E’ morto il grande regista svedese Ingmar Bergman. Aveva 89 anni
All’età di ottantanove anni si è spento questa mattina sull’amata isola di Faaro,
nel Mar Baltico, dove si era ritirato, il regista svedese Ingmar Bergman: nato a Uppsala
nel 1918, è considerato giustamente uno dei più importanti registi della storia del
cinema, capace sempre di toccare i temi fondamentali della vita e della società. Il
servizio di Luca Pellegrini:
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"Chi sei tu?" - "Sono la morte". - "Sei venuto a prendermi?"
- "E' già da molto che ti cammino a fianco". - "Me ne ero accorto".
- "Sei pronto?" - "Il mio spirito lo è, non il mio corpo".
E’
terminata in silenzio, in nobile discrezione, e chissà con quale vincitore, la partita
a scacchi più lunga e famosa della storia del cinema. Ingmar Bergman, uomo della metafora,
artista dell’animo, creatore di immagini: sua quella della morte che nel Settimo sigillo,
capolavoro del 1956, fronteggia il dubbioso cavaliere Antonius Block, giocandosi la
sua anima e con la sua quella di un popolo e di una intera storia. Crepuscolare, seducente,
lirico e implacabile, imbevuto, perché educato, dei concetti di peccato e colpa, perdono
e grazia: religioso in modo personale, schivo, sfuggente alle luci effimere che animano
sovente il mondo del cinema – anche se vincitore dei massimi premi internazionali
– perché illuminato da quelle algide della sua terra e della sua esistenza, Bergman
è entrato a pieno titolo nella storia delle arti, regista dell’umano e del divino,
il volto del primo squarciato spesso dal dolore e dalla violenza che cova nel suo
cuore, il volto del secondo absconditus, sempre nascosto, giudicante e onnipotente.
Troppi i titoli, oltre sessanta, che una sapiente
critica e storiografia dovrebbero qui ricordare. Ma esemplare, per sintesi e coerenza,
il contrapporsi di due coppie pudicamente emergenti dalle sue personali esperienze
di vita e da una autobiografia sempre instillata nei suoi lavori, siano essi per lo
schermo, per la televisione e il teatro. Da un lato ecco la giovinezza e la formazione,
prima spensierate e poi crudeli, di Fanny e Alexander, che trovano rifugio nel mondo
parallelo della “lanterna magica”, fantasia e spiriti in lotta con la realtà e gli
uomini per assicurare un briciolo di felicità nell’inesorabile procedere della vita
e delle generazioni; dall’altro, anche se di nove anni precedente e ancora sotto l’effetto
dei moti libertari del ‘68, quasi uno specchio in cui l’infanzia riflette la propria
maturità, appare la coppia “esemplare” formata da Johan e Marianne, protagonista delle
Scene da un matrimonio, indagine, se vogliamo, anche spietata sulle convenzioni sociali
e, in un film estremamente dialogato e parlato, denuncia accorata dell’incomunicabilità
umana. La complessità del lavoro non ostacola, anche questa volta, la sintesi spirituale
che ha sempre contraddistinto il cinema di Bergman, in cui la società, “come in uno
specchio”, riflette il più delle volte le sue inadeguatezze e le sue illusorie e fallaci
speranze.