Si è spento all’età di 82 anni, don Oreste Benzi. Il cordoglio di Benedetto XVI: “Un
infaticabile apostolo della carità che ha speso la vita per gli ultimi e gli indifesi”.
Intervista con il vescovo di Rimini, Francesco Lambiasi
Si è spento poco dopo le due di questa mattina, per un attacco cardiaco, don Oreste
Benzi, l’82.enne sacerdote romagnolo, fondatore dell'Associazione Papa Giovanni XXIII,
che per circa 40 anni è stato in prima linea per assistere i disagiati di tutto il
mondo. In un telegramma a firma del cardinale segretario di Stato, Tarcisio Bertone,
Benedetto XVI esprime il proprio dolore per la scomparsa di don Benzi, ricordato come
un "umile e povero sacerdote di Cristo", un "infaticabile apostolo della carità” dall’“intensa
vita pastorale” spesa per gli ultimi e gli indifesi, un "docile servitore della Chiesa"
che si è fatto carico - afferma il Papa - "di tanti gravi problemi sociali che affliggono
il mondo contemporaneo”. Alessandro Gisotti ripercorre in questo servizio le
tappe principali della vita e dell’opera di don Benzi:
“Io non
ho fondato niente. Sono stati i poveri che ci hanno rincorso, che ci hanno impedito
di addormentarci”: don Oreste Benzi rispondeva così a quanti gli chiedevano perché
avesse fondato l’Associazione “Papa Giovanni XXIII”. Don Oreste si è lasciato incontrare
da Cristo. Ha cercato e trovato il Suo Volto in quello di chi soffre, nei barboni,
nelle donne costrette a vendere il proprio corpo, nei ragazzi alla ricerca di un senso
per la propria vita. Già a 12 anni, nel 1937, don Oreste è in seminario a Rimini.
Nel 1949 viene ordinato sacerdote e fin dai primi anni ’50 come assistente della Gioventù
Cattolica riminese matura in lui la convinzione di farsi prossimo agli adolescenti
per proporre loro un “incontro simpatico con Cristo”. Impegno portato avanti per cinquant’anni.
Ecco come don Oreste ricorda ai nostri microfoni una serata con i giovani in discoteca:
"Mi
ricordo, in particolare, di un incontro nella discoteca ‘L’altro mondo’, quando ho
parlato a tutti i presenti ricordando che la vita è la professione di un amore infinito,
ho detto: 'Dio è in gamba! Facciamo un applauso al Signore!'. E alle due e mezzo di
notte mille giovani hanno applaudito il Signore. Uno di quei giovani poi mi ha fermato
e mi ha detto: 'Grazie, padre, che sei venuto!' Ed ha aggiunto: “'Non lasciateci soli!'”. Sempre
pronto a chinarsi sulle sofferenze dei più deboli, siano essi malati o emarginati
della società, don Oreste, che negli anni ’60 insegna religione in diversi Licei della
Romagna, decide di dare vita ad un’associazione. E’ il 1968, fedele all’unica autentica
rivoluzione, quella che viene dall’Amore di Dio, don Oreste fonda l’associazione “Papa
Giovanni XXIII”. Quarant’anni dopo, il sodalizio conta 200 case famiglia, 32 comunità
terapeutiche, 6 case di preghiera e, ancora, 7 case di fraternità e 15 cooperative
sociali diffuse in tutto il mondo dalla Tanzania al Brasile, dalla Russia alla Sierra
Leone. L’albero è cresciuto e ha dato molti frutti, ma la radice è rimasta la stessa: "Il
carisma consiste, in primo luogo, nel conformare la vita a Gesù nel suo essere povero,
nel suo essere servo, nel suo essere vittima di espiazione dei peccati del mondo.
Poi, secondo, nel condividere direttamente la vita degli ultimi, cioè: l’io e il tu
diventano un 'noi' effettivo, il mio e il tuo diventano un 'nostro' effettivo".
Instancabile
il suo impegno per la vita nascente. Don Oreste ha sempre denunciato che di fronte
all’aborto il più grande peccato è tacere. “Se tutti i cattolici si mettessero a urlare
– è stato il suo richiamo costante – questa ingiustizia smetterebbe! Non sono colpevoli
solo i medici e i politici, ma anche tutti quelli che rimangono indifferenti”:
"Nell’aborto
abbiamo due feriti: uno, mortalmente, ed è il bambino, l’altro perennemente, ed è
la madre. Noi vogliamo salvare l’uno e l’altra. Spesso andiamo a pregare davanti agli
ospedali: anche se ci prendono in giro abbiamo visto che la potenza della preghiera
è realmente provvidenza di Dio".
Don Oreste Benzi
colpiva per la sua semplicità, il sorriso bonario, i modi affabili tipici della gente
della sua terra, ma anche per la sua forza, il suo incredibile coraggio. Un coraggio
che il sacerdote romagnolo ha mostrato nell’andare a “strappare” le ragazze dalla
strada, liberandole dai propri aguzzini.
"Bisogna
scegliere di cancellare la prostituzione schiavizzata e poi di illuminare coloro che
fossero eventualmente libere. La realtà attuale è che non esiste più prostituzione
libera. Il parroco, i movimenti ecclesiali, sono loro le punte avanzate per una liberazione
di queste creature".
Tossicodipendenti, carcerati,
zingari: gli esclusi dalla società non erano esclusi dallo sguardo paterno di don
Oreste. Un sacerdote innamorato di Cristo e della sua Chiesa. Un uomo, che lungo
tutto la sua vita, si è lasciato guidare da Gesù:
"Non
siamo noi che abbiamo fatto dei programmi, perché siamo certi che il programma ce
l’ha il Signore. E Lui continuamente ci presenta i suoi progetti. E noi cerchiamo
di dire sempre di 'sì' e di non perdere mai la coincidenza con Dio che viene". Una
prima avvisaglia del malore, Don Oreste l'aveva avuta due giorni fa, a Roma, di ritorno
dai lavori dell'Osservatorio sull'infanzia. La scorsa notte poi, verso l'una, l'attacco
cardiaco nel suo alloggio, alla Parrocchia della Risurrezione, risultato fatale nonostante
il tempestivo soccorso dei sanitari. Tra i primi ad accorrere al capezzale dell'anziano
sacerdote ormai spirato è stato il neo-vescovo di Rimini, mons. Francesco Lambiasi.
Questa la sua testimonianza, raccolta da Alessandro De Carolis:
R. -
Io l’ho saputo presto e sono andato subito, questa mattina alle 6, a benedire la salma:
don Oreste era deceduto da poche ore. Trovarmi lì, di fronte a lui, che avevo visto
appena qualche giorno fa e con il quale avevamo condiviso varie ipotesi di impegni
comuni, chiaramente mi ha colpito nel cuore. Ho riletto, proprio davanti a lui, la
pagina che lui ha scritto per questa giornata: don Oreste, tra le tante cose che riusciva
a fare - magari tra un aeroporto e l’altro - scriveva anche un commento alle letture
della liturgia della Parola di ogni giorno. E ho letto proprio davanti alla sua salma
queste parole, che risultano profetiche. Venerdì 2 novembre, commento al Libro di
Giobbe”, si legge testualmente così: “Nel momento in cui chiuderò gli occhi a questa
terra, la gente che sarà vicina dirà: ‘E’ morto’. In realtà, è una bugia. Sono morto
per chi mi vede, per chi sta lì. Le mie mani saranno fredde, il mio occhio non potrà
più vedere, ma in realtà la morte non esiste, perché appena chiudo gli occhi a questa
terra, mi apro all’infinito di Dio”. L’abbiamo letta con tutti i suoi figli spirituali,
i membri dell’Associazione “Papa Giovanni XXIII” e tutti quanti abbiamo avvertito
questo brivido di emozione molto forte.
D. - Qual
è l’eredità che lascia anzitutto nella sua diocesi, ma anche alla Chiesa italiana
don Oreste Benzi?
R. - Don Oreste è stato e si è
sempre sentito figlio di questa diocesi, sempre prete diocesano, e aveva un rapporto
con il vescovo nutrito di grande affetto, di grande, grande rispetto. Quando mi vedeva,
in questi appena 45 giorni dall’inizio del mio ministero come vescovo diocesano, faceva
spontaneamente il gesto che facevano i preti anziani di una volta quando vedevano
il vescovo: addirittura, si inginocchiava. Ero io che lo dovevo rialzare e non era
un gesto formale. A noi lascia, e penso a tutta la Chiesa in Italia, questo grande
messaggio: credere significa amare, e amare i membri più poveri del Corpo di Cristo,
le membra più umiliate, più offese, più calpestate nella loro dignità. Ecco, questo
per lui significava amare i poveri, significava farsi povero non solo per i poveri,
ma tra i poveri. Penso che questo sia il messaggio, il suo testamento spirituale più
prezioso.