Medio Oriente: dopo Annapolis, le speranze di pace del patriarca di Gerusalemme, mons.
Sabbah
Un progetto di risoluzione per appoggiare la decisione di rilanciare il processo di
pace in Medio Oriente. E’ quanto hanno presentato gli Stati Uniti al Consiglio di
Sicurezza dell’ONU al termine dei colloqui tra il premier israeliano Olmert ed il
presidente palestinese Abu Mazen. Entrambi al vertice di Annapolis, tenutosi ad inizio
settimana, si sono impegnati nell’arrivare ad un accordo di pace entro il 2008. Un
compromesso che si presenta come una novità capace di far ripartire concretamente
il dialogo israelo-palestinese. Sentiamo il commento di mons. Michel Sabbah, patriarca
di Gerusalemme dei Latini, intervistato da Sara Fornari:
R. –
L'aspetto nuovo in questa iniziativa sembra essere la volontà americana, che è decisa.
Sembra esserci una forte decisione. Ma è anche nuovo il fatto che il calendario sia
stato fissato nel tempo di un anno e questo rappresenta un giusto tempo per poter
realizzare l’iniziativa, se ovviamente ci sarà la volontà sincera di farlo. Fissare
un tempo maggiore, estendendolo a tanti anni, avrebbe potuto dare spazio a molti rischi
da una parte e dall’altra, avrebbe potuto dare spazio anche a reazioni violente ed
attentati così da poter rimettere di nuovo tutto in discussione. Se veramente si riuscirà
ad avanzare bene in questo anno, anche la violenza sarà più contenuta, permettendo
così di portare avanti questo processo.
D. – Oltre
ai movimenti della politica e della diplomazia, c’è poi l’impegno della preghiera,
richiamato di recente anche da Benedetto XVI. Un impegno, questo, che non deve mai
venire meno. Ma come vivono questo momento e in che modo si sentono coinvolti i cristiani
di Terra Santa?
R. – Noi siamo coinvolti come popolo
che vive sotto occupazione, che vuole quindi la libertà e che vuole la fine di questa
occupazione e di tutte le sofferenze; ma siamo coinvolti anche in quanto cristiani,
credenti in Dio, e crediamo che la pace sarà proprio un dono di Dio. La pace sarà
un dono di Dio agli uomini, ma gli uomini che riceveranno questo dono sono in realtà
i nostri capi politici, che possono quindi decidere di ricevere o rifiutare questo
dono: questo è il problema. Rimane certo che la preghiera rappresenta un fattore molto
importante, perché in Terra Santa si tratta con Dio, che lo si voglia o meno, che
israeliani, palestinesi o americani lo vogliano o meno. Per loro rappresenta soltanto
un caso politico, ma per noi - e non soltanto per noi – è sì un caso politico, ma
anche un caso di fede e di mistero di Dio.