2007-07-07 11:59:48

Nel segno della riconciliazione, pubblicato il Motu proprio di Benedetto XVI "Summorum Pontificum" sull'uso del Messale Romano del 1962


“Riconciliazione”: è questa la parola chiave, “la ragione positiva” del Motu proprio Summorum Pontificum di Benedetto XVI sull’uso del Messale Romano del 1962, pubblicato oggi. A sottolinearlo è il Papa stesso nella Lettera indirizzata ai presuli di tutto il mondo, che accompagna il documento. Lo sguardo al passato, “alle divisioni” che “hanno lacerato il Corpo di Cristo”, scrive il Pontefice, mi hanno spinto a “fare tutti gli sforzi, affinché a tutti quelli che hanno veramente il desiderio dell’unità, sia reso possibile di restare in quest’unità o di ritrovarla nuovamente”. Sui punti salienti del Motu proprio, che entrerà in vigore il 14 settembre di quest’anno, festa dell’Esaltazione della Santa Croce, il servizio di Alessandro Gisotti:RealAudioMP3


Sin dall’art. 1, il Motu proprio stabilisce che il Messale Romano, promulgato da Paolo VI nel 1970 è l’espressione ordinaria della lex orandi della Chiesa cattolica di rito latino. Il Messale promulgato da San Pio V e nuovamente edito dal Beato Giovanni XXIII deve essere, perciò, considerato come forma straordinaria. Non si crea, dunque, in alcun modo una divisione nella “legge della fede”, giacché si tratta di “due usi dell’unico rito romano”. E’ lecito, quindi, celebrare la Messa secondo l’edizione tipica del Messale Romano del 1962. A tal fine, il Motu proprio di Benedetto XVI indica nuove regole, che sostituiscono quelle stabilite dai documenti anteriori “Quattuor abhinc annos” ed “Ecclesia Dei”. Viene stabilito che nelle Messe celebrate, senza popolo, ogni sacerdote cattolico di rito latino, possa, senza bisogno di alcun permesso, usare il Messale del 1962 o quello promulgato da Paolo VI. E ciò in qualsiasi giorno, “eccettuato il Triduo Sacro”. Ancora, si dispone che le comunità degli Istituti di Vita Consacrata e delle Società di Vita Apostolica possano celebrare la Santa Messa, nei propri oratori, secondo l’edizione del Messale del 1962. A tali celebrazioni sono ammessi anche i fedeli che lo desiderino.

 
L’art. 5 si sofferma sulla realtà delle parrocchie, disponendo che laddove esista “stabilmente un gruppo di fedeli aderenti alla precedente tradizione liturgica, il parroco accolga volentieri le loro richieste per la celebrazione della Santa Messa”, secondo il rito del Messale del 1962. Il parroco dovrà provvedere, affinché “il bene di questi fedeli si armonizzi con la cura pastorale ordinaria della parrocchia, sotto la guida del vescovo”, “evitando la discordia e favorendo l’unità di tutta la Chiesa”. Tale celebrazione “può aver luogo nei giorni feriali, nelle domeniche e nelle festività”. Può essere permessa inoltre, in circostanze particolari, come matrimoni, esequie e pellegrinaggi. I sacerdoti che usano il Messale di Giovanni XXIII “devono essere idonei e non giuridicamente impediti”. Nelle Messe celebrate con il popolo, secondo il Messale del 1962, le letture potranno essere proclamate anche nella lingua vernacola. Se un gruppo di fedeli laici “non abbia ottenuto soddisfazione alle sue richieste da parte del parroco”, l’art. 7 stabilisce che di ciò venga informato il vescovo diocesano, che “è vivamente pregato di esaudire il loro desiderio”. Qualora non potesse, la questione va riferita alla Commissione Pontificia Ecclesia Dei eretta da Giovanni Paolo II nel 1988. Lo stesso il vescovo dovrà fare laddove fosse ostacolato nel rispondere alle richieste dei fedeli laici. All’art. 9, si dispone che il parroco possa concedere la licenza di usare il rituale più antico nell’amministrazione dei Sacramenti del Battesimo, Matrimonio, Penitenza e Unzione degli Infermi. Agli Ordinari viene anche concessa la facoltà di celebrare il Sacramento della Confermazione e, qualora sia ritenuto opportuno, di erigere una parrocchia personale o nominare un cappellano, per le celebrazioni secondo la forma più antica del rito romano. Negli ultimi articoli del documento, si conferma che la Pontificia Commissione Ecclesia Dei continua ad esercitare il suo compito. Oltre alle facoltà di cui già gode, tale Commissione eserciterà l’autorità della Santa Sede, vigilando sull’osservanza e applicazione delle disposizioni del Motu proprio.

Come sottolineato, il documento è accompagnato da una Lettera, indirizzata ai vescovi di tutto il mondo. Il Papa spiega le motivazioni di questo Motu proprio, che risponde a “insistenti preghiere” di non pochi fedeli, a lungo soppesate già da Giovanni Paolo II e oggetto di approfondimento nel Concistoro, tenutosi il 22 marzo 2006. Il Pontefice non manca di costatare che “notizie e giudizi fatti senza sufficiente informazione hanno creato non poca confusione”, suscitando “reazioni molto divergenti” per “un progetto il cui contenuto in realtà non era conosciuto”. Quindi, affronta quei timori che si opponevano più direttamente a questo documento, come ci riferisce, ancora, Alessandro Gisotti:RealAudioMP3


Benedetto XVI si sofferma sul timore che venga “intaccata l’Autorità del Concilio Vaticano II”, mettendo in dubbio “una delle sue decisioni essenziali”, la riforma liturgica. “Tale timore - avverte - è infondato”. Il Pontefice ribadisce che il Messale pubblicato da Paolo VI “è e rimane la Forma normale, Forma ordinaria, della Liturgia Eucaristica”. L’ultima stesura del Missale Romanum, anteriore al Concilio, e pubblicata da Giovanni XXIII nel 1962, “potrà invece essere usata come Forma extraordinaria della Celebrazione liturgica”. Per questo, è il richiamo del Papa, “non è appropriato parlare di queste due stesure del Messale Romano come se fossero "due Riti”, ma piuttosto di un duplice uso “dell’unico e medesimo Rito”. D’altro canto, Benedetto XVI attira l’attenzione “sul fatto che questo Messale non è stato mai giuridicamente abrogato e, di conseguenza, in principio, restò sempre permesso”. Introdotto il nuovo Messale, ha ricordato, non furono emanate norme per “l’uso possibile” del Messale anteriore, supponendo che si sarebbe trattato di pochi casi facilmente risolvibili. In realtà, però, si legge nella Lettera, “non pochi rimanevano fortemente legati a questo uso del Rito romano”.

 
Il Papa si sofferma così sul movimento guidato dall’arcivescovo Lefebvre, la cui “fedeltà al Messale antico divenne un contrassegno esterno”. Le ragioni di questa spaccatura, spiega il Papa, si trovavano “più in profondità”, giacché molte persone che accettavano il Concilio Vaticano II ed erano fedeli al Papa e ai vescovi, “desideravano tuttavia anche ritrovare la forma, a loro cara, della sacra Liturgia”. E ciò anche perché “in molti luoghi non si celebrava in modo fedele alle prescrizioni del nuovo Messale”. Anzi, sottolinea il Pontefice, il nuovo Messale veniva perfino “inteso come un’autorizzazione o perfino come un obbligo alla creatività, la quale ha portato spesso a deformazioni della Liturgia, al limite del sopportabile”. Papa Benedetto confida ai confratelli nell’episcopato la sua esperienza personale. “Ho visto - scrive - quanto siano state ferite, dalle deformazioni arbitrarie della Liturgia, persone che erano totalmente radicate nella fede della Chiesa”. Ed è per questo, rammenta, che Giovanni Paolo II fu obbligato a dare con il Motu proprio Ecclesia Dei del 1988, un quadro normativo per l’uso del Messale del 1962. Tale documento, però “non contiene prescrizioni dettagliate”, ma si appellava alla generosità dei presuli verso “le giuste aspirazioni” di quei fedeli che richiedevano l’uso del Rito romano. Era quel documento teso anche ad aiutare la Fraternità San Pio X “a ritrovare la piena unità con il Successore di Pietro, cercando di guarire una ferita sentita sempre più dolorosamente”. Riconciliazione “finora non riuscita”, è il rammarico di Benedetto XVI. D’altra parte, l’uso del Messale del 1962 è rimasto difficile, anzitutto perché i vescovi, in mancanza di precise norme giuridiche, “temevano che l’autorità del Concilio fosse messa in dubbio”. Tuttavia, anche per il crescente numero di giovani attirati da questa forma liturgica, “è sorto il bisogno di un regolamento giuridico più chiaro” non prevedibile vent’anni fa. Evidenzia, inoltre, che queste norme “tendono anche a liberare i vescovi dal dover sempre di nuovo valutare come rispondere alle diverse situazioni”.

 
Il Papa rivolge poi il pensiero alla seconda preoccupazione emersa nelle discussioni sul Motu proprio, ovvero che una più ampia possibilità dell’uso del Messale del 1962 potrebbe portare a “disordini o addirittura a spaccature nelle comunità parrocchiali”. “Anche questo timore - afferma il Papa - non mi sembra realmente fondato”, soprattutto perché l’uso del Messale antico “presuppone una certa misura di formazione liturgica e un accesso alla lingua latina”. Condizioni, che “non si trovano tanto di frequente”. Per questo, si ribadisce nel documento, il nuovo Messale “rimarrà, certamente, la Forma ordinaria del Rito romano”. Certo, viene riconosciuto che “non mancano esagerazioni” di fedeli “legati all’antica tradizione liturgica latina”. Del resto, è l’invito del Papa, le due Forme dell’uso del Rito Romano “possono arricchirsi a vicenda” inserendo “nuovi santi e alcuni dei nuovi prefazi” nel Messale antico. Allo stesso modo, nel Messale di Paolo VI, si potrà manifestare ancor più quella “sacralità che attrae molti all’antico uso”. Ed esorta a rendere “visibile la ricchezza spirituale e la profondità teologica di questo Messale”.

 
Benedetto XVI ribadisce dunque che “non c’è nessuna contraddizione tra l’una e l’altra edizione del Missale Romanum”. E rammenta che nella “storia della Liturgia c’è crescita e progresso, ma nessuna rottura”, sottolineando che ciò che per le generazioni anteriori era sacro “non può improvvisamente essere del tutto proibito o addirittura dannoso”. A loro volta, anche i sacerdoti delle comunità aderenti all’uso antico non possono, “in linea di principio, escludere la celebrazione secondo i libri nuovi”. Nell’ultima parte della Lettera, il Papa rassicura i vescovi. “Queste nuove norme - scrive - non diminuiscono in nessun modo la vostra autorità e responsabilità”, essendo il vescovo “moderatore della liturgia nella propria diocesi”. Il Papa invita, inoltre, i vescovi a scrivere un resoconto sulle loro esperienze, tre anni dopo l’entrata in vigore del Motu proprio. E ciò in modo che, qualora fossero venute alla luce delle serie difficoltà, “potranno essere cercate vie per trovare rimedio”.







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