2007-08-23 16:03:44

La comunità internazionale ricorda l'abolizione della tratta negriera: ma il traffico di esseri umani continua


Nella notte tra il 22 e il 23 agosto 1791, un’insurrezione di schiavi a Santo Domingo segnava l’inizio del processo che avrebbe portato all’abolizione della schiavitù. Per ricordare questa orribile piaga e combattere le moderne forme di sfruttamento, l’UNESCO celebra oggi la Giornata internazionale di commemorazione della tratta negriera e della sua abolizione. Numerose le iniziative in tutto il mondo e, in particolare, nel Regno Unito, che quest’anno festeggia il bicentenario dell’abolizione della tratta nelle colonie britanniche. Per una riflessione sul fenomeno, che ancora oggi coinvolge in diverse forme oltre 200 milioni di persone, Roberta Moretti ha intervistato Marco Bufo, coordinatore generale dell’associazione On The Road ONLUS, che opera a contatto diretto con le vittime del traffico di esseri umani:RealAudioMP3


R. - La schiavitù è una realtà dell’Europa occidentale ma anche, in generale, dei Paesi ricchi o che sono in via di progresso, e non è più soltanto la tratta a scopo di sfruttamento sessuale, ma parliamo di sfruttamento in vari settori del lavoro, dall’edilizia all’agricoltura, all’accattonaggio, in cui sono coinvolti soprattutto minori, ma a volte anche persone disabili, fino ad arrivare all’espianto di organi e alle adozioni internazionali illegali.

 
D. - Cosa alimenta oggi il fenomeno del traffico degli esseri umani?

 
R. - Oggi il fenomeno si caratterizza per un business che è al terzo posto dei traffici internazionali della criminalità organizzata, che dà degli altissimi profitti a fronte di bassissimi rischi. Per quanto le legislazioni dei singoli Stati si stiano adeguando a quanto richiesto, per esempio, dal protocollo ONU di Palermo, stabilendo il reato di tratta e delle pene anche molto severe, in realtà è un reato che è molto difficile da identificare e ancora manca una cultura di piena consapevolezza della gravità di questo reato. Si tende ancora a considerare queste persone come dei migranti clandestini e quindi a non identificarle come vittime di tratta, come in realtà sono. Un’altra difficoltà è data dal fatto che le organizzazioni criminali hanno anche cambiato i loro modi operandi, per cui sono passati dalla violenza più bruta a delle forme di sfruttamento negoziato, per cui la stessa percezione delle vittime di essere tali viene meno e le organizzazioni criminali traggono vantaggio da questo tipo di tecnica per fidelizzare le vittime stesse.

 
D. - Cosa viene fatto e soprattutto cosa andrebbe fatto a livello della società civile, ma anche di cooperazione internazionale, per combattere il fenomeno?

 
R. - Noi, come operatori sociali, per esempio, facciamo un lavoro di strada, di riduzione del danno, di promozione dei diritti, nei luoghi in cui, per esempio, c’è la prostituzione, e offriamo poi anche consulenza legale, assistenza psicologica, accoglienza residenziale, e dei programmi di inserimento sociale, ma anche di inclusione lavorativa. Questo tipo di attività comporta però, necessariamente, una collaborazione molto stretta sul territorio con le forze dell’ordine, con la magistratura, perché una volta che la persona si sente rassicurata e tutelata nei propri diritti si rende anche disponibile a collaborare per smantellare le reti dello e sfruttamento. Potremmo dire che questo tipo di approccio, in realtà, è quello necessario a livello internazionale: è necessario che le polizie dei vari Paesi collaborino per colpire veramente il racket criminale, e per l’assistenza alle vittime. Inoltre, è necessario informare le persone rispetto alle possibilità che hanno di immigrare legalmente, perché uno dei fattori che contribuisce alla tratta è anche la paura del ricco Occidente di vedere invasi dai migranti i propri territori.

 
D. - Dunque, occorre un cambiamento di mentalità?

 
R. - Sicuramente è molto importante ribadire la centralità di un approccio fondato sui diritti umani. Troppo spesso, purtroppo, vengono semplicemente considerati come migranti clandestini da rimandare indietro nei loro Paesi e questo poi impedisce di vederle come vittime. Vengono rimandate nelle mani dei trafficanti e poi si ritrovano sulle nostre strade, nel caso della prostituzione o dell’accattonaggio, o nei campi di lavoro dopo una settimana, se vengono dalla Romania o dall’Albania, o dopo qualche mese, se vengono, per esempio, dalla Nigeria.







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