Sottolineando la dimensione della Speranza nella sofferenza umana, il Papa lancia
una sfida alla mentalità contemporanea: il commento sulla “Spe salvi” del prof. Antonio
Maria Baggio
“La misura dell’umanità si determina essenzialmente nel rapporto con la sofferenza
e col sofferente”: è uno dei passaggi chiave della seconda parte della “Spe salvi”
di Benedetto XVI. Nell’Enciclica, il Papa sottolinea che una società incapace di “far
sì che la sofferenza venga condivisa e portata anche interiormente è una società crudele
e disumana”. Sulla dimensione della speranza nella sofferenza, Alessandro Gisotti
ha intervistato il prof. Antonio Maria Baggio, docente di Etica sociale alla
Pontificia Università Gregoriana:
R. -
Questo legame tra la speranza e la sofferenza si lega anche all’azione, ci indica
certamente che chi agisce soffre. Ma in che senso questo? E’ un agire particolare
quello cui fa riferimento il Papa: è l’agire in maniera pura, quello cioè che spera
non nelle piccole speranze, nelle piccole cose, ma nella Speranza vera, quella che
ci porta nelle cose di lassù, che ci porta direttamente a Dio, dunque oltre ciò che
è sbagliato qui sulla terra. Ora nel far questo, nel lavorare per arrivare a questo,
sapendo che poi è Dio che dona alla fine nella sua pienezza questa realtà, non la
possiamo costruire noi uomini; però nel cercare di renderci disponibili a questa azione
di Dio, il Papa sottolinea: “Noi abbiamo bisogno di agire nella sofferenza, per questo
la speranza è legata alla sofferenza, perché ci permette di vedere e di vedere soprattutto
che dentro di noi c’è già un dono che è stato fatto, sia personale, sia per l’umanità”.
Quindi la speranza è quel dono che noi riconosciamo in noi, quel germe che deve crescere
e può crescere soltanto soffrendo, cioè togliendo gli ostacoli, le cose che passano
e che ci impediscono di vederlo.
D. – In un altro
passaggio, il Papa sottolinea che per quanti progressi possano compiere la scienza
e la medicina, essa non può redimere l’uomo. Questo spetta all’amore. E’ un’affermazione
forte, una sfida se vogliamo, alla mentalità contemporanea?
R.
– Sì, è vero, è un’affermazione formidabile! Il Papa svolge la sua analisi partendo
addirittura da Bacone, cioè dal modo con il quale viene pensata la scienza moderna.
Il Papa sottolinea che dietro a questa idea dell’azione nella società, e anche della
conoscenza scientifica, c’è sempre un aspetto politico, un aspetto di potere. Quindi,
né la scienza, né la politica, sanno realizzare in maniera piena quella speranza che
pure l’uomo sente profondamente dentro di sé. La bellezza di questa Enciclica è che
ci fa capire come anche i piccoli atti di amore, di donazione quotidiana, sono un
contributo da portarsi al di là di questi miti del mondo contemporaneo, che riguardano
la scienza e la politica, ai quali non possiamo credere perché non sono oggetto di
fede! Fede e speranza ci sono solo per le cose più grandi.
D.
– Come dunque il cristiano può far fruttificare questi documenti, Deus caritas est
e Spe salvi, di Benedetto XVI nella vita di ogni giorno?
R.
– Io ricordo un amico medico che era scienziato, un uomo sapiente. Si chiamava Cosimo
Calò; si era specializzato nel seguire i malati terminali e lui diceva: “A mano a
mano che una persona si spegne, se sa vivere il suo dolore con amore, se sa capire
questo dolore con amore, se sa capire che questo dolore è il mezzo con il quale le
parti superflue vengono tolte, si vede in lui la trasparenza. Il malato può anche
non essere nella luce ma noi che lo guardiamo, vediamo più che mai, la presenza di
Dio in lui”. Il dolore, il saper soffrire, ci aiuta a vedere meglio le cose. Il dolore
che è amato, dice Chiara Lubich, diventa “super amore” cioè diventa amore efficace
che sa trasformare. Questa, credo, sia l’indicazione pratica, concreta, di un'Enciclica
estremamente intellettuale, ma anche estremamente semplice.