2007-08-01 12:44:31

Il cardinale Martino: sì all’uso pacifico del nucleare se sicuro


Il cardinale Renato Raffaele Martino, presidente del Pontificio Consiglio Giustizia e Pace, rilancia dai nostri microfoni l’appello del Papa per un disarmo atomico e un uso pacifico del nucleare. Riprendendo le parole di Benedetto XVI all’Angelus di domenica scorsa, il porporato ha ribadito anche la necessità di destinare allo sviluppo le crescenti spese per gli armamenti. Ma ascoltiamo il presidente di Giustizia e Pace. L’intervista è di Gudrun Sailer del Programma tedesco della nostra emittente:RealAudioMP3


R. - Il Santo Padre Benedetto XVI si è mostrato sensibile alla questione nucleare sin dagli inizi del suo pontificato. Nei suoi primi due Messaggi per la Giornata Mondiale della Pace (2006 e 2007), si toccano vari aspetti della questione nucleare, che sono presenti anche in altre sue dichiarazioni, come quella dell’Angelus di domenica scorsa (29 luglio c.a.). Il Santo Padre segue la linea dei suoi Predecessori. Egli infatti riprende e articola gli insegnamenti di Giovanni XXIII, Paolo VI e Giovanni Paolo II e del Concilio Vaticano II, sviluppando la dottrina sociale della Chiesa sulla questione nucleare. Sia i Papi, sia i Padri del Concilio sono stati solleciti nel denunciare i rischi legati alle armi nucleari, appena queste sono divenute una tragica realtà per la famiglia umana. Anche a livello locale la Chiesa Cattolica è sempre stata tra i protagonisti del dibattito pubblico sul nucleare. Mi riferisco ad esempio all’importante Lettera pastorale della Conferenza Episcopale Americana del 1983 («The Challenge of Peace: God’s Promise and Our Response»); oppure al recente impegno dei Vescovi di Scozia e di Inghilterra e Galles contro il rinnovo del sistema nucleare britannico («Trident»). Accanto all’attività pastorale della Chiesa vi è poi l’impegno diplomatico della Santa Sede. Impegno profuso nel quadro dell’AIEA (della quale la Santa Sede è membro fondatore) e delle organizzazioni regionali e internazionali. Vorrei infine aggiungere come, a livello personale, la questione nucleare mi abbia molto impegnato nei sedici anni trascorsi a New York come Osservatore della Santa Sede presso le Nazioni Unite; e come essa continui ad impegnarmi come Presidente del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, Dicastero della Santa Sede che si occupa in particolare di pace, disarmo e diritti umani. Tutti gli anni mentre ero a New York, sono intervenuto sul disarmo presso il Primo Comitato dell’Assemblea Generale. Ebbe particolare risonanza l’intervento che feci nell’ottobre del 1997, in cui affermai che “le armi nucleari sono incompatibili con la pace che auspichiamo per il ventunesimo secolo”. Questa affermazione fu riprodotta anche su cartelloni sulle autostrade statunitensi e l’intero intervento, nel dicembre dello stesso anno, fu oggetto di un dibattito, durato due ore e venti, alla Camera dei Lords a Londra.

 
Fatta questa doverosa premessa sull’attività della Chiesa e della Santa Sede, e tornando al recente Angelus del Papa, va detto che la relazione tra divieto dei progetti ostili e promozione dei progetti nucleari pacifici sembra essere la questione centrale nel settore nucleare. Da un lato infatti bisogna difendere la sicurezza e la pace, dall’altro va promosso lo sviluppo dei popoli. Sicurezza e sviluppo sono i pilastri sui quali si fondano la politica nucleare mondiale e in particolare il Trattato sulla non proliferazione delle armi nucleari (TNP) del 1968 e lo Statuto dell’AIEA del 1957. Sembra quindi corretto affermare che il ruolo dell’AIEA – oggi più che mai – sia quello di garantire un giusto equilibrio tra le legittime esigenze della sicurezza e dello sviluppo dei popoli. Sviluppo, legato anche al diritto degli stati all’uso pacifico dell’energia nucleare, riconosciuto dal TNP come «diritto inalienabile» (articolo IV). Basti pensare alle possibili applicazioni della tecnologia nucleare non solo nel settore energetico, ma anche nella medicina e nell’agricoltura.

 
Il ruolo dell’AIEA incide in definitiva sulla convivenza pacifica e la stessa sopravvivenza della famiglia umana, considerata la capacità distruttiva delle armi nucleari. Preliminare al ruolo dell’AIEA è la volontà degli stati di aderire e attuare il TNP e di sottoporsi al sistema di monitoraggio AIEA. Ancora più necessario è la seria opzione della comunità internazionale per la pace, e il superamento di quella che Giovanni XXIII chiama «psicosi bellica» (Pacem in terris, 61). A riprova della necessità di una reale «conversione» della politica mondiale, vorrei citare la spesa militare dichiarata dagli stati nel 2006, pari a 1.204 miliardi di dollari! Spesa in crescente aumento negli ultimi anni e giunta a 184 dollari pro capite considerata la popolazione mondiale. Quindi, se è doveroso eliminare o almeno limitare il più possibile il rischio che soggetti non statali (come le organizzazioni criminali e terroristiche), si dotino di armi nucleari; è altrettanto urgente che gli stessi stati concordino un programma di disarmo generale, che preveda anche la destinazione allo sviluppo delle risorse umane e materiali oggi assegnate alla spesa militare. E’ in questa luce che bisogna interpretare le ambizioni nucleari non solo di Iran e Nord Corea, ma anche di potenze al di fuori del TNP come l’India, delle potenze occidentali e dei membri permanenti del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. «L’equilibrio del terrore» basato sulla cosiddetta «strategia della deterrenza» e sulle armi nucleari non garantisce, ma minaccia la pace della famiglia umana. La corsa agli armamenti limita lo sviluppo dei popoli e alimenta la diffidenza reciproca e l’isolamento degli stati a livello regionale e internazionale. Bisogna ripartire dal «disarmo dei cuori», dalla fiducia tra i popoli e dal rafforzamento delle organizzazioni internazionali. Non solo l’AIEA ma ciascun stato ed essere umano sono decisivi nella realizzazione della pace.

D. - «Le risorse in tal modo risparmiate possano essere impiegate in progetti di sviluppo a vantaggio di tutti gli abitanti e, in primo luogo, dei più poveri» (BENEDETTO XVI, Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace del 2006: «Nella verità, la pace»): quanto di realistico c’è in questo messaggio?

 
R. - Il messaggio è particolarmente realistico e coerente a quanto appena detto sulla relazione tra disarmo e sviluppo. Vorrei sottolineare due punti. Anzitutto, Benedetto XVI sembra richiamare il magistrale insegnamento di Paolo VI, secondo cui «Lo sviluppo è il nuovo nome della pace» (Populorum progressio, 76). Come accennato vi è uno stretto legame tra disarmo e sviluppo, quindi tra sviluppo e pace. Fra le condizioni necessarie per lo sviluppo e la pace dei popoli vi è certamente il disarmo. Una delle vie del disarmo è la destinazione a programmi pacifici delle risorse oggi assegnate ai programmi militari. La stessa Carta della Nazioni Unite, all’articolo 26, impegna gli stati a garantire la sicurezza e la pace con la minore spesa militare possibile. Nel settore nucleare – con la dovuta prudenza – non è da escludere la possibilità che dalle armi possa essere ricavato materiale nucleare destinabile a programmi energetici, soprattutto a favore dei paesi in via di sviluppo. Secondo una stima della World Of Mass Destruction Commission del 2006 l’arsenale mondiale ufficiale sarebbe composto da 27.000 testate nucleari (12.000 delle quali sempre schierate). Una possibile fonte di materiale per programmi nucleari pacifici. In secondo luogo, le parole di Benedetto XVI, sollecitando una conversione degli stessi strumenti di guerra in strumenti di pace e sviluppo, hanno un profondo significato escatologico e sembrano fare eco al profeta Isaia, secondo il quale alla fine dei giorni gli uomini «Forgeranno le loro spade in vomeri, le loro lance in falci; un popolo non alzerà più la spada contro un altro popolo, non si eserciteranno più nell’arte della guerra» (Is 2,4).

 
D. - La Santa Sede è da sempre contraria alla proliferazione nucleare. Quale importanza ha, in questo contesto, il suo essere membro fondatore dell’AEIA?

 
R. - La Santa Sede è a favore della pace e della sicurezza della famiglia umana. Per questo essa si adopera a livello internazionale per un «disarmo generale, equilibrato e controllato» (Compendio della dottrina sociale della Chiesa, 508), non solo nel settore nucleare ma anche in quelli chimico e biologico e delle armi convenzionali. In tale contesto, si comprende l’importanza del lavoro della Santa Sede come membro fondatore dell’AIEA. Infatti, questa posizione consente alla Santa Sede di seguire da vicino e di promuovere per il bene comune sia il processo di disarmo e la non proliferazione nucleare, sia la ricerca e le possibili applicazioni pacifiche della tecnologia nucleare. In definitiva, essere membro fondatore dell’AIEA, per la Santa Sede significa lavorare per la pace e lo sviluppo della famiglia umana. Per fare un poco di storia, vorrei ricordare che coloro che fondarono questa Agenzia tennero molto a che la Santa Sede ne facesse parte dall’inizio, convinti com’erano che l’appartenenza della Santa Sede sarebbe stata una garanzia autorevole degli intenti pacifici della medesima agenzia.

 
D. - Il Santo Padre ha auspicato l’uso pacifico nella tecnologia nucleare anche nel settore energetico. Oggi si discute molto sulla sostenibilità della tecnologia nucleare per l’uomo e l’ambiente. Eminenza, può dirci un’ultima parola in merito?

 
R. - L’apprensione per la sicurezza e la salute dell’uomo e del pianeta è più che legittima alla luce dei più o meno recenti disastri nucleari (penso al disastro di Chernobyl; o alle perdite radioattive causate proprio in questi giorni da un terremoto in Giappone, nella centrale di Khasiwazaki–Kariva). Anche in questo caso è tuttavia necessario impostare correttamente il discorso e fissare con ragionevolezza i punti fondamentali di una ipotetica politica nucleare. Considerata la complessità del tema, mi limito a delle constatazioni personali e generali, pur consapevole delle loro implicazioni alla luce del mio servizio alla Santa Sede. Poste le esigenze della massima sicurezza per l’uomo e per l’ambiente, e sancito il divieto dell’uso ostile della tecnologia nucleare, perché precludere l’applicazione pacifica della tecnologia nucleare? In campo medico sono noti i possibili benefici derivanti dalla radiologia nucleare; nel settore agricolo studi AIEA tendono a dimostrare come la tecnologia nucleare possa favorire l’agricoltura. Il settore che preoccupa di più sembra essere quello energetico. Tuttavia, assicurata la sicurezza degli impianti e dei depositi; regolati in maniera severa la produzione, la distribuzione e il commercio di energia nucleare, mi sembra vi siano i presupposti per una politica energetica «integrata», che contempli quindi, accanto a forme di energia pulita, anche l’energia nucleare. Inoltre, aprire un dibattito sereno e pubblico sull’energia nucleare sembra quanto mai utile in questo momento storico nel quale gli stati prendono sul serio questa fonte di energia. Escludere l’energia nucleare per una petizione di principio, oppure per la paura dei disastri, potrebbe essere un errore e in alcuni casi conduce ad effetti paradossali. Si pensi all’Italia che nel 1987 ha abbandonato la produzione di energia nucleare; ma che oggi importa la stessa energia nucleare dalla Francia ed esporta centrali nucleari all’estero mediante società a capitale pubblico. In definitiva, è necessario e doveroso valutare con la massima prudenza la possibilità di un uso pacifico della tecnologia nucleare. Questo, tuttavia, nella consapevolezza che le opere dell’ingegno umano, quindi anche le conquiste nel campo nucleare, vanno poste al servizio della famiglia umana. La tecnologia può essere un male per il cattivo uso che se ne può fare, e non un male «in quanto tale».







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