Ex Birmania: nuove manifestazioni pacifiche dei monaci buddisti contro i militari
Vestiti col tradizionale abito rosso, i monaci della ex Birmania sono tornati oggi
in piazza per protestare pacificamente contro la giunta militare al potere. Per la
prima volta dopo la violenta repressione del mese scorso, circa duecento religiosi
si sono infatti ritrovati per le strade di Pakkoku, nella parte centrale del Paese.
Le nuove dimostrazioni giungono alla vigilia dell’arrivo nella ex Birmania dell’inviato
Onu, Ibrahim Gambari, per una seconda missione nella zona dal 3 all’8 novembre prossimi,
e quando la giunta militare ha deciso la scarcerazione di sette detenuti, tra cui
alcuni membri dell’opposizione della Lega nazionale per la democrazia. Ma perché i
monaci birmani sono tornati a manifestare? Al microfono di Giada Aquilino,
risponde padre Piero Gheddo, missionario che più volte è stato nel Paese asiatico:
R. –
I monaci birmani rappresentano davvero il sentimento della popolazione. Vanno incontro
alla morte, alla tortura, all’arresto, a carceri spaventose pur di ottenere che cambi
il sistema di governo, perché il popolo è schiacciato da più di 40 anni. La Birmania
è diventata l’ultimo Paese del Sudest asiatico come prodotto interno lordo, come livello
di vita, come diritti umani, mentre nel 1950 era il primo, il Paese più avanzato dell’area.
Ma per risolvere tale situazione, il boicottaggio economico nei confronti di Rangoon
- ventilato da più parti - non serve: la giunta è appoggiata dalla Cina, quindi riceve
tutto quello di cui ha bisogno dalla Cina e dispone di tutto quello di cui Pechino
necessita. Le autorità birmane vivono sull’esportazione di gas, petrolio, diamanti,
tek e perfino oppio, di cui il Paese è diventato oggi uno dei maggiori produttori
al mondo.
D. – Secondo l’Organizzazione umanitaria
“Human Rights Watch”, l’esercito birmano starebbe arruolando anche bambini-soldato
...
R. – Questo succedeva già prima. Io ho viaggiato
molto in Birmania, ne ho visti di giovani di 14, 15, 16 anni sequestrati e poi posti
al servizio dei militari.
D. – E il resto della popolazione
civile?
R. – Accetta quasi sempre passivamente questa
situazione… che poi è una realtà di fame, carestia, mancanza di strade, mancanza di
sicurezza, mancanza di sanità.
D. – In questa fine
di settimana si svolge la seconda visita dell’inviato ONU a Rangoon. Che poteri ha?
R.
– Forse l’unica cosa che potrebbe essere veramente efficace è la possibilità di premere
sulla Cina. Certe regioni periferiche del Nord hanno aperto ai cinesi: hanno capito
che i cinesi portano lo sviluppo economico e in quelle zone si vedono cittadine con
insegne in cinese e birmano, si sente la lingua cinese e quella birmana, la moneta
è cinese e birmana. Non dimentichiamo che la Cina ha molti interessi in Birmania:
per esempio, lo sbocco verso l’Oceano Indiano.
D.
– La Chiesa locale come è impegnata negli sforzi per una soluzione della crisi in
Birmania?
R. – Il buddismo è la religione nazionale
dello Stato birmano, conta il 100 per cento della popolazione. La Chiesa è una piccola
realtà. Ma, tutti assieme, i cristiani sono circa 3 milioni, quindi non sono pochissimi.
E proprio i cristiani hanno avuto un grande influsso in Birmania per l’educazione:
un secolo fa, non esistevano le scuole. Le hanno costruite le Chiese e le missioni
cristiane. Oggi le Chiese cristiane continuano il loro impegno per i diritti dell’uomo,
soprattutto attraverso l’evangelizzazione. Quindi è un lavoro più nascosto, non è
una manifestazione pubblica: portando il Vangelo, si forma anche la coscienza alla
dignità dell’uomo e della donna, all’uguaglianza di tutti gli uomini davanti a Dio,
davanti alla società.