Salito ad almeno 139 morti il bilancio dell’attentato di ieri sera in Pakistan contro
l’ex premier Benazir Bhutto
L’attentato suicida di ieri sera a Karachi, in Pakistan, non sembra aver intimorito
Benazir Bhutto, che ha confermato di voler rimanere in patria, per presentarsi alle
elezioni parlamentari del prossimo gennaio. L’ex premier, rientrata in Pakistan ieri
dopo 8 anni di esilio volontario e rimasta illesa, ritiene responsabili dell’azione
terroristica i sostenitori del defunto dittatore del Pakistan, il generale Muhammad
Zia-ul-Haq. Intanto, il bilancio del terribile attacco kamikaze continua a crescere:
sono almeno 139 i morti ed oltre 500 i feriti. Il presidente Musharraf, che questa
mattina ha espresso il suo cordoglio alla signora Bhutto, ha parlato di “un complotto
contro la democrazia” ed ha esortato alla calma i pakistani, promettendo di fare il
possibile per punire i responsabili, che restano per il momento sconosciuti. Unanime
è stata la condanna internazionale: “Nessuna causa politica può giustificare l’assassinio
di innocenti”, ha dichiarato il dipartimento di Stato americano. Il presidente russo,
Vladimir Putin, ha definito l’attacco di Karachi un “crimine scellerato, una nuova,
tragica conferma della necessità di unire gli sforzi della comunità internazionale”
contro il terrorismo. Un attentato terribile, dunque, che può ulteriormente destabilizzare
il Paese asiatico. Quali saranno, a questo punto, le ricadute politiche? Salvatore
Sabatino lo ha chiesto ad Elisa Giunchi, docente di Storia ed istituzioni
dei Paesi islamici, presso l’Università Statale di Milano:
R. –
Il coraggio che ha manifestato la Bhutto ritornando in patria, l’accoglienza che ha
ricevuto ed anche il fatto che vi sia stato un attentato accresceranno, in un certo
senso, il carisma di cui gode l’ex premier, che sta coagulando intorno a sé una larga
fetta di dissenso che esiste nel Paese nei confronti di Musharraf, ma anche del modo
in cui il potere è stato gestito in questi anni. Tuttavia, è difficile fare previsioni,
perché gran parte delle persone che sono favorevoli alla Bhutto non sono in realtà
propensi ad un compromesso politico con Musharraf. Questi non può che tentare di avvicinarsi
alla Bhutto e di arrivare ad una qualche forma di "modus vivendi". Questa tra l’altro
è anche la direzione imposta dagli Stati Uniti e l’unica possibilità per il generale
di recuperare il proprio consenso, che è ai minimi storici. Si tratta, però, di una
alleanza molto difficile, anche perché il "Pakistan People’s Party" guidato dalla
Bhutto ha una larga fetta di sostenitori che non sono favorevoli all’ipotesi del compromesso
con il generale.
D. – Possiamo considerare l’era
Musharraf definitivamente tramontata?
R. – Direi
assolutamente di no, perché questo giudizio sarebbe del tutto affrettato. E questo
perché anzitutto qualsiasi cosa accada, anche se Musharraf rinuncerà veramente – come
ha promesso – alla divisa ed anche se il ruolo del primo ministro andrà nelle mani
della Bhutto, dopo le prossime elezioni che dovrebbero tenersi a gennaio, in ogni
caso l’esercito – per il potere che ha assunto in questi decenni – non potrà che governare
dietro la scena. In particolare continuerà a controllare alcuni settori, tra i quali
quelli della politica estera e del nucleare. Dalle scelte sul nucleare e sulla politica
estera dipendono anche tanti aspetti di politica interna. Al massimo vi sarà, quindi,
una situazione di condivisione dei poteri, anche se magari questa non sarà evidente
da osservatori esterni. Non dobbiamo aspettarci, quindi, che Musharraf, e con lui
l’esercito, perda completamente il potere politico e che vi sia una processo di reale
democratizzazione in tempi brevi del Paese. Del resto, basti pensare gli anni Novanta
e vedere quale sia stata la politica della Bhutto, che anche allora aveva promesso
apertura, emancipazione femminile e miglioramento socio-economico, per vedere la realtà
dei fatti. La Bhutto ha sempre portato avanti una politica di "realpolitik"
e ha avuto comunque anche le mani legate dallo strapotere dell’esercito.