Il commento di padre Lombardi all'Enciclica del Papa
Sulla nuova Enciclica di Benedetto XVI ecco il commento del nostro direttore, padre
Federico Lombardi:
Di fronte
alla fatica e all’oscurità del presente, per camminare fiduciosi verso una meta abbiamo
bisogno di una speranza affidabile e “sostanziosa”, cioè non fatta solo di parole
vuote o atteggiamenti puramente soggettivi: una speranza che cambi davvero la nostra
vita. Questa è la speranza donata a chi crede nel Dio che è amore. La speranza che
mira ad immergerci alla fine nel suo amore infinito, abbracciarlo ed esserne abbracciati,
non come singoli, ma insieme, in un incontro che ristabilisca giustizia, vita e salvezza,
oltre tutte le ingiustizie e le assurdità della storia di questo mondo.
Dedicando
la sua seconda Enciclica alla speranza, Benedetto XVI ha colto con acutezza uno dei
problemi più urgenti e drammatici del nostro tempo, ma non si attarda in una facile
descrizione della disperazione diffusa nel mondo, piuttosto affronta con umiltà e
coraggio una lunga serie di domande difficili – a cui non sfugge, e che anzi va a
cercare – per mettere direttamente a confronto gli interrogativi e i dubbi dell’uomo
contemporaneo con le risposte della fede. La speranza cristiana non è un atteggiamento
vuoto, puramente soggettivo? Che senso ha parlare di “vita eterna”? Non sono parole
che evocano solo una noia infinita e che chiudono il cristiano in un deprecabile individualismo?
Che lo alienano dall’impegno nel mondo e dalla responsabilità di lottare per trasformarlo
fin d’ora con la forza della ragione e della scienza in un regno di maggiore giustizia
e libertà?
Il Papa rovescia questi interrogativi
indicando la vera natura della speranza cristiana e presentandola incarnata nella
vita concreta di figure luminose di martiri e testimoni delle diverse epoche dalla
Chiesa fino ad oggi. Non solo, ma il Papa è convinto che il rifiuto della fede e della
speranza cristiana – in fondo il rifiuto di Dio – porti alla fine l’uomo a perdere
se stesso. Per dirla con le parole impressionanti di Kant, “il regno dell’uomo solo”
si risolve nella “fine perversa di tutte le cose”. Ma lo spirito del ragionamento
di Benedetto XVI non porta affatto ad una critica meramente negativa, anzi, si pone
ancora una volta in una prospettiva di dialogo, di aiuto reciproco fra ragione e fede.
In un passaggio centrale, egli afferma che “è necessaria un’autocritica dell’età moderna
in dialogo con il cristianesimo e con la sua concezione della speranza. In un tale
dialogo anche i cristiani devono imparare nuovamente in che cosa consista veramente
la loro speranza, che cosa abbiano da offrire al mondo e che cosa invece non possano
offrire. Bisogna che nell’autocritica della società moderna confluisca anche un’autocritica
del cristianesimo moderno, che deve sempre di nuovo imparare a comprendere se stesso
a partire dalle proprie radici”. Abbiamo tanto apprezzato i
“mea culpa” risonati spesso nei discorsi dei Papi precedenti; qui abbiamo probabilmente
un “mea culpa” caratteristico di questo pontificato, in cui la dimensione pastorale
e quella culturale si uniscono così profondamente. Ma perché i cristiani imparino
nuovamente che cosa hanno da offrire al mondo devono – come Benedetto XVI ha già detto
nella prima enciclica – ripartire da Dio; non un Dio qualsiasi, ma il Dio che ci è
venuto incontro e in Cristo si è rivelato come Amore. La fiducia in questo Amore –
continua il Papa – alimenta una preghiera di desiderio che allarga il cuore; sostiene
una speranza impegnata e operosa, che sa e vuole cambiare il mondo proprio perché
mira aldilà di esso; trova la forza di portare le sofferenze e scoprirne il senso,
anche quando sono ingiuste. Infine, permette di affrontare la
grande sfida ultima della fede e della speranza, cioè il problema terribile del male
nel mondo, vera radice dell’ateismo moderno. E qui, senza compromessi e timidezze,
il discorso del Papa giunge fino alle “cose ultime”, alle questioni del “dopo” questa
vita, al purgatorio, all’inferno, al Giudizio; un Giudizio con la G maiuscola, visto
ancora una volta non solo per l’individuo, ma per tutti. Un Giudizio che richiama
con forza alla responsabilità, ma che ristabilisce in modo pieno e definitivo la giustizia
e la immerge nella prospettiva dell’Amore. Un Giudizio a cui guardare dunque non con
terrore, ma con speranza. Certo, nonostante la finezza spirituale e la
ricchezza culturale per intercettare gli interrogativi e le attese profonde dell’uomo
d’oggi, non si può negare che si tratti di un discorso sconcertante per una mentalità
abitualmente chiusa nell’orizzonte terreno, qual è quella di gran parte dei nostri
contemporanei. Ma proprio questo è quanto di più importante i cristiani hanno da offrire
loro, e diciamo pure anche di più bello. Siamo perciò grati a Benedetto XVI di averci
riportato ancora una volta, con forza e dolcezza, con rigore e intensità spirituale,
alle questioni decisive della proposta cristiana per l’uomo e per il mondo: quelle
che spesso rischiamo di dimenticare, mentre sono quelle da cui dipende il nostro stesso
modo di vivere e di camminare nel mondo.