Domani a Novara la Beatificazione di Rosmini. Lo storico Giovagnoli: come Benedetto
XVI seppe dialogare con i mondi più lontani dalla Chiesa
“Una delle cinque o sei più grandi intelligenze che l’umanità abbia prodotto a distanza
di secoli”: così, Alessandro Manzoni definiva Antonio Rosmini figura fondamentale
del cattolicesimo dell’Ottocento che, domani a Novara, verrà elevato all'onore degli
altari. Sacerdote di profonda spiritualità, filosofo, teorico della politica e scrittore
prolifico, Rosmini fu un anticipatore lungimirante per la vita della Chiesa. Impegnato
nel “condurre gli uomini alla religione mediante la ragione”, fu anche un fulgido
esempio di obbedienza alla Chiesa. Sul contributo che il nuovo Beato ha dato alla
Chiesa e al pensiero cattolico, Alessandro Gisotti ha intervistato lo storico
Agostino Giovagnoli, docente all’Università “Cattolica” di Milano:
R. –
E’ una figura che ha illuminato davvero tutto l’’800 italiano ed europeo. Certamente
è stata una persona molto sensibile al suo tempo. In questo senso ha costruito un
ponte - rispetto ad un mondo che stava cambiando vorticosamente ed in modo problematico
- per una Chiesa che veniva violentemente separata dallo Stato, che si trovava di
fronte a quella che i contemporanei chiamavano la “rivoluzione”. Rosmini ha mostrato
la strada che la ”rivoluzione”, chiamiamola così, non era solo contro la Chiesa, ma
poteva diventare amica della Chiesa e amica della fede soprattutto. Questo io credo
abbia aperto una strada di grande importanza.
D.
– “Le cinque piaghe della Santa Chiesa” è l’opera più nota di Rosmini, un’opera che
non fu capita all’epoca, ma che successivamente ha dato molti frutti. Qual è la tesi
forte, espressa da Rosmini?
R. – Era un libro del
1832 che fu pubblicato in realtà nel 1848. Quindi, tutti lo lessero nel contesto politico
del ’48. In realtà, la tesi di fondo è una tesi ecclesiologica ed è una tesi debitrice,
come tutta l’ecclesiologia di Rosmini alla scuola di Tubinga, alla scuola tedesca,
e su questa base Rosmini sostiene alcune tesi che, di fatto, sganciano la Chiesa dagli
ultimi residui del rapporto con l’ancien régime e mostrano l’universalità della Chiesa:
una Chiesa amica dei popoli e non dei potenti, una Chiesa amica dei popoli, perchè
essa stessa è realtà di popolo. Quindi, non tanto per un’affinità politica, ma per
un’affinità di sensibilità sostanziale con le ragioni profonde dell’epoca. Basti pensare,
in questo senso, all’insistenza sulla necessità della lingua liturgica volgare. Di
fatto, noi vediamo un profeta, un precursore che ha anticipato il Vaticano II sotto
molti profili.
D. – Rosmini resta anche un modello
esemplare di uomo capace di dialogare con tutti, in particolare con gli intellettuali
del suo tempo, senza annacquare la propria identità cristiana. Si coglie una certa
sintonia con Joseph Ratzinger...
R. – Io credo proprio
di sì. Accennavo prima alla parola “rivoluzione”. A me ha colpito qualche tempo fa
che Benedetto XVI non abbia avuto paura di parlare del cristianesimo come di una rivoluzione.
In qualche modo, Rosmini ha fatto questo, cioè ha liberato la Chiesa dal rischio di
appiattirsi sulla controrivoluzione: non tanto una posizione politica, ma una posizione
ideologica di avversione al mondo moderno e a tutto ciò che il mondo moderno porta
con sé. Invece, appunto, la capacità di Rosmini è stata quella di cogliere la questione
antropologica, diremmo con le parole di oggi. Una delle cose più originali di Rosmini
fu la sua antropologia, un’antropologia innovativa, perché non pessimista come quella
prevalente nel cattolicesimo del suo tempo, spaventato dalle novità della modernità,
ma un’antropologia aperta, positiva, in cui non si nega l’esistenza del peccato originale,
ma si coglie tutte le infinite possibilità che la grazia apre all’umanità. E’ una
Chiesa amica, amica della novità, amica del tempo, senza rinunciare in nulla all’annuncio
cristiano, anzi valorizzandone proprio gli aspetti più profondi e, spesso, meno compresi
dal mondo contemporaneo.