In Myanmar, incontro tra l'inviato dell'Onu e Aung San Suu Kyi
In Myanmar, le proteste di piazza hanno lasciato il posto alla diplomazia. Nel Paese
asiatico, l’inviato dell’ONU, Ibrahim Gambari, ha incontrato il leader dell’opposizione
e premio Nobel per la Pace, Aung San Suu Kyi. Un colloquio dai contenuti top-secret
avvenuto a Yangon. Il servizio di Benedetta Capelli:
Per la
seconda volta in due anni Gambari e Aung San Suu Kyi si sono ritrovati l’uno di fronte
all’altro. Il primo loro incontro risale al maggio 2006 e, in risposta al colloquio
di allora, il regime birmano prolungò gli arresti domiciliari per la leader della
Lega nazionale per la Democrazia. Oggi in una residenza per stranieri del governo,
a Yangon, la visita, durata un’ora e 15 minuti da parte dell’emissario dell’Onu con
la San Suu Kyi sempre agli arresti domiciliari, ma con un Paese in fibrillazione:
a più di dieci giorni di proteste, il bilancio della repressione della Giunta militare
è di 16 vittime, oltre 200 feriti. Nulla è trapelato sul contenuto dell’incontro avvenuto
all’indomani della visita di Gambari a Naypyidaw, quartier generale del regime, in
mezzo alla giungla, dove ha colloquiato con alcuni esponenti del governo ma non con
il generale Than Shwe. Secondo un sito di esuli birmani, le autorità avrebbero inoltre
cercato di organizzare contro-manifestazioni per impressionare l’inviato di Ban Ki-moon.
Intanto, l’ingente dispiegamento di forze deciso dai militari sta ottenendo l’effetto
desiderato: Yangon è sotto il controllo di circa 20 mila soldati; i monasteri di Mandalay,
seconda città del Myanmar, sono stati invece circondati e isolati. Non cessa neppure
l’attività di controllo: secondo una fonte diplomatica asiatica, sarebbero mille gli
arresti effettuati la scorsa notte.
Intanto, a chiedere maggiore impegno
internazionale per garantire il rispetto dei diritti umani e l’avvio di un processo
di democratizzazione nell'ex Birmania è anche la FOCSIV. L’ONG italiana esprime, inoltre,
grave preoccupazione per le violenze a cui sono sottoposti gli stranieri, testimoni
della repressione di questi giorni. Sono, infatti, ben 6 i suoi volontari presenti
in Myanmar. Stefano Leszczynski ha chiesto a Sergio Marelli, presidente
della FOCSIV, cosa sono riusciti a sapere della situazione nel Paese:
R. - Difficile
dare delle cifre diverse, precise, ma comunque i nostri volontari ci dicono che, probabilmente,
le vittime sono molte di più ed è senz’altro più alto il numero delle persone arrestate
in questi giorni.
D. - Preoccupa molto anche la stretta
ed il giro di vite nei confronti degli stranieri presenti nel Paese...
R.
- Purtroppo, non è una novità in Myanmar. Io ricordo, personalmente, quando due anni
fa successe la tragedia dello Tsunami, ci fu più o meno lo stesso tipo di reazione
e, cioè, questo atteggiamento del governo che non vuole dei testimoni scomodi; non
vuole testimoni perché si metterebbe definitivamente in luce quanto sta perpetrando
in termini di repressione e di violazione dei diritti umani nei confronti dei propri
cittadini.
D. - Sono molte, tuttavia, le manifestazioni
di solidarietà: c’è chi lamenta l’assenza di manifestazioni pacifiste come già capitato
in altre occasioni. Come mai questa discrepanza?
R.
– Questo è sempre un fenomeno strano. Purtroppo, il caso dell'ex Birmania, dove si
fatica a fare scendere in piazza e a mobilitare i concittadini, non è l’unico. Purtroppo,
è uno di quei Paesi che, non essendo in qualche modo quotidianamente sulle pagine
dei giornali, ancora non suscita una reazione. Domenica prossima ci sarà la marcia
Perugia-Assisi, la marcia della Pace, e sicuramente la questione dell'ex Birmania
sarà in cima alle nostre priorità. Sarà sicuramente un’occasione dove, oltre a chiedere
la pace per tutte le parti del mondo, si denuncerà quanto accade in Myanmar e si richiederanno
misure urgenti anche per questo Paese.
Sono ormai oltre dieci giorni che
è iniziata la ribellione della popolazione nei confronti della Giunta militare. E'
una protesta partita dalla lunga marcia silenziosa dei monaci buddisti, alla quale
hanno, poi, aderito tutte le componenti della società civile. Sugli aspetti religiosi
della protesta in Myanmar, Luca Collodi ha sentito Giorgio Raspa, presidente
dell'Unione Buddhisti Italiani:
R. –
Ormai la popolazione era allo stremo e gli ultimi provvedimenti economici l’avevano
completamente prostrata. Quindi, la protesta ha una fortissima connotazione religiosa.
E’ una religione importante che si è messa in piazza e si è esposta a protezione del
popolo che soffre.
D. – Presidente Raspa, qual è
il ruolo del monaco buddista nella società birmana?
R.
– Il ruolo del monaco e del monachesimo in quel Paese è un ruolo di estrema simbologia.
Il monaco rappresenta il simbolo della fede, tutto ciò in cui è bene credere. Non
c’è tradizione scritta: è tradizione orale, è l’esempio che viene dato: tutto quello
che una persona deve fare, lo deve fare con il suo comportamento, con la sua etica,
per essere una persona pronta sulla strada degli insegnamenti più alti.
D.
– Quindi, qual è il rapporto tra buddismo e regime militare?
R.
– Il regime militare, al pari di qualsiasi regime o di qualsiasi istanza politica
e sociale in Myanmar, come in altri Paesi, riceve dal buddismo la sua autorità. Nella
ex Birmania, però, questa è imposta con le armi. I monaci, uscendo dai loro monasteri,
hanno tolto autorità morale alla Giunta militare, in sostanza hanno detto: “Questo
non è più consono con l’insegnamento del Buddha”.
D.
– Questo spiega anche perché alcuni militari si sono rifiutati, secondo le cronache,
di sparare sulla folla e si sono inginocchiati davanti ai monaci ...
R.
– Certamente. La Giunta militare pretende dalle forze armate di sparare contro la
gente e uccidere, ma questo è assolutamente contrario ai principi morali della popolazione.
Quindi, al di là delle scarse notizie che abbiamo, confermo che alcuni militari si
sono rifiutati di intervenire.