Il cardinale Martino: sì all’uso pacifico del nucleare se sicuro
Il cardinale Renato Raffaele Martino, presidente del Pontificio Consiglio Giustizia
e Pace, rilancia dai nostri microfoni l’appello del Papa per un disarmo atomico e
un uso pacifico del nucleare. Riprendendo le parole di Benedetto XVI all’Angelus di
domenica scorsa, il porporato ha ribadito anche la necessità di destinare allo sviluppo
le crescenti spese per gli armamenti. Ma ascoltiamo il presidente di Giustizia e Pace.
L’intervista è di Gudrun Sailer del Programma tedesco della nostra emittente:
R. -
Il Santo Padre Benedetto XVI si è mostrato sensibile alla questione nucleare sin dagli
inizi del suo pontificato. Nei suoi primi due Messaggi per la Giornata Mondiale della
Pace (2006 e 2007), si toccano vari aspetti della questione nucleare, che sono presenti
anche in altre sue dichiarazioni, come quella dell’Angelus di domenica scorsa (29
luglio c.a.). Il Santo Padre segue la linea dei suoi Predecessori. Egli infatti riprende
e articola gli insegnamenti di Giovanni XXIII, Paolo VI e Giovanni Paolo II e del
Concilio Vaticano II, sviluppando la dottrina sociale della Chiesa sulla questione
nucleare. Sia i Papi, sia i Padri del Concilio sono stati solleciti nel denunciare
i rischi legati alle armi nucleari, appena queste sono divenute una tragica realtà
per la famiglia umana. Anche a livello locale la Chiesa Cattolica è sempre stata tra
i protagonisti del dibattito pubblico sul nucleare. Mi riferisco ad esempio all’importante
Lettera pastorale della Conferenza Episcopale Americana del 1983 («The Challenge of
Peace: God’s Promise and Our Response»); oppure al recente impegno dei Vescovi di
Scozia e di Inghilterra e Galles contro il rinnovo del sistema nucleare britannico
(«Trident»). Accanto all’attività pastorale della Chiesa vi è poi l’impegno diplomatico
della Santa Sede. Impegno profuso nel quadro dell’AIEA (della quale la Santa Sede
è membro fondatore) e delle organizzazioni regionali e internazionali. Vorrei infine
aggiungere come, a livello personale, la questione nucleare mi abbia molto impegnato
nei sedici anni trascorsi a New York come Osservatore della Santa Sede presso le Nazioni
Unite; e come essa continui ad impegnarmi come Presidente del Pontificio Consiglio
della Giustizia e della Pace, Dicastero della Santa Sede che si occupa in particolare
di pace, disarmo e diritti umani. Tutti gli anni mentre ero a New York, sono intervenuto
sul disarmo presso il Primo Comitato dell’Assemblea Generale. Ebbe particolare risonanza
l’intervento che feci nell’ottobre del 1997, in cui affermai che “le armi nucleari
sono incompatibili con la pace che auspichiamo per il ventunesimo secolo”. Questa
affermazione fu riprodotta anche su cartelloni sulle autostrade statunitensi e l’intero
intervento, nel dicembre dello stesso anno, fu oggetto di un dibattito, durato due
ore e venti, alla Camera dei Lords a Londra.
Fatta
questa doverosa premessa sull’attività della Chiesa e della Santa Sede, e tornando
al recente Angelus del Papa, va detto che la relazione tra divieto dei progetti ostili
e promozione dei progetti nucleari pacifici sembra essere la questione centrale nel
settore nucleare. Da un lato infatti bisogna difendere la sicurezza e la pace, dall’altro
va promosso lo sviluppo dei popoli. Sicurezza e sviluppo sono i pilastri sui quali
si fondano la politica nucleare mondiale e in particolare il Trattato sulla non proliferazione
delle armi nucleari (TNP) del 1968 e lo Statuto dell’AIEA del 1957. Sembra quindi
corretto affermare che il ruolo dell’AIEA – oggi più che mai – sia quello di garantire
un giusto equilibrio tra le legittime esigenze della sicurezza e dello sviluppo dei
popoli. Sviluppo, legato anche al diritto degli stati all’uso pacifico dell’energia
nucleare, riconosciuto dal TNP come «diritto inalienabile» (articolo IV). Basti pensare
alle possibili applicazioni della tecnologia nucleare non solo nel settore energetico,
ma anche nella medicina e nell’agricoltura.
Il
ruolo dell’AIEA incide in definitiva sulla convivenza pacifica e la stessa sopravvivenza
della famiglia umana, considerata la capacità distruttiva delle armi nucleari. Preliminare
al ruolo dell’AIEA è la volontà degli stati di aderire e attuare il TNP e di sottoporsi
al sistema di monitoraggio AIEA. Ancora più necessario è la seria opzione della comunità
internazionale per la pace, e il superamento di quella che Giovanni XXIII chiama «psicosi
bellica» (Pacem in terris, 61). A riprova della necessità di una reale «conversione»
della politica mondiale, vorrei citare la spesa militare dichiarata dagli stati nel
2006, pari a 1.204 miliardi di dollari! Spesa in crescente aumento negli ultimi anni
e giunta a 184 dollari pro capite considerata la popolazione mondiale. Quindi, se
è doveroso eliminare o almeno limitare il più possibile il rischio che soggetti non
statali (come le organizzazioni criminali e terroristiche), si dotino di armi nucleari;
è altrettanto urgente che gli stessi stati concordino un programma di disarmo generale,
che preveda anche la destinazione allo sviluppo delle risorse umane e materiali oggi
assegnate alla spesa militare. E’ in questa luce che bisogna interpretare le ambizioni
nucleari non solo di Iran e Nord Corea, ma anche di potenze al di fuori del TNP come
l’India, delle potenze occidentali e dei membri permanenti del Consiglio di Sicurezza
delle Nazioni Unite. «L’equilibrio del terrore» basato sulla cosiddetta «strategia
della deterrenza» e sulle armi nucleari non garantisce, ma minaccia la pace della
famiglia umana. La corsa agli armamenti limita lo sviluppo dei popoli e alimenta la
diffidenza reciproca e l’isolamento degli stati a livello regionale e internazionale.
Bisogna ripartire dal «disarmo dei cuori», dalla fiducia tra i popoli e dal rafforzamento
delle organizzazioni internazionali. Non solo l’AIEA ma ciascun stato ed essere umano
sono decisivi nella realizzazione della pace. D. - «Le risorse
in tal modo risparmiate possano essere impiegate in progetti di sviluppo a vantaggio
di tutti gli abitanti e, in primo luogo, dei più poveri» (BENEDETTO XVI, Messaggio
per la Giornata Mondiale della Pace del 2006: «Nella verità, la pace»): quanto di
realistico c’è in questo messaggio?
R. - Il messaggio
è particolarmente realistico e coerente a quanto appena detto sulla relazione tra
disarmo e sviluppo. Vorrei sottolineare due punti. Anzitutto, Benedetto XVI sembra
richiamare il magistrale insegnamento di Paolo VI, secondo cui «Lo sviluppo è il nuovo
nome della pace» (Populorum progressio, 76). Come accennato vi è uno stretto legame
tra disarmo e sviluppo, quindi tra sviluppo e pace. Fra le condizioni necessarie per
lo sviluppo e la pace dei popoli vi è certamente il disarmo. Una delle vie del disarmo
è la destinazione a programmi pacifici delle risorse oggi assegnate ai programmi militari.
La stessa Carta della Nazioni Unite, all’articolo 26, impegna gli stati a garantire
la sicurezza e la pace con la minore spesa militare possibile. Nel settore nucleare
– con la dovuta prudenza – non è da escludere la possibilità che dalle armi possa
essere ricavato materiale nucleare destinabile a programmi energetici, soprattutto
a favore dei paesi in via di sviluppo. Secondo una stima della World Of Mass Destruction
Commission del 2006 l’arsenale mondiale ufficiale sarebbe composto da 27.000 testate
nucleari (12.000 delle quali sempre schierate). Una possibile fonte di materiale per
programmi nucleari pacifici. In secondo luogo, le parole di Benedetto XVI, sollecitando
una conversione degli stessi strumenti di guerra in strumenti di pace e sviluppo,
hanno un profondo significato escatologico e sembrano fare eco al profeta Isaia, secondo
il quale alla fine dei giorni gli uomini «Forgeranno le loro spade in vomeri, le loro
lance in falci; un popolo non alzerà più la spada contro un altro popolo, non si eserciteranno
più nell’arte della guerra» (Is 2,4).
D. - La Santa
Sede è da sempre contraria alla proliferazione nucleare. Quale importanza ha, in questo
contesto, il suo essere membro fondatore dell’AEIA?
R.
- La Santa Sede è a favore della pace e della sicurezza della famiglia umana. Per
questo essa si adopera a livello internazionale per un «disarmo generale, equilibrato
e controllato» (Compendio della dottrina sociale della Chiesa, 508), non solo nel
settore nucleare ma anche in quelli chimico e biologico e delle armi convenzionali.
In tale contesto, si comprende l’importanza del lavoro della Santa Sede come membro
fondatore dell’AIEA. Infatti, questa posizione consente alla Santa Sede di seguire
da vicino e di promuovere per il bene comune sia il processo di disarmo e la non proliferazione
nucleare, sia la ricerca e le possibili applicazioni pacifiche della tecnologia nucleare.
In definitiva, essere membro fondatore dell’AIEA, per la Santa Sede significa lavorare
per la pace e lo sviluppo della famiglia umana. Per fare un poco di storia, vorrei
ricordare che coloro che fondarono questa Agenzia tennero molto a che la Santa Sede
ne facesse parte dall’inizio, convinti com’erano che l’appartenenza della Santa Sede
sarebbe stata una garanzia autorevole degli intenti pacifici della medesima agenzia.
D.
- Il Santo Padre ha auspicato l’uso pacifico nella tecnologia nucleare anche nel
settore energetico. Oggi si discute molto sulla sostenibilità della tecnologia nucleare
per l’uomo e l’ambiente. Eminenza, può dirci un’ultima parola in merito?
R.
- L’apprensione per la sicurezza e la salute dell’uomo e del pianeta è più che legittima
alla luce dei più o meno recenti disastri nucleari (penso al disastro di Chernobyl;
o alle perdite radioattive causate proprio in questi giorni da un terremoto in Giappone,
nella centrale di Khasiwazaki–Kariva). Anche in questo caso è tuttavia necessario
impostare correttamente il discorso e fissare con ragionevolezza i punti fondamentali
di una ipotetica politica nucleare. Considerata la complessità del tema, mi limito
a delle constatazioni personali e generali, pur consapevole delle loro implicazioni
alla luce del mio servizio alla Santa Sede. Poste le esigenze della massima sicurezza
per l’uomo e per l’ambiente, e sancito il divieto dell’uso ostile della tecnologia
nucleare, perché precludere l’applicazione pacifica della tecnologia nucleare? In
campo medico sono noti i possibili benefici derivanti dalla radiologia nucleare; nel
settore agricolo studi AIEA tendono a dimostrare come la tecnologia nucleare possa
favorire l’agricoltura. Il settore che preoccupa di più sembra essere quello energetico.
Tuttavia, assicurata la sicurezza degli impianti e dei depositi; regolati in maniera
severa la produzione, la distribuzione e il commercio di energia nucleare, mi sembra
vi siano i presupposti per una politica energetica «integrata», che contempli quindi,
accanto a forme di energia pulita, anche l’energia nucleare. Inoltre, aprire un dibattito
sereno e pubblico sull’energia nucleare sembra quanto mai utile in questo momento
storico nel quale gli stati prendono sul serio questa fonte di energia. Escludere
l’energia nucleare per una petizione di principio, oppure per la paura dei disastri,
potrebbe essere un errore e in alcuni casi conduce ad effetti paradossali. Si pensi
all’Italia che nel 1987 ha abbandonato la produzione di energia nucleare; ma che oggi
importa la stessa energia nucleare dalla Francia ed esporta centrali nucleari all’estero
mediante società a capitale pubblico. In definitiva, è necessario e doveroso valutare
con la massima prudenza la possibilità di un uso pacifico della tecnologia nucleare.
Questo, tuttavia, nella consapevolezza che le opere dell’ingegno umano, quindi anche
le conquiste nel campo nucleare, vanno poste al servizio della famiglia umana. La
tecnologia può essere un male per il cattivo uso che se ne può fare, e non un male
«in quanto tale».