Commenti e reazioni in tutto il mondo all'Enciclica del Papa "Spe salvi": interviste
con il cardinale Vanhoye e Giuliano Ferrara
Ha suscitato interesse e commenti in tutto il mondo la nuova Enciclica di Benedetto
XVI, intitolata “Spe salvi”, firmata ieri dal Papa e presentata in Sala Stampa vaticana.
Una sorta di Lectio divina sulla speranza. Ieri ne abbiamo dato un’ampia sintesi,
ma tanti sono gli spunti che meritano di essere approfonditi. Ripercorriamo alcuni
temi dell’Enciclica in questo servizio di Sergio Centofanti.
Anche
in questa sua seconda Enciclica il Papa parte dalla Parola di Dio. Nella Messa d’inizio
Pontificato, il 24 aprile 2005, Benedetto XVI aveva detto chiaramente: “Il mio vero
programma di governo è quello di non fare la mia volontà, di non perseguire mie idee,
ma di mettermi in ascolto, con tutta quanta la Chiesa, della parola e della volontà
del Signore e lasciarmi guidare da Lui, cosicché sia Egli stesso a guidare la Chiesa
in questa ora della nostra storia”.
La Parola che
il Papa mette al centro dell’Enciclica è tratta dalla lettera di San Paolo ai Romani
e ci dice che “nella speranza siamo stati salvati”: cioè, scrive il Pontefice, “non
possiamo ‘costruire’ il regno di Dio con le nostre forze … Il regno di Dio è un dono
… E non possiamo ‘meritare’ … il cielo con le nostre opere. Esso è sempre più di quello
che meritiamo, così come l’essere amati non è mai una cosa ‘meritata’, ma sempre un
dono. Tuttavia – aggiunge – il nostro agire non rimane indifferente davanti a Dio
… Possiamo aprire noi stessi e il mondo all’ingresso di Dio: della verità, dell’amore,
del bene. E’ quanto hanno fatto i santi che, come ‘collaboratori di Dio’, hanno contribuito
alla salvezza del mondo”.
Eppure, spesso l’uomo
cerca di salvarsi da solo: il Papa non cita solo le grandi ideologie che hanno assolutizzato
ora la libertà, ora la giustizia, o l’idolatria del progresso tecnico-scientifico
che promette all’uomo il dominio sulla natura, ma va più in profondità. L’uomo “in
fondo” vuole “una sola cosa” la felicità: anche se ignora esattamente cosa sia, sa
“che deve esistere” e ad essa si sente spinto. Dunque in questo sapere e non sapere,
in questa “dotta ignoranza” “l’uomo ha … molte speranze” e talora “può sembrare che
una di queste speranze lo soddisfi totalmente”. Ma quando la raggiunge “appare con
chiarezza che ciò non era, in realtà, il tutto. Si rende evidente che può bastargli
solo qualcosa di infinito”. “L’uomo – scrive il Papa – è stato creato per una realtà
grande – per Dio stesso, per essere riempito da Lui”. Dunque “questa grande speranza
può essere solo Dio”: e noi da soli non la “possiamo raggiungere”.
Eppure,
l’uomo talora vuole costruire “un regno di Dio realizzato senza Dio”, “una comunità
umana perfetta” che superi “tutte le dipendenze” e raggiunga la “libertà perfetta”:
ma “questa speranza fugge sempre più lontano” di fronte alla fragilità della nostra
condizione. E così nasce la paura. La paura di perdere continuamente ciò che fonda
le nostre speranze. L’uomo che ha tanti dèi, ma non ha Dio, si trova così “in un mondo
buio” e “davanti a un futuro oscuro”.
Il Papa lo
ribadisce: non ci possiamo dare da soli la speranza. “La vera grande speranza, che
resiste nonostante tutte le delusioni, può essere solo Dio – il Dio che ci ha amati
e ci ama tuttora sino alla fine”. Solo la relazione con questo amore assoluto e sicuro
ci salva “qualunque cosa accada”. Perché niente e nessuno ci può separare dall’amore
di Dio, rivelato in Cristo.
Per questo Benedetto
XVI cita come primo testimone della speranza, esempio per tutti, una schiava africana,
Giuseppina Bakhita: inerme, senza alcun potere né avere, dei suoi terribili padroni
conservava ben 144 cicatrici. Da sé non poteva darsi nulla. Quando ha incontrato Cristo,
“il Signore di tutti i signori”, era così povera di speranza da poter essere riempita
completamente dal suo amore. Giovanni Paolo II ha proclamato Santa questa sconosciuta
schiava africana liberata dall’amore Dio. La speranza - diceva
Charles Péguy - ci appare ben piccola di fronte alle altre due virtù teologali, ma
in realtà è proprio lei a trascinare la fede e la carità. Ascoltiamo in proposito
il cardinale Albert Vanhoye, che ieri ha partecipato alla presentazione dell'Enciclica
in Sala Stampa. L'intervista è di Fabio Colagrande:
R. -
La speranza dà una spinta, dà uno slancio che non può essere dato né dalla fede né
dall’amore perché senza la speranza l’amore rimane un po’ paralizzato e la fede rimane
piuttosto astratta. Invece con la speranza, la fede prende tutta la sua consistenza
e la nostra fede diventa viva e se c’è la speranza l’amore diventa attivo e trasforma
il mondo.
D. – Un’Enciclica che parla ai cristiani
o soprattutto a coloro che vivono avendo dimenticato Dio, a coloro che hanno dimenticato
questa speranza?
R. – L’apertura dell’Enciclica è
molto molto ampia. E’ chiaro che è una grande catechesi sulla speranza valida per
tutti ma d’altra parte è anche chiaro che il Santo Padre, scrivendo questa Enciclica,
ha pensato a tanta gente la cui fede è piuttosto “tiepida” e anche alla gente che
non ha fede ma che può essere attirata dalla fede vedendo tutta la bellezza della
speranza cristiana.
D. - Il Papa ci chiede di fare
un’autocritica: abbiamo dimenticato come credenti cos’è la speranza…
R.
– Un punto molto chiaro sul quale ciascuno deve fare la sua autocritica, deve vedere
se la propria speranza è individualistica o veramente unita all’amore. Questo è una
costante dell’Enciclica: la speranza cristiana non è individualistica, è una speranza
comunitaria, una speranza anche per gli altri che spinge a soffrire con chi soffre,
e per mettere nella sofferenza altrui questo magnifico apporto della speranza cristiana.
L'Enciclica
di Benedetto XVI ha suscitato interrogativi e riflessioni anche da parte di testate
di ispirazione laica. Fabio Colagrande ha raccolto il commento di Giuliano
Ferrara, direttore de Il Foglio:
R.
– Mi pare che il punto di partenza del Papa sia questo: nel mondo moderno la speranza
non c’è più, ma c’è l’aspettativa, che è un concetto diverso: l’aspettativa di vita,
l’aspettativa di buona salute, l’aspettativa del benessere. Al posto della speranza
abbiamo, quindi, messo una sorta di previsione, ma non si può vivere di previsioni,
non si vive di sola vita, si vive di qualcosa che va oltre la vita. Questa vita, che
i cristiani conoscono bene – perché per loro si tratta di una virtù teologale – si
chiama speranza ed è ciò di cui, in fondo, il mondo moderno ha più bisogno e di cui
sente più la mancanza. Il Papa ha aggredito, benevolmente e fraternamente, il cuore
dei moderni sul terreno più friabile per loro, sul terreno sul quale desiderano di
più credere, sperare ed amare e ci riescono invece meno.
D.
– Nella "Spe salvi" la speranza cristiana diventa la possibilità di redenzione dell’uomo
rispetto alla incompiutezza delle rivoluzioni del Novecento, quella francese e quella
marxista. Come considera questa rilettura storica?
R.
– Geniale. Il passaggio fondamentale mi sembra quello in cui dice: ma come avete mai
potuto pensare che una struttura sociale risolva il problema del bene, quando resiste
e resisterà sempre la libertà dell’uomo e, dunque, essenzialmente la libertà dell’uomo
di scegliere tra il bene e il male? La critica al materialismo di Marx, che pure il
Papa apprezza perché ne capisce fino in fondo il vigore – come dice lui – di giudizio
analitico, è sul fatto che abbia creduto che le strutture economiche avrebbero risolto
il problema del bene, del bene comune: ecco questo è un errore del materialistico.
D. - Come verrà accolto, secondo lei, questo invito
ad una autocritica che Benedetto XVI rivolge all’età moderna?
R.
– Da un lato verrà accolta con condiscendenza e con una punta di risentimento, dall’altro
– però – verrà accolta come l’irruzione misteriosa di un pensiero forte, che ci riguarda,
che parla della fatica del vivere. E’ un richiamo portentoso e, quindi, un segno fortemente
improntato al carattere razionale e filosofico che c’è anche nel cristianesimo; è
un richiamo alla retta vita, alla buona vita, ad elementari sentimenti che puntano
su una vita che abbia un significato.