Apriamo il nostro cuore all’amore di Gesù, che trasforma le tenebre in luce: l’esortazione
del Papa nella Messa Crismale in Basilica Vaticana
Stamane il Papa ha presieduto la Santa Messa del Crisma nella Basilica Vaticana,
preludio del Triduo Pasquale che inizia con la Messa nella Cena del Signore che Benedetto
XVI celebrerà oggi alle 17.30 nella Basilica di San Giovanni in Laterano. Ecco il
testo completo dell'omelia del Papa nella Messa Crismale:
Cari fratelli
e sorelle,
lo scrittore russo Leone Tolstoi narra in un piccolo racconto di
un sovrano severo che chiese ai suoi sacerdoti e sapienti di mostrargli Dio affinché
egli potesse vederlo. I sapienti non furono in grado di appagare questo suo desiderio.
Allora un pastore, che stava giusto tornando dai campi, si offrì di assumere il compito
dei sacerdoti e dei sapienti. Il re apprese da lui che i suoi occhi non erano sufficienti
per vedere Dio. Allora, però, egli volle almeno sapere che cosa Dio faceva. “Per poter
rispondere a questa tua domanda – disse il pastore al sovrano – dobbiamo scambiare
i vestiti”. Con esitazione, spinto tuttavia dalla curiosità per l’informazione attesa,
il sovrano acconsentì; consegnò i suoi vestiti regali al pastore e si fece rivestire
del semplice abito dell’uomo povero. Ed ecco allora arrivare la risposta: “Questo
è ciò che Dio fa”. Di fatto, il Figlio di Dio – Dio vero da Dio vero – ha lasciato
il suo splendore divino: “…spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo
simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso … fino alla morte di
croce” (cfr Fil 2,6ss). Dio ha – come dicono i Padri – compiuto il sacrum commercium,
il sacro scambio: ha assunto ciò che era nostro, affinché noi potessimo ricevere ciò
che era suo, divenire simili a Dio.
San Paolo, per quanto accade nel Battesimo,
usa esplicitamente l’immagine del vestito: “Quanti siete stati battezzati in Cristo,
vi siete rivestiti di Cristo” (Gal 3,27). Ecco ciò che si compie nel Battesimo: noi
ci rivestiamo di Cristo, Egli ci dona i suoi vestiti e questi non sono una cosa esterna.
Significa che entriamo in una comunione esistenziale con Lui, che il suo e il nostro
essere confluiscono, si compenetrano a vicenda. “Non sono più io che vivo, ma Cristo
vive in me” – così Paolo stesso nella Lettera ai Galati (2,2) descrive l’avvenimento
del suo battesimo. Cristo ha indossato i nostri vestiti: il dolore e la gioia dell’essere
uomo, la fame, la sete, la stanchezza, le speranze e le delusioni, la paura della
morte, tutte le nostre angustie fino alla morte. E ha dato a noi i suoi “vestiti”.
Ciò che nella Lettera ai Galati espone come semplice “fatto” del battesimo – il dono
del nuovo essere – Paolo ce lo presenta nella Lettera agli Efesini come un compito
permanente: “Dovete deporre l’uomo vecchio con la condotta di prima! … [Dovete] rivestire
l’uomo nuovo, creato secondo Dio nella giustizia e nella santità vera. Perciò, bando
alla menzogna: dite ciascuno la verità al proprio prossimo; perché siamo membri gli
uni degli altri. Nell’ira, non peccate…” (Ef 4,22-26).
Questa teologia del
Battesimo ritorna in modo nuovo e con una nuova insistenza nell’Ordinazione sacerdotale.
Come nel Battesimo viene donato uno “scambio dei vestiti”, uno scambio del destino,
una nuova comunione esistenziale con Cristo, così anche nel sacerdozio si ha uno scambio:
nell’amministrazione dei Sacramenti, il sacerdote agisce e parla ora “in persona Christi”.
Nei sacri misteri egli non rappresenta se stesso e non parla esprimendo se stesso,
ma parla per l’Altro – per Cristo. Così nei Sacramenti si rende visibile in modo drammatico
ciò che l’essere sacerdote significa in generale; ciò che abbiamo espresso con il
nostro “Adsum – sono pronto” durante la consacrazione sacerdotale: io sono qui perché
tu possa disporre di me. Ci mettiamo a disposizione di Colui “che è morto per tutti,
perché quelli che vivono non vivano più per se stessi…” (2Cor 5,15). Metterci a disposizione
di Cristo significa che ci lasciamo attirare dentro il suo “per tutti”: essendo con
Lui possiamo esserci davvero “per tutti”.
In persona Christi – nel momento
dell’Ordinazione sacerdotale, la Chiesa ci ha reso visibile ed afferrabile questa
realtà dei “vestiti nuovi” anche esternamente mediante l’essere stati rivestiti con
i paramenti liturgici. In questo gesto esterno essa vuole renderci evidente l’evento
interiore e il compito che da esso ci viene: rivestire Cristo; donarsi a Lui come
Egli si è donato a noi. Questo evento, il “rivestirsi di Cristo”, viene rappresentato
sempre di nuovo in ogni Santa Messa mediante il rivestirci dei paramenti liturgici.
Indossarli deve essere più di un fatto esterno: è l’entrare sempre di nuovo nel “sì”
del nostro incarico – in quel “non più io” del battesimo che l’Ordinazione sacerdotale
ci dona in modo nuovo e al contempo ci chiede. Il fatto che stiamo all’altare, vestiti
con i paramenti liturgici, deve rendere chiaramente visibile ai presenti che stiamo
lì “in persona di un Altro”. Gli indumenti sacerdotali, così come nel corso del tempo
si sono sviluppati, sono una profonda espressione simbolica di ciò che il sacerdozio
significa. Vorrei pertanto, cari confratelli, spiegare in questo Giovedì Santo l'essenza
del ministero sacerdotale interpretando i paramenti liturgici che, appunto, da parte
loro vogliono illustrare che cosa significhi “rivestirsi di Cristo”, parlare ed agire
in persona Christi.
L’indossare le vesti sacerdotali era una volta accompagnato
da preghiere che ci aiutano a capire meglio i singoli elementi del ministero sacerdotale.
Cominciamo con l’amitto. In passato – e negli ordini monastici ancora oggi – esso
veniva posto prima sulla testa, come una specie di cappuccio, diventando così un simbolo
della disciplina dei sensi e del pensiero necessaria per una giusta celebrazione della
Santa Messa. I pensieri non devono vagare qua e là dietro le preoccupazioni e le attese
del mio quotidiano; i sensi non devono essere attirati da ciò che lì, all’interno
della chiesa, casualmente vorrebbe sequestrare gli occhi e gli orecchi. Il mio cuore
deve docilmente aprirsi alla parola di Dio ed essere raccolto nella preghiera della
Chiesa, affinché il mio pensiero riceva il suo orientamento dalle parole dell’annuncio
e della preghiera. E lo sguardo del mio cuore deve essere rivolto verso il Signore
che è in mezzo a noi: ecco cosa significa ars celebrandi – il giusto modo del celebrare.
Se io sono col Signore, allora con il mio ascoltare, parlare ed agire attiro anche
la gente dentro la comunione con Lui.
I testi della preghiera che interpretano
il camice e la stola vanno ambedue nella stessa direzione. Evocano il vestito festivo
che il padre donò al figlio prodigo tornato a casa cencioso e sporco. Quando ci accostiamo
alla liturgia per agire nella persona di Cristo ci accorgiamo tutti quanto siamo lontani
da Lui; quanta sporcizia esiste nella nostra vita. Egli solo può donarci il vestito
festivo, renderci degni di presiedere alla sua mensa, di stare al suo servizio. Così
le preghiere ricordano anche la parola dell’Apocalisse secondo cui i vestiti dei 144.000
eletti non per merito loro erano degni di Dio. L’Apocalisse commenta che essi avevano
lavato le loro vesti nel sangue dell’Agnello e che in questo modo esse erano diventate
candide come la luce (cfr Ap 7,14). Già da piccolo mi sono chiesto: Ma quando si lava
una cosa nel sangue, non diventa certo bianca! La risposta è: il “sangue dell’Agnello”
è l’amore del Cristo crocifisso. È questo amore che rende candide le nostre vesti
sporche; che rende verace ed illuminato il nostro spirito oscurato; che, nonostante
tutte le nostre tenebre, trasforma noi stessi in “luce nel Signore”. Indossando il
camice dovremmo ricordarci: Egli ha sofferto anche per me. E soltanto perché il suo
amore è più grande di tutti i miei peccati, posso rappresentarlo ed essere testimone
della sua luce.
Ma con il vestito di luce che il Signore ci ha donato nel Battesimo
e, in modo nuovo, nell’Ordinazione sacerdotale, possiamo pensare anche al vestito
nuziale, di cui Egli ci parla nella parabola del banchetto di Dio. Nelle omelie di
san Gregorio Magno ho trovato a questo riguardo una riflessione degna di nota. Gregorio
distingue tra la versione di Luca della parabola e quella di Matteo. Egli è convinto
che la parabola lucana parli del banchetto nuziale escatologico, mentre – secondo
lui – la versione tramandata da Matteo tratterebbe dall’anticipazione di questo banchetto
nuziale nella liturgia e nella vita della Chiesa. In Matteo – e solo in Matteo – infatti
il re viene nella sala affollata per vedere i suoi ospiti. Ed ecco che in questa moltitudine
trova anche un ospite senza abito nuziale, che viene poi buttato fuori nelle tenebre.
Allora Gregorio si domanda: “Ma che specie di abito è quello che gli mancava? Tutti
coloro che sono riuniti nella Chiesa hanno ricevuto l’abito nuovo del battesimo e
della fede; altrimenti non sarebbero nella Chiesa. Che cosa, dunque, manca ancora?
Quale abito nuziale deve ancora essere aggiunto?” Il Papa risponde: “Il vestito dell’amore”.
E purtroppo, tra i suoi ospiti ai quali aveva donato l’abito nuovo, la veste candida
della rinascita, il re trova alcuni che non portano il vestito color porpora del duplice
amore verso Dio e verso il prossimo. “In quale condizione vogliamo accostarci alla
festa del cielo, se non indossiamo l’abito nuziale – cioè l’amore, che solo può renderci
belli?”, domanda il Papa. Una persona senza l’amore è buia dentro. Le tenebre esterne,
di cui parla il Vangelo, sono solo il riflesso della cecità interna del cuore (cfr
Hom. 38, 8-13).
Ora che ci apprestiamo alla celebrazione della Santa Messa,
dovremmo domandarci se portiamo questo abito dell’amore. Chiediamo al Signore di allontanare
ogni ostilità dal nostro intimo, di toglierci ogni senso di autosufficienza e di rivestirci
veramente con la veste dell’amore, affinché siamo persone luminose e non appartenenti
alle tenebre.
Infine ancora una breve parola riguardo alla casula. La preghiera
tradizionale quando si riveste la casula vede rappresentato in essa il giogo del Signore
che a noi come sacerdoti è stato imposto. E ricorda la parola di Gesù che ci invita
a portare il suo giogo e a imparare da Lui, che è “mite e umile di cuore” (Mt 11,29).
Portare il giogo del Signore significa innanzitutto: imparare da Lui. Essere sempre
disposti ad andare a scuola da Lui. Da Lui dobbiamo imparare la mitezza e l’umiltà
– l’umiltà di Dio che si mostra nel suo essere uomo. San Gregorio Nazianzeno una volta
si è chiesto perché Dio abbia voluto farsi uomo. La parte più importante e per me
più toccante della sua risposta è: “Dio voleva rendersi conto di che cosa significa
per noi l’obbedienza e voleva misurare il tutto in base alla propria sofferenza, all’invenzione
del suo amore per noi. In questo modo, Egli può conoscere direttamente su se stesso
ciò che noi sperimentiamo – quanto è richiesto da noi, quanta indulgenza meritiamo
– calcolando in base alla sua sofferenza la nostra debolezza” (Discorso 30; Disc.
teol. IV,6). A volte vorremmo dire a Gesù: Signore, il tuo giogo non è per niente
leggero. È anzi tremendamente pesante in questo mondo. Ma guardando poi a Lui che
ha portato tutto – che su di sé ha provato l’obbedienza, la debolezza, il dolore,
tutto il buio, allora questi nostri lamenti si spengono. Il suo giogo è quello di
amare con Lui. E più amiamo Lui, e con Lui diventiamo persone che amano, più leggero
diventa per noi il suo giogo apparentemente pesante.
Preghiamolo di aiutarci
a diventare insieme con Lui persone che amano, per sperimentare così sempre di più
quanto è bello portare il suo giogo. Amen.