Mons. Ravasi nuovo presidente del Pontificio Consiglio della Cultura
Il Papa ieri ha nominato il nuovo presidente del Pontificio Consiglio della Cultura:
si tratta di mons. Gianfranco Ravasi, finora prefetto della Veneranda Biblioteca Ambrosiana.
Il Pontefice lo ha nominato nello stesso tempo presidente delle Pontificie Commissioni
per i Beni Culturali della Chiesa e di Archeologia Sacra, assegnandogli la sede titolare
di Villamagna di Proconsolare, con dignità di arcivescovo. Mons. Ravasi, nato a Merate,
in provincia di Lecco 65 anni fa, succede al cardinale Paul Poupard, che per raggiunti
limiti d’età ha rinunciato ad un incarico che ricopriva da quasi 20 anni. Sergio Centofanti
ha chiesto a mons. Ravasi come abbia accolto questa importante nomina:
R. - Colgo
questa nomina con sorpresa, da una parte, perché si tratta di una svolta radicale
per la mia vita, anche se per molti versi devo dire che ho trascorso buona parte della
mia esistenza nel mondo della cultura, nel mondo del dialogo, con un orizzonte così
mutevole, come quello della cultura, delle arti, della letteratura e così via. D’altra
parte, c’è anche una dimensione che mi è molto consona, quella cioè di stare sulla
frontiera, per vedere anche questo mondo della non credenza, il mondo che si interroga,
il mondo che qualche volta rifiuta, ma che ha dentro di sé sottilmente un’ansia di
ricerca. Si tratta di un’esperienza per me molto superiore, rispetto a quella che
ho condotto finora, in un orizzonte ristretto. E’, però, un entrare in un ambito che
non mi fa trovare spaesato o inceppato o dubbioso.
D. – A suo avviso, quali
sono le principali sfide culturali di oggi?
R. – Le principali sfide culturali
di oggi sono su traiettorie molto diverse. Da un lato c’è sicuramente il ritrovare
ancora i grandi valori, in un confronto con una tradizione così alta e così nobile
come quella cristiana. Il cristianesimo ha alle spalle due millenni di cultura altissima,
che non può essere semplicemente liquidata come purtroppo avviene qualche volta ai
nostri giorni con delle battute, con degli sberleffi quasi di tipo goliardico. Quindi,
il primo elemento, in un mondo così vago e incerto, è quello di riuscire a trovare
la sostanza, a ritrovare radici che possano in qualche modo alimentare. Un’altra traiettoria
è certamente quella del vincere la superficialità, la banalità. Il fatto che la cultura
religiosa di sua natura ponga le domande ultime e dia alcune risposte che sono risposte
ultime, questo fa sì che all’interno del mondo di oggi, così fermo alla superficie
delle cose, così banale, qualche volta persino volgare, si possa invece ritrovare
una sorta di scintilla profonda, una sorta di seme deposto che deve ancora fiorire.
E questa è la sfida di un dialogo con questo mondo. Io direi che queste due traiettorie
sono le principali. Poi, naturalmente, si ramificano nella complessità di un dicastero
vaticano, che non guarda soltanto all’Occidente, ma guarda anche ai grandi orizzonti
dei continenti, come l’Africa e l’Asia, che hanno percorsi nuovi, percorsi diversi
rispetto a quelli che abbiamo fatto finora.
D. – Come far dialogare Vangelo
e cultura in questa nostra società?
R. – Il dialogo tra Vangelo e cultura è
stato uno dei grandi punti di riferimento della Chiesa, soprattutto all’interno della
sua storia secolare, ma soprattutto a partire dal Concilio Vaticano II. Non per nulla
il dicastero della cultura sorge sulla scia del Concilio, anche se poi verrà formalmente
istituito da Giovanni Paolo II. Ha già il suo avvio con Paolo VI e, in particolare,
con quel Consiglio che lui vorrà al Pontificio Consiglio per il dialogo con i non
credenti. In questa luce, io penso che sia indispensabile riconoscere che il cristianesimo
è anche produttore di cultura, ma è anche soprattutto capace di inquietare le culture,
di dare una forza di ricerca, una forza di domanda sicuramente molto feconda. Ecco,
il Vangelo e la cultura sono un binomio che deve essere intrecciato, che si incrocia,
non solo perché il Vangelo deve riuscire ad esprimersi attraverso i linguaggi, attraverso
le coordinate della nuova cultura, ma, d’altra parte, deve essere anche capace di
lasciare una traccia. Non deve soltanto esprimere se stesso, ma anche far sì che la
sua espressione diventi un principio vitale, un principio fecondatore.
D.
– Come lei ha già accennato, vediamo sempre più spesso una società contraddittoria,
sempre più senza Dio, ma sempre più assetata di Dio...
R. – E’ vero questo,
noi ci troviamo paradossalmente in un mondo che sembra fermarsi soltanto all’ovvietà,
alla banalità, si perde in piccoli rigagnoli, accoglie ormai piuttosto che la parola
la chiacchiera, nelle azioni non ha più la progettualità. Ma, d’altra parte, mai come
in un terreno così desertico, come bisogna pure registrare, che è quello caratteristico
del nostro tempo, si sente proprio la necessità di far ramificare radici di speranza,
si sente come se l’uomo avesse sempre un fremito. Come diceva giustamente Pascal:
“L’uomo supera infinitamente l’uomo”. E’ inutile che si cerchi con la pubblicità,
con il commercio, con la vita solo ridotta a fenomeno economico o biologico, di accontentare
l’uomo nei suoi bisogni primari, nelle sue pulsioni e così via. L’uomo alla fine contiene
sempre dentro di sé una sorta di apertura verso l’eterno e l’infinito. Ha dentro di
sé sempre questa tensione che lo supera. Ed è nella ricerca di questo oltre e di questo
altro che deve attestarsi la presenza della Chiesa con il suo annuncio e la sua cultura.
D. – Lei sa già quali saranno i suoi primi passi?
R. – Io non sono
un uomo della Curia vaticana, quindi entro dall’esterno e devo con molta umiltà cominciare
a conoscere una struttura di grande complessità, che ha già alle spalle una tradizione.
Il Pontificio Consiglio ha celebrato quest’anno i 25 anni della sua esistenza. Quindi,
ho la necessità di riuscire a conoscerlo con attenzione, conoscendone tutti i percorsi,
tutte le attività in modo tale da poter poi insieme iniziare un nuovo itinerario,
iniziare appunto un nuovo progetto. La prima tappa perciò è come sempre, come in tutte
le cose, prima conoscere e poi agire.
D. – L’ultima domanda. Lei succede al
cardinale Poupard...
R. – Io vorrei, avendo questa occasione, rivolgere un
saluto al cardinal Poupard che, come tutti sanno ormai - è noto in tutto il mondo
- è stato una delle alte figure della cultura cattolica ed è stato anche una grande
personalità. Quindi, a maggior ragione, la mia presenza diventa per certi versi più
faticosa, quasi inceppata, di fronte ad una figura di così alto rilievo. Anche la
Pontificia Commissione dei Beni Culturali aveva delle figure significative, come il
suo presidente precedente, mons. Piacenza, e l’attuale vice presidente che è l’abate
Zielinsky, che ho avuto il piacere di conoscere. Sicuramente ho alle spalle delle
presenze molto alte e queste presenze possono essere certamente elemento di imbarazzo
per me, ma possono essere anche un elemento importante di stimolo, ben sapendo che
poi rimarranno ancora accanto a me con il loro consiglio, perché io, come ho detto,
entro in un orizzonte che mi è per buona parte ignoto, venendo da un mondo diverso,
nei cui confronti devo stabilire ormai un ponte di comunicazione.