La Chiesa in Iraq respinge il progetto della Piana di Ninive, in cui si vorrebbero
concentrare i cristiani del Paese. Mons. Sako: "La Chiesa non è un ghetto"
In Iraq, sono sempre più drammatiche le condizioni di vita cui è costretta la comunità
cristiana, ridottasi da oltre mezzo milione di persone, nel 2003, a poco più di ventimila.
Ora un discusso progetto politico prevede la creazione di un’area autonoma nella Piana
di Ninive, dove concentrare quel che rimane dei cristiani iracheni. Un tentativo di
isolamento della Chiesa irachena denunciato con forza da mons. Louis Sako, arcivescovo
di Kirkuk, e respinto anche dal segretario di Stato Vaticano, card. Tarcisio Bertone,
come volontà di ghettizzazione. Proprio sui problemi dei cristiani in Iraq, ascoltiamo
Don Fabio Corazzina, coordinatore Pax Christi Italia. L’intervista è di Stefano
Leszczynski:
R.
- E’ il problema quotidiano che vive la gente, la popolazione dell’Iraq: le violenze
di ogni giorno, l’impossibilità di una normalità di vita, i rapimenti a scopo di estorsione,
i ricatti, le uccisioni, le imposizioni di tipo religioso fondamentalista rendono
la vita per i cristiani assolutamente impossibile.
D.
- Da un po’ di tempo, si è cominciato a parlare di vera e propria persecuzione dei
cristiani in Iraq. Tra l’altro, c’è anche un discusso progetto politico per concentrare
quello che rimane della comunità cristiana irachena in una determinata zona del Paese.
Di cosa si tratta?
R. - Il problema non è solo quello
della persecuzione dei cristiani: è il popolo iracheno che è perseguitato e subisce
costantemente le violenze. I cristiani naturalmente vivono la vita e condividono il
quotidiano di questo popolo. C’è poi questa teoria, questa ipotesi del cosiddetto
progetto della Piana di Ninive: nella Piana di Ninive sono presenti una serie di villaggi
cristiani e la maggior parte dei villaggi cristiani dell’Iraq si trovano all’interno
di questa Piana, circa una ventina. E’ un centro culturale, commerciale, ecclesiastico,
circondato da villaggi arabi e vi abitano circa 120 mila cristiani. L’idea è quella
di concentrare lì la presenza dei cristiani in Iraq, facendo una sorte di enclave,
un gruppo, un realtà, un territorio in cui probabilmente - secondo alcuni cristiani
e non soltanto secondo alcuni cristiani - ci si sentirebbe più protetti.
D.
- Tuttavia, questo progetto snaturerebbe completamente quella che è la storia dei
cristiani iracheni e del cristianesimo in Iraq...
R.
- Evidentemente, questa sarebbe la tragedia più grande, perché se per essere sicuri
ci immaginiamo di dover fare una divisione etnica del territorio, allora questo tipo
di tragedia non l'abbiamo vissuta soltanto nei Balcani, ma la stiamo vivendo anche
in Medio Oriente, in Palestina e in Israele e a questo punto viene anche riprodotta
e riproposta anche nel territorio dell’Iraq. Gli amici, soprattutto mons. Louis Sako,
che abbiamo sentito direttamente e che ho sentito anche questa mattina, diceva in
termini molto chiari: “La nostra Chiesa in Iraq non è mai stata nazionalista e chiusa
in senso etnico”. Ecco perché noi non possiamo chiuderci in un ghetto e questo significa
chiaramente dover lavorare per la riconciliazione del popolo iracheno, collaborando
con tutte le autorità religiose, con i partiti. Dialogo, riconciliazione, spinta verso
la cultura della pace: questa è la missione dei cristiani e non certo quella di rinchiudersi
per sentirsi più sicuri.