’uomo “ha cambiato il mondo”
e, a distanza di duemila anni, continua a interpellare gli spiriti come nessun altro?
Se l’illusione è capace di operare quello che ha operato Gesú nella storia, allora
Dawkins e gli altri devono forse rivedere il loro concetto di illusione.
C’è
una sola via d’uscita da questa difficoltà, quella che si è fatta strada nell’ambito
del “Jesus Seminar” di Berkeley negli Stati Uniti. Gesú non era un credente ebreo;
era nel fondo un filosofo itinerante, nello stile dei cinici; non ha predicato un
regno di Dio, né una prossima fine del mondo; ha solo pronunciato massime sapienziali
nello stile di un maestro Zen. Il suo scopo era di ridestare negli uomini la coscienza
di sé, convincerli che non avevano bisogno né di lui né di altro dio, perché loro
stessi portavano in sé una scintilla divina. Sono però – guarda caso - le cose che
va predicando da decenni New Age! Un’ennesima immagine di Gesú, prodotto della moda
del momento. È vero: senza il radicamento in Dio, la figura di Gesú rimane “fuggevole,
irreale e inspiegabile”.
3. Preesistenza di Cristo
e Trinità
Anche su questo punto, come sulla riduzione
di Gesú a un profeta, il problema non si pone soltanto nella discussione con la critica
non credente; si pone, in maniera e con spirito diversi, anche nella discussione teologica
all’interno della Chiesa. Cerco di spiegare in che senso. Circa il titolo
di Figlio di Dio si assiste a una specie di risalita a monte nel Nuovo Testamento:
All’inizio esso è messo in rapporto con la risurrezione di Cristo (Rom 1, 4; At );
Marco fa un passo indietro e lo pone in rapporto con il suo battesimo nel Giordano
(Mc 1, 11); Matteo e Luca lo fanno risalire alla sua nascita da Maria (Lc 1, 35).
La Lettera agli Ebrei opera il salto decisivo, affermando che il Figlio non ha cominciato
ad esistere al momento della sua venuta tra noi, ma che esiste da sempre. “Per mezzo
di lui, dice, [Dio] ha fatto il mondo”, egli è “l’irradiazione della sua gloria e
impronta della sua sostanza”. Una trentina di anni più tardi, il vangelo di Giovanni
consacrerà questa conquista iniziando il suo vangelo con le parole: “In principio
era il Verbo…” Ora, sulla preesistenza di Cristo come Figlio eterno del
Padre sono state avanzate, nell’ambito di alcune delle cosiddette “nuove cristologie”,
delle tesi assai problematiche. In esse si afferma che la preesistenza di Cristo come
Figlio eterno del Padre è un concetto mitico derivato dall'ellenismo. In termini moderni,
esso significherebbe semplicemente che “il rapporto fra Dio e Gesù non si è sviluppato
solo in un secondo tempo e per così dire casualmente, ma esiste a priori ed è fondato
in Dio stesso”.
In altre parole, Gesù preesisteva
in senso intenzionale, non reale; nel senso, cioè, che il Padre, da sempre, aveva
previsto, scelto e amato come figlio il Gesù che un giorno sarebbe nato da Maria.
Preesisteva, dunque, non diversamente da ognuno di noi, dal momento che ogni uomo,
dice la Scrittura, è stato “ prescelto e predestinato” da Dio come suo figlio, prima
della creazione del mondo! (cfr. Ef 1,4).
Insieme
con la preesistenza di Cristo, cade, in questa prospettiva, anche la fede nella Trinità.
Questa è ridotta a qualcosa di eterogeneo (una persona eterna, il Padre, più una persona
storica, Gesú, più una energia divina, lo Spirito Santo); qualcosa, inoltre, che non
esiste ab aeterno ma diviene nel tempo.
Mi limito
a far notare come anche questa tesi non è nuova. L’idea di una preesistenza solo intenzionale
e non reale del Figlio fu avanzata, discussa e rigettata dal pensiero cristiano antico.
Non è vero, perciò, che essa è imposta dalle concezioni nuove, non più mitiche, che
abbiamo di Dio, come non è vero che l’idea contraria, di una preesistenza eterna,
era l’unica soluzione pensabile nel contesto culturale antico e che i Padri non avevano,
dunque, possibilità di scelta.
Fotino, nel IV secolo,
conosceva già l'idea di una preesistenza di Gesù “a modo di previsione” (kata pr^gnosin)
o “a modo di anticipazione” (prochrestik^s). Contro di lui un sinodo decretò: “Se
qualcuno dice che il Figlio, prima di Maria, esisteva solo secondo previsione e non
che è generato dal Padre prima dei secoli per essere Dio e per mezzo suo far venire
all'essere tutte le cose, sia anatema” . L’intenzione di questi teologi era lodevole:
tradurre in un linguaggio comprensibile all’uomo d’oggi il dato antico. Purtroppo
però, ancora una volta, quello che viene tradotto in linguaggio moderno non è il dato
definito dai concili, ma quello condannato dai concili.
Già
sant’Atanasio faceva notare che l’idea di una Trinità composta di realtà eterogenee
compromette proprio quell’unità divina che con essa si vuole mettere al sicuro. Se
poi si ammette che Dio “diviene” nel tempo, nessuno ci assicura che la sua crescita
e il suo divenire siano finiti. Chi è divenuto diverrà ancora. Quanto tempo e fatica
farebbe risparmiare a noi moderni una conoscenza meno superficiale del pensiero dei
Padri!
Vorrei terminare questa parte dottrinale della
nostra meditazione con una nota positiva, a mio parere di straordinaria importanza.
Per quasi un secolo, da quando Wilhelm Bousset, nel 1913, scrisse il suo famoso libro
sul Cristo Kyrios, nell’ambito degli studi critici ha dominato l’idea che l’origine
del culto di Cristo come essere divino fosse da ricercare nel contesto ellenistico,
quindi molto dopo la morte di Cristo.
Nell’ambito
della cosiddetta “terza ricerca” sul Gesú storico, recentemente la questione è stata
ripresa dalle fondamenta da Larry Hurtado, professore di lingua, letteratura e teologia
del Nuovo Testamento a Edimburgo. Ecco la conclusione a cui egli giunge, al termine
di una ricerca di oltre 700 pagine:
“La venerazione
di Gesú come figura divina, esplose all’improvviso e presto, non poco alla volta e
tardi, tra cerchie di seguaci del I secolo. Più in particolare, le origini stanno
nelle cerchie cristiane giudaiche dei primissimi anni. Solo un modo di pensare idealistico
continua ad attribuire la venerazione per Gesú come figura divina all’influenza decisiva
della religione pagana e all’influsso dei convertiti gentili, presentandola come recente
e graduale. La venerazione di Gesú come ‘Signore’, che trovava espressione adeguata
nella venerazione cultuale e nell’obbedienza totale, era inoltre generale, non era
confinata e attribuibile a cerchie particolari, ad esempio gli ‘ellenisti’ o i cristiani
gentili di un ipotetico ‘culto di Cristo siriaco’. Con tutta la diversità del primo
cristianesimo, la fede nella condizione divina di Gesú era incredibilmente comune”. Questa
rigorosa conclusione storica dovrebbe porre fine all’opinione, tuttora dominante in
una certa divulgazione, secondo cui il culto divino di Cristo sarebbe un frutto posteriore
della fede (imposto per legge da Costantino a Nicea nel 325, secondo Dan Brown, nel
suo Codice da Vinci!). 4. La “bambina Speranza”
Oltre
al libro su Gesú di Nazaret, il Santo Padre, nell’anno in corso, ci ha fatto dono
anche dell’enciclica sulla speranza. L’utilità di un documento pontificio, oltre il
suo contenuto altissimo, sta anche nel fatto che concentra su un punto l’attenzione
di tutti i credenti, stimolando su di esso la riflessione. In questa linea, vorrei
fare qui una piccola applicazione spirituale e pratica del contenuto teologico dell’enciclica,
mostrando come il testo della Lettera agli Ebrei che abbiamo meditato può contribuire
ad alimentare la nostra speranza.
Nella speranza
- scrive l’autore della Lettera con una bellissima immagine destinata a divenire classica
nell’iconografia cristiana - ”noi abbiamo come un'àncora della nostra vita, sicura
e salda, la quale penetra fin nell'interno del velo del santuario, dove Gesù è entrato
per noi come precursore” (Ebr 6, 17-20). Il fondamento di questa speranza è proprio
il fatto che “negli ultimi tempi Dio ha parlato a noi per mezzo del Figlio”. Se ci
dato il Figlio, dice san Paolo, “come non ci donerà ogni cosa insieme con lui?” (Rom
8,32). Ecco perché “la speranza non delude” (Rom 5,5): il dono del Figlio è pegno
e garanzia di tutto il resto e, in primo luogo, della vita eterna. Se il Figlio è
“l’erede di tutto” (heredem universorum) ( Ebr 1,2), noi siamo i suoi “coeredi” (Rom
8, 17).
I vignaioli iniqui della parabola, vedendo
arrivare il figlio, dicono tra sé: “Costui è l'erede; venite, uccidiamolo,
e avremo noi l'eredità” (Mt 21, 38). Nella sua onnipotenza misericordiosa, Dio Padre
ha volto in bene questo disegno criminoso. Gli uomini hanno ucciso il Figlio e hanno
avuto davvero l’eredità! Grazie a quella morte, sono diventati “eredi di Dio e coeredi
di Cristo”.
Noi creature umane abbiamo bisogno di
speranza per vivere, come dell'ossigeno per respirare. Si dice che finché c'è vita
c'è speranza; ma e vero anche il rovescio: che finché c'è speranza c'è vita. La speranza
è stata per molto tempo, ed è tutt'ora, tra le virtù teologali, la sorella minore,
la parente povera. Si parla spesso della fede, più spesso ancora della carità, ma
assai poco della speranza.
Il poeta Charles Péguy
ha ragione quando paragona le tre virtù teologali a tre sorelle: due adulte e una
bambina piccina. Vanno per strada tenendosi per mano (le tre virtù teologali sono
inseparabili tra di loro!), le due grandi ai lati, la bambina al centro. Tutti, vedendole,
sono convinti che sono le due grandi –la fede e la carità – a trascinare la bambina
speranza al centro. Si sbagliano: è la bambina speranza che trascina le altre due;
se si ferma essa, si ferma tutto .
Lo vediamo anche
sul piano umano e sociale. In Italia si è fermata la speranza e con essa la fiducia,
lo slancio, la crescita, anche economica. Il “declino” di cui si parla nasce da qui.
La paura del futuro ha preso il posto della speranza. La scarsità delle nascite ne
è il rivelatore più chiaro. Nessun paese ha bisogno di meditare l’enciclica del papa
quanto l’Italia.
La speranza teologale è il “filo
dall’alto” che sostiene dal centro tutte le speranze umane. “Il filo dall’alto” è
il titolo di una parabola dello scrittore danese Johannes Jrrgensen. Parla del ragno
che si cala dal ramo di un albero lungo un filo che lui stesso produce. Posandosi
sulla siepe, tesse la sua rete, capolavoro di simmetria e di funzionalità. Essa è
tesa ai lati da altrettanti fili, ma tutto è retto al centro da quel filo da cui è
sceso. Se si tronca uno dei fili laterali, il ragno interviene, lo ripara e tutto
è a posto, ma se si tronca il filo dall’alto (io una volta ho voluto verificare e
ho visto che è vero) tutto si affloscia e il ragno scompare, sapendo che non c’è
più nulla da fare. È un’immagine di quello che avviene quando si tronca il filo dall’alto
che è la speranza teologale. Solo essa può “ancorare” le speranze umane alla speranza
“che non delude”.
Nella Bibbia assistiamo a dei veri
e propri sussulti o soprassalti di speranza. Uno di essi si trova nella terza Lamentazione:
“ Io - dice il profeta - sono la persona che ha provato la miseria e la pena… Ho detto:
È sparita la mia gloria, la speranza che mi veniva dal Signore”.
Ma
ecco il sussulto di speranza che capovolge tutto. A un certo punto, l'orante dice
a se stesso: “Ma le misericordie del Signore non sono finite; dunque in lui voglio
sperare! Il Signore non rigetta mai, ma se affligge avrà anche pietà. Forse c'è ancora
speranza “ (cf Lam 3, 1-29). Dall’istante che il profeta decide di tornare a sperare,
il tono del discorso cambia completamente: la lamentazione si trasforma in supplica
fiduciosa: “Il Signore non rigetta mai. Ma, se affligge, avrà anche pietà secondo
la sua grande misericordia” (Lam 3, 32).
Noi abbiamo
un motivo molto più forte per avere questo sussulto di speranza: Dio ci ha dato suo
Figlio: come non ci donerà ogni cosa insieme con lui? A volte giova gridare a se stessi:
“Ma Dio c’è e tanto basta!”. Il servizio più prezioso che la Chiesa italiana può fare,
in questo momento al paese, è quello di aiutarlo ad avere un sussulto di speranza.
Contribuisce a questo scopo chi (come ha fatto Benigni nel suo recente spettacolo
in Tv) non ha paura di contrastare il disfattismo, ricordando agli italiani i tanti
e straordinari motivi, spirituali e culturali, che essi hanno di avere fiducia nelle
proprie risorse.
La volta scorsa parlavo di una aromaterapia
basata sul sull’olio di letizia che è lo Spirito Santo. Di questa terapia abbiamo
bisogno per guarire dalla malattia più perniciosa di tutte: la disperazione, lo scoraggiamento,
la perdita di fiducia in sé, nella vita e perfino nella Chiesa.” “Il Dio della speranza
vi riempia di ogni gioia e pace nella fede, perché abbondiate nella speranza per la
virtù dello Spirito Santo” (Rom 15,13): così scriveva l’Apostolo ai Romani del suo
tempo e ripete a quelli di oggi.
Non si abbonda
nella speranza senza la virtù dello Spirito Santo. C'è un canto spiritual afro-americano,
dove non si fa che ripetere continuamente queste poche parole: “C’è un balsamo in
Gilead che guarisce le anime ferite” (There is a balm in Gilead / to make the wounded
whole...). Gilead, o Galaad, è una località famosa nell’Antico Testamento per i suoi
profumi e unguenti (cf Ger 8,22). Il canto prosegue dicendo: “A volte mi sento scoraggiato
e penso che tutto sia inutile, ma viene lo Spirito Santo e ridà vita alla mia anima”.
Gilead è per noi la Chiesa e il balsamo che guarisce è lo Spirito Santo. Egli è la
scia di profumo che Gesú si è lasciato dietro, passando su questa terra.
La
speranza è miracolosa: quando rinasce in un cuore, tutto è diverso anche se nulla
è cambiato. “Anche i giovani faticano e si stancano, si legge in Isaia, gli adulti
inciampano e cadono; ma quanti sperano nel Signore riacquistano forza, mettono ali
come aquile, corrono senza affannarsi, camminano senza stancarsi” (Is 40, 30-31).
Dove
rinasce la speranza rinasce anzitutto la gioia. L’Apostolo dice che i credenti sono
spe salvi, “salvati nella speranza” (Rom 8, 24) e che perciò devono essere spe gaudentes
“lieti nella speranza” (Rom 12, 12). Non gente che spera di essere felice, ma gente
che è felice di sperare; felice già ora, per il semplice fatto di sperare.
Che
in questo Natale il Dio della speranza, per virtù dello Spirito Santo e per intercessione
di Maria “Madre della speranza”, ci conceda di essere lieti nella speranza e di abbondare
in essa.