Nei Territori palestinesi varata la riforma elettorale che avvantaggia Al Fatah e
penalizza Hamas – In Iraq, visita a sorpresa di Bush; le truppe britanniche si ritirano
dal quartier generale nel centro di Bassora
Il governo del premier palestinese Salam Fayyad, esponente di Al Fatah, rappresenta
un partner moderato con il quale Israele può condurre un serio negoziato. Lo ha dichiarato
l’alto rappresentante dell’Unione Europea per la politica estera e la sicurezza, Javier
Solana, all’indomani della promulgazione, da parte del presidente palestinese Abu
Mazen, di una nuova normativa elettorale: in base a questo provvedimento, per partecipare
alle prossime elezioni politiche è necessario che ciascun partito palestinese riconosca
lo Stato di Israele. L’obiettivo è di penalizzare il movimento islamico di Hamas,
da sempre contrario al riconoscimento di Israele, che ha vinto le consultazioni del
2006. A beneficiare della nuova normativa sarà invece il partito di Al Fatah, guidato
da Abu Mazen. Sul significato di questa riforma, ascoltiamo il commento di Giorgio
Bernardelli, esperto di Medio Oriente, intervistato da Stefano Leszczynski:
R. -
Abu Mazen ha il problema di legittimare questo suo governo all’interno della Cisgiordania
ed in questo senso va letta la mossa di cambiare la legge elettorale.
D.
– Sembra quasi che Abu Mazen abbia trovato una sponda insperata nel premier israeliano
Olmert?
R. – E’ l’incontro di due debolezze sul fronte
interno. Queste due debolezze stanno portando ad una svolta nel senso che entrambi
stanno puntando tutto sul negoziato per una soluzione al conflitto israelo-palestinese,
rafforzati in questo dall’intervento americano.
D.
– Strategicamente, comunque, il nemico comune resta Hamas?
R.
– Assolutamente, ormai Abu Mazen ha messo da parte ogni ipotesi di arrivare ad un
accordo con Hamas. Resta però una grandissima incognita: se cambierà la legge elettorale
ma non si sa, se e quando, si potranno davvero fare delle elezioni; è impensabile,
almeno in questo momento, che si convochino delle elezioni in cui non si vota a Gaza.
Dal momento che Hamas dice che non se ne parla di andare al voto, diventa problematico
capire quando si potrà votare davvero. E’ più una mossa politica che una mossa che
porterà davvero alle urne.
D. – Condizione esenziale
per porre termine allo strapotere di Hamas nella Striscia di Gaza, è rompere l’isolamento
della Striscia?
R. – Tra le ipotesi per una soluzione
definitiva del conflitto c’è questo collegamento tra la Striscia di Gaza e la Cisgiordania,
un corridoio di cui si parla già dagli anni degli accordi di Oslo. Il problema è che
tutto questo è rivolto al ‘doman’i: cominciamo a pensare che Hamas a Gaza ci resterà
e ci resterà parecchio.
- Una grande vittoria contro il terrorismo. Il
premier libanese Fuad Siniora ha definito così l’operazione dell’esercito di Beirut
contro i miliziani di Fatah al Islam, asserragliati dal 20 maggio nel campo profughi
palestinesi di Nahr al Bared. Fra i 37 miliziani rimasti uccisi, c’era anche Shaker
al-Absi, il leader del gruppo integralista. L’assedio di questi mesi è costato la
vita a decine di civili e ad oltre 150 soldati.
- In Iraq, è arrivato a Baghdad
per una visita a sorpresa il presidente statunitense, George W. Bush. Il capo di Stato
americano era partito da Washington alla volta dell'Australia e, secondo il programma
del viaggio, l'Air Force One avrebbe dovuto effettuare una sosta nelle Hawaii prima
di raggiungere Sydney. L'aereo presidenziale, con a bordo anche il segretario di Stato
Condoleezza Rice, si è diretto invece verso il Paese arabo. Sul terreno, intanto,
almeno due persone sono morte per un ennesimo attentato nella capitale. A Bassora,
nel sud del Paese, le truppe britanniche hanno inoltre completato il ritiro dalla
base militare nell’ex palazzo di Saddam Hussein. I soldati iracheni hanno subito assunto
il controllo del quartier generale. Il nostro servizio:
Oltre 500
soldati britannici si sono ritirati da Bassora, seconda città dell’Iraq per importanza
e principale centro petrolifero del Paese. Il contingente del Regno Unito aveva mantenuto
nel centro di Bassora il proprio quartier generale fin dall’invasione per rovesciare
il regime di Saddam Hussein. Adesso il Palazzo della presidenza, ex residenza di Saddam
a Bassora, è presidiato da soldati iracheni. Secondo gli esperti della Difesa di Londra,
il trasferimento dei militari britannici dal centro cittadino in una base militare
vicina all’aeroporto, fuori dalla città, è altamente simbolico e può preludere ad
un ritiro definitivo delle truppe del Regno Unito dall’Iraq. In previsione del trasferimento
del controllo della provincia di Bassora alle autorità irachene, restano attualmente
dispiegati, nel sud del Paese arabo, oltre 5500 soldati britannici. Il ritiro - ha
sottolineato il premier britannico Gordon Brown - non rappresenta una sconfitta, ma
è una “iniziativa pianificata”. Il governo di Londra – ha aggiunto Brown –
continuerà a mantenere l'impegno assunto “con la popolazione irachena e con la comunità
internazionale”. Il riposizionamento delle truppe sembra comunque confermare la volontà
del governo britannico di accelerare i tempi per il ritiro dall’Iraq. Ma lo Stato
arabo non è ancora un Paese sicuro: anche oggi un attentato ha scosso il centro di
Baghdad, dove l’esplosione di una bomba ha provocato la morte di almeno due persone.
-
Ancora violenze in Afghanistan: l’esplosione di due ordigni al passaggio di un convoglio
di rifornimenti della NATO ha provocato la morte di sette agenti afgani. L’attacco,
avvenuto nella provincia di Kunar, roccaforte dei talebani, non è stato ancora rivendicato.
Ieri sera, intanto, è stata attaccata una pattuglia italiana nei pressi di Kabul.
Un soldato è rimasto lievemente ferito. Lo stato maggiore della Difesa ha reso noto
che è in buone condizioni di salute. L'episodio è avvenuto poco dopo l’attentato a
Farah che aveva provocato il ferimento di tre soldati italiani.
- Nessun Paese
attaccherà l’Iran. Così alla stampa locale il presidente della Repubblica Islamica
Mahmud Ahmadinejad, all’indomani delle nuove dichiarazioni sui progressi compiuti
nel campo nucleare. Intanto la Corea del Nord ha fatto sapere che chiuderà tutti gli
impianti atomici presenti nel suo territorio. Eugenio Bonanata:
Gli Stati
Uniti hanno cancellato la Corea del Nord dalla lista dei Paesi che sostengono il terrorismo.
Questa la prima conseguenza pratica della decisione di Pyongyang di smantellare il
proprio programma nucleare entro il 2007. Una decisione annunciata ieri dal mediatore
statunitense Christopher Hill al termine di due giornate di colloqui a Ginevra con
i delegati nordcoreani che si sono impegnati a fornire una mappa completa di tutti
gli impianti presenti nel Paese. I dettagli dell’operazione verranno discussi a metà
settembre a Pechino in un incontro con i delegati di Cina, Corea del Sud, Giappone
e Russia. Ma è noto, in base agli accordi precedenti, che per compensare Pyongyang
sono in arrivo anche aiuti energetici: circa 950 tonnellate di petrolio o l’equivalente
in denaro. A fronte di questo risultato, però, a preoccupare la Comunità Internazionale
è la condotta dell’Iran che prosegue a gran velocità la strada del nucleare. Il presidente
Ahmadinejad ieri ha annunciato l’attivazione di oltre 3 mila centrifughe per l’arricchimento
dell’uranio, minacciando per l’ennesima volta, in caso di sanzioni, di sospendere
la collaborazione con l’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA). Se i
numeri del leader iraniano sono in contraddizione con quelli forniti proprio dall’AIEA,
che parla di meno di 2 mila impianti del genere, il traguardo dei 3 mila rappresenta
una soglia cruciale. Questo perché – avvertono gli specialisti - permette, a condizione
che tutte le centrifughe funzionino al massimo, di produrre in meno di un anno una
quantità di uranio arricchito sufficiente a fabbricare una bomba atomica.
-
La crisi del Darfur deve essere risolta: si deve agevolare il dispiegamento della
forza di pace nella martoriata regione sudanese ed è necessario accelerare il processo
politico. E’ quanto ha dichiarato il segretario generale dell’ONU, Ban Ki-moon, in
un’intervista rilasciata al quotidiano italiano “La Repubblica” alla vigilia del suo
viaggio in Sudan, Ciad e Libia. Ban Ki-moon ha poi sottolineato come “la crisi umanitaria
in Ciad provocata dall’afflusso di profughi dal Darfur sia molto seria” anche perché
sono “critiche” le relazioni tra i governi di Khartoum e di N’Djamena. Il segretario
generale dell’ONU ha detto che chiederà al leader libico Gheddafi di continuare ad
offrire “il suo sostegno al dialogo politico ai Paesi coinvolti nella crisi del Darfur”.
Ma quali sono gli obiettivi del tour diplomatico di Ban Ki-moon in Africa? Salvatore
Sabatino lo ha chiesto a Claudio Moffa, docente di storia dei Paesi dell’Africa
e dell’Asia presso l’Università di Teramo:
R. –
Le fonti ONU hanno un po’ sminuito il valore di questo tour che è tutto concentrato
sul Darfur, in pratica, perché Libia e Ciad sono coinvolti nella crisi: la Libia,
come Paese che ha cercato la mediazione, ed il Ciad come ospite di centinaia di migliaia
di profughi; è un’impresa che punta praticamente all’applicazione dello storico accordo
del 5 maggio 2006 ad Abuja e sottoscritto da nove Paesi - tra cui Gran Bretagna, Stati
Uniti e Francia - e dall’Unione Africana e dall’Unione Europea. Questa intesa, però,
non ha visto la firma di due gruppi di guerriglia che si oppongono alla richiesta
del governo sudanese a quell’accordo perché puntano ad un’intesa simile a quella fatta
con il Sud del Paese, cioè che preveda anche una possibile secessione del Paese.
D.
– Molte sono le fonti che dicono che il Sudan continua a violare l’embargo sulla vendita
di armi nel Darfur imposto proprio dalle Nazioni Unite. Ma qual è la situazione attualmente?
R.
– La situazione è quella di un braccio di ferro che, tutto sommato, continua perché
la stessa Risoluzione del 31 luglio scorso delle Nazioni Unite tarda ad essere applicata
e già si parla di un invio della missione mista Unione Africana-ONU per il prossimo
anno. Il problema è che da una parte c’è la posizione storica – dal 2003, da quanto
è scoppiata la crisi – di Khartoum, del governo di Khartoum, che in base all’articolo
2 della Carta delle Nazioni Unite dice: “Questo conflitto è interno e quindi soltanto
con il nostro assenso l’ONU può intervenire”. Dall’altra, ci sono gruppi di guerriglia
che sono sostenuti in parte da alcuni settori dell’amministrazione americana e anche
da Israele che giocano invece alla destabilizzazione.
- Ban Ki-moon si
è soffermato anche su altri temi internazionali e, in particolare, sulla situazione
del Kosovo. Il segretario generale delle Nazioni Unite ha auspicato che la regione
serba a maggioranza albanese non diventi uno “strumento di confusione e di instabilità
non solo nei Balcani, ma in tutta Europa”. Le raccomandazioni dell’inviato speciale
dell’ONU per il Kosovo – ha aggiunto Ban Ki-moon – non hanno ricevuto il consenso
unanime del Consiglio di Sicurezza ma “il negoziato va avanti e vorrei vedere progressi
sostanziali”.
- Sul Kosovo è intervenuto anche il ministro degli Esteri russo,
Serghei Lavrov, sottolineando che per la Russia lo status della provincia serba “non
è negoziabile”. La questione kosovara continua a contrapporre Russia e Stati Uniti:
il governo di Mosca, che ha ripetutamente opposto il proprio veto sulle varie bozze
di risoluzione per l’indipendenza del Kosovo, sollecita “una soluzione accettata sia
da Belgrado che da Pristina”. L’amministrazione statunitense è favorevole, invece,
all’indipendenza della provincia serba attualmente sotto amministrazione dell’ONU.
Il ministro degli Esteri russo si è anche nuovamente soffermato sui progetti statunitensi
di installazione di basi antimissile in Europa centrale: anche questa – ha avvertito
Lavrov – è una questione non negoziabile. La Russia considera la realizzazione di
uno scudo antimissile una minaccia per la propria sicurezza nazionale.
- Resta
alta la tensione tra i governi di Città del Messico e Washington dopo l’espulsione
dagli Stati Uniti di Elvira Arellano, immigrata irregolare divenuta una figura simbolo
nella lotta per la legalizzazione dei clandestini, avvenuta la scorsa settimana. Ieri,
in un discorso pronunciato al Palazzo Nazionale, il presidente messicano Felipe Calderón
ha di nuovo criticato la politica migratoria americana. Calderon ha esternato un “energica
protesta per i mezzi unilaterali utilizzati dal governo degli Stati Uniti che aggravano
la persecuzione dei lavoratori messicani senza documenti”. Il presidente messicano
ha ribadito inoltre il rifiuto al progetto statunitense di costruire un muro di oltre
1100 chilometri lungo la frontiera con il Messico. Sulla vicenda, sono intervenuti
anche i vescovi statunitensi, sollecitato l’urgente approvazione di una legge “lungimirante
e organica” in materia di immigrazione.
- In Thailandia, un tribunale ha emesso
due mandati d’arresto contro l’ex premier Thaksin Shinawatra e la moglie, accusati
di violazione delle leggi di borsa. Deposto con un golpe lo scorso 19 settembre, il
miliardario Thaksin vive in Gran Bretagna e dal mese di luglio è il presidente della
squadra di calcio Manchester City. Le autorità tailandesi non hanno escluso di avviare
procedure di estradizione se i coniugi non si presenteranno ad una udienza della Corte
suprema prevista per il prossimo 25 settembre. (Panoramica internazionale a
cura di Amedeo Lomonaco) Bollettino
del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LI No. 246 E'
possibile ricevere gratuitamente, via posta elettronica, l'edizione quotidiana del
Bollettino del Radiogiornale. La richiesta può essere effettuata sulla home page del
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