2007-09-30 10:42:26

In Myanmar, incontro tra l'inviato dell'Onu e Aung San Suu Kyi


In Myanmar, le proteste di piazza hanno lasciato il posto alla diplomazia. Nel Paese asiatico, l’inviato dell’ONU, Ibrahim Gambari, ha incontrato il leader dell’opposizione e premio Nobel per la Pace, Aung San Suu Kyi. Un colloquio dai contenuti top-secret avvenuto a Yangon. Il servizio di Benedetta Capelli:RealAudioMP3


Per la seconda volta in due anni Gambari e Aung San Suu Kyi si sono ritrovati l’uno di fronte all’altro. Il primo loro incontro risale al maggio 2006 e, in risposta al colloquio di allora, il regime birmano prolungò gli arresti domiciliari per la leader della Lega nazionale per la Democrazia. Oggi in una residenza per stranieri del governo, a Yangon, la visita, durata un’ora e 15 minuti da parte dell’emissario dell’Onu con la San Suu Kyi sempre agli arresti domiciliari, ma con un Paese in fibrillazione: a più di dieci giorni di proteste, il bilancio della repressione della Giunta militare è di 16 vittime, oltre 200 feriti. Nulla è trapelato sul contenuto dell’incontro avvenuto all’indomani della visita di Gambari a Naypyidaw, quartier generale del regime, in mezzo alla giungla, dove ha colloquiato con alcuni esponenti del governo ma non con il generale Than Shwe. Secondo un sito di esuli birmani, le autorità avrebbero inoltre cercato di organizzare contro-manifestazioni per impressionare l’inviato di Ban Ki-moon. Intanto, l’ingente dispiegamento di forze deciso dai militari sta ottenendo l’effetto desiderato: Yangon è sotto il controllo di circa 20 mila soldati; i monasteri di Mandalay, seconda città del Myanmar, sono stati invece circondati e isolati. Non cessa neppure l’attività di controllo: secondo una fonte diplomatica asiatica, sarebbero mille gli arresti effettuati la scorsa notte.

Intanto, a chiedere maggiore impegno internazionale per garantire il rispetto dei diritti umani e l’avvio di un processo di democratizzazione nell'ex Birmania è anche la FOCSIV. L’ONG italiana esprime, inoltre, grave preoccupazione per le violenze a cui sono sottoposti gli stranieri, testimoni della repressione di questi giorni. Sono, infatti, ben 6 i suoi volontari presenti in Myanmar. Stefano Leszczynski ha chiesto a Sergio Marelli, presidente della FOCSIV, cosa sono riusciti a sapere della situazione nel Paese:RealAudioMP3

R. - Difficile dare delle cifre diverse, precise, ma comunque i nostri volontari ci dicono che, probabilmente, le vittime sono molte di più ed è senz’altro più alto il numero delle persone arrestate in questi giorni.

 
D. - Preoccupa molto anche la stretta ed il giro di vite nei confronti degli stranieri presenti nel Paese...

 
R. - Purtroppo, non è una novità in Myanmar. Io ricordo, personalmente, quando due anni fa successe la tragedia dello Tsunami, ci fu più o meno lo stesso tipo di reazione e, cioè, questo atteggiamento del governo che non vuole dei testimoni scomodi; non vuole testimoni perché si metterebbe definitivamente in luce quanto sta perpetrando in termini di repressione e di violazione dei diritti umani nei confronti dei propri cittadini.

 
D. - Sono molte, tuttavia, le manifestazioni di solidarietà: c’è chi lamenta l’assenza di manifestazioni pacifiste come già capitato in altre occasioni. Come mai questa discrepanza?

 
R. – Questo è sempre un fenomeno strano. Purtroppo, il caso dell'ex Birmania, dove si fatica a fare scendere in piazza e a mobilitare i concittadini, non è l’unico. Purtroppo, è uno di quei Paesi che, non essendo in qualche modo quotidianamente sulle pagine dei giornali, ancora non suscita una reazione. Domenica prossima ci sarà la marcia Perugia-Assisi, la marcia della Pace, e sicuramente la questione dell'ex Birmania sarà in cima alle nostre priorità. Sarà sicuramente un’occasione dove, oltre a chiedere la pace per tutte le parti del mondo, si denuncerà quanto accade in Myanmar e si richiederanno misure urgenti anche per questo Paese.

Sono ormai oltre dieci giorni che è iniziata la ribellione della popolazione nei confronti della Giunta militare. E' una protesta partita dalla lunga marcia silenziosa dei monaci buddisti, alla quale hanno, poi, aderito tutte le componenti della società civile. Sugli aspetti religiosi della protesta in Myanmar, Luca Collodi ha sentito Giorgio Raspa, presidente dell'Unione Buddhisti Italiani:RealAudioMP3


R. – Ormai la popolazione era allo stremo e gli ultimi provvedimenti economici l’avevano completamente prostrata. Quindi, la protesta ha una fortissima connotazione religiosa. E’ una religione importante che si è messa in piazza e si è esposta a protezione del popolo che soffre.

 
D. – Presidente Raspa, qual è il ruolo del monaco buddista nella società birmana?

 
R. – Il ruolo del monaco e del monachesimo in quel Paese è un ruolo di estrema simbologia. Il monaco rappresenta il simbolo della fede, tutto ciò in cui è bene credere. Non c’è tradizione scritta: è tradizione orale, è l’esempio che viene dato: tutto quello che una persona deve fare, lo deve fare con il suo comportamento, con la sua etica, per essere una persona pronta sulla strada degli insegnamenti più alti.

 
D. – Quindi, qual è il rapporto tra buddismo e regime militare?

 
R. – Il regime militare, al pari di qualsiasi regime o di qualsiasi istanza politica e sociale in Myanmar, come in altri Paesi, riceve dal buddismo la sua autorità. Nella ex Birmania, però, questa è imposta con le armi. I monaci, uscendo dai loro monasteri, hanno tolto autorità morale alla Giunta militare, in sostanza hanno detto: “Questo non è più consono con l’insegnamento del Buddha”.

 
D. – Questo spiega anche perché alcuni militari si sono rifiutati, secondo le cronache, di sparare sulla folla e si sono inginocchiati davanti ai monaci ...

 
R. – Certamente. La Giunta militare pretende dalle forze armate di sparare contro la gente e uccidere, ma questo è assolutamente contrario ai principi morali della popolazione. Quindi, al di là delle scarse notizie che abbiamo, confermo che alcuni militari si sono rifiutati di intervenire.







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