L'impegno dei missionari del PIME al fianco dei disabili in Camerun
Dei 650 milioni di disabili nel mondo, l’82 per cento vive nei Paesi in via di sviluppo.
La quasi totalità non gode di appropriati servizi di base e riabilitativi, non ha
un impiego e, tra i minori, pochi hanno la possibilità di ricevere un’educazione scolastica.
Varie le risposte in questo ambito dei missionari del Pontificio Istituto Missioni
Estere. Fra di esse c’è quella di padre Danilo Fenaroli che dal 1990 vive a
pochi chilometri da Maroua, città dell’estremo nord del Camerun, dove 10 anni fa ha
fondato il "Centro Betlemme" che assiste 160 bambini con difficoltà mentali e motorie.
Antonella Villani gli ha chiesto che cosa vuol dire essere diversamente abili
in questa nazione africana:
R. -
Qui, chi ha un handicap fisico riesce a conquistarsi il suo spazio. E’ abbastanza
autonomo ed alcuni riescono anche a lavorare, vendono anche piccole cose. Per quanto
riguarda invece l’handicap mentale, purtroppo non vengono considerati come persone,
vengono incatenati e relegati ai margini del villaggio.
D.
- Ricorda il suo primo impatto con questa realtà?
R.
- E’ stato quello che ha cambiato un po’ la mia vita di missionario. Prima visitavo
i villaggi, facevo una certa attività pastorale e quindi mi occupavo della catechesi,
della celebrazione eucaristica ed anche di un certo tipo di sviluppo. Mi è poi capitato
di trovarmi in un villaggio e di sentire un bambino che piangeva: ho insistito per
vedere chi fosse e alla fine mi hanno portato verso la fine del villaggio, in una
capanna di paglia, piena di buchi, dove entrava anche l’acqua. Ho visto una donna
incatenata, con il suo bambino piccolino. Di fronte a questa situazione, ho chiesto
il perché e mi hanno detto che era violenta, che avevano paura che fosse posseduta
dal demonio. Ho parlato poi al capo del villaggio, il quale mi ha detto che se volevo
portarla via, lo potevo fare, perché loro non la volevano tenere al villaggio libera.
Ho allora tagliato le catene e me la sono portata in missione. Questo l'ho fatto per
altre decine e decine di persone che erano incatenate.
D.
- Di qui la sua decisione di aprire un centro...
R.
- Nella mia idea non c'era quella di creare un centro solo per handicappati mentali,
perché allora saremmo stati veramente un ghetto. Abbiamo ospitato un po’ di tutto:
orfani, handicappati mentali e fisici, e insieme laboratori di sviluppo, asilo, scuole,
in modo che la gente venisse.
D. - Qui che tipo
di assistenza offrite?
R. - Un’accoglienza calorosa.
Queste persone si sentono a casa. Certo, quando hanno le crisi fanno un po’ paura,
ma riusciamo a gestirli. Facciamo quello possiamo, offrendo quello che c’è. Abbiamo
dei fisioterapisti che ci aiutano e a volte vengono anche dei dottori dall’Italia.
Vengono ortopedici per fare delle operazioni, vengono anche degli psichiatri. Cerchiamo
di offrire tutto quello che può essere utile loro. Cerchiamo anche di fare qualcosa
per gli autistici: si dice faccia molto bene la ippoterapia e così abbiamo anche cinque
cavalli. Penso però che la cosa migliore sia proprio questa accoglienza calorosa,
che li cambia immediatamente.
D. - A che tipo di
integrazione possono arrivare, soprattutto i disabili mentali?
R.
- Essere integrati nel villaggio è difficile. Noi operiamo anche nei villaggi e quando
incontriamo queste persone, nonostante spieghiamo al capo del villaggio e alla famiglia
stessa come può essere gestito un bambino, spesso è una certa mentalità che vince.
Vince purtroppo la mentalità della paura, vince quella mentalità che dice che porti
sfortuna al villaggio. L’integrazione, dunque, cominciamo a viverla soltanto all’interno
del Centro. Abbiamo dei bambini orfani che portano in giro anche i bambini con difficoltà,
che li aiutano, che li fanno giocare. Mi ricordo che quando stavamo costruendo il
Centro - perché certo non è nato tutto di colpo, ma ovviamente un po’ alla volta -
c’erano anche i muratori che dicevano: “Ma perchè tutte queste belle costruzioni per
questi handicappati che in fondo non valgono niente?”. Ma anche loro, piano piano,
vedendoli spesso, alla fine del lavoro li chiamavano, gli davano le caramelle. Qualcosa
si smuove, ma piano piano.
D. - A questo punto,
qual è il suo sogno?
R. - Che questo centro aiuti
soprattutto i villaggi a gestire le loro emarginazioni, che ci siano centri soltanto
a sostegno, magari di alcune attività tecniche, e che il villaggio almeno non li rifiuti.
E’ da circa quattro anni che, fortunatamente, di catene se ne vedono meno. E questo
anche perché hanno un punto di riferimento, che siamo noi e ci chiedono spesso come
affrontare un problema. Questo permette già un sguardo diverso, anche perché noi siamo
lì.