Padre Cantalamessa alla seconda predica quaresimale: il Vangelo non predica violenza
né debolezza, ma la mitezza di Cristo che conquista i cuori
Le Beatitudini del Vangelo sono l’“autoritratto” di Gesù. Ed è dunque al comportamento
di Gesù che bisogna rifarsi per capire cosa significhino purezza, mitezza, umiltà
e non alle interpretazioni o a comportamenti, talvolta di cristiani stessi, fatti
in altre epoche e spesso fuorvianti. E’ uno degli assunti del predicatore della Casa
Pontificia, padre Raniero Cantalamessa, contenuti nella sua seconda predica quaresimale
di questa mattina, tenuta davanti a Benedetto XVI e alla Curia Romana. Il servizio
di Alessandro De Carolis.
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I cristiani possono essere
usciti, nel corso della storia, dal solco tracciato da Cristo, ma la fonte - la vita
di Gesù nel Vangelo - è “pura”. Dunque, non possono essere intellettuali antichi e
moderni a spiegare le ragioni profonde del messaggio cristiano, né si possono “prendere
meccanicamente alla lettera” le iperboli con le quali Gesù amava esprimersi. Su questa
base, padre Cantalamessa ha approfondito la Beatitudine che afferma: “Beati i miti
perché erediteranno la terra”: a differenza di Gandhi, per il quale il Discorso della
montagna sarebbe rimasto comunque grande anche se Gesù non fosse esistito, il predicatore
pontificio è stato subito netto nell’affermare che è invece la vita di Cristo a dare
di una “splendida utopia etica” una “realizzazione pratica”, perché è lui il mite,
l’umile, il perseguitato ed è quindi a lui che bisogna guardare per comprenderne appieno
la portata. Nella tradizione cristiana, ha detto padre Cantalamessa, la mitezza viene
sempre spiegata in associazione a due altre caratteristiche: la pazienza e l’umiltà.
I Vangeli sono la dimostrazione di come Gesù sia stato il paziente e l’umile per eccellenza,
fino alla “prova massima” della Passione, durante la quale non reagì con ira o minacce
alle aggressioni:
“Ma Gesú ha fatto ben più che darci
un esempio di mitezza e pazienza eroica; ha fatto della mitezza e della non violenza
il segno della vera grandezza. Questa non consisterà più nell’elevarsi solitari sugli
altri, sulla massa, ma nell’abbassarsi per servire ed elevare gli altri. Sulla croce,
dice Agostino, egli rivela che la vera vittoria non consiste nel fare vittime, ma
nel farsi vittima”.
Nei confronti del Vangelo, “letture”
successive hanno esaltato il carattere remissivo o quello apparentemente coercitorio,
perdendo di vista l’originalità di Cristo. Padre Cantalamessa ha dapprima criticato
il filosofo Nietzsche - e chi oggi sta tendando di “addomesticarlo” e quasi “cristianizzarlo”
- il quale aveva definito il cristianesimo una “morale da schiavi” per via della sua
presunta debolezza nel “porgere l’altra guancia”. Ma, ha ricordato padre Cantalamessa,
è illuminante ciò che afferma forse l’unica voce rimasta ad opporsi a Nietzsche, quella
del filosofo francese René Girard:
“Secondo lui, tutti
questi tentativi fanno torto anzitutto a Nietzsche. Con una perspicacia davvero unica,
per il suo tempo, egli ha colto il vero nocciolo del problema, l’alternativa irriducibile
tra paganesimo e cristianesimo. Il paganesimo esalta il sacrificio del debole a favore
del forte e dell’avanzamento della vita; il cristianesimo esalta il sacrificio del
forte a favore del debole. È difficile non vedere un nesso oggettivo tra la proposta
di Nietzsche e il programma hitleriano di eliminazione di interi gruppi umani per
l’avanzamento della civiltà e la purezza della razza".
Sul
versante opposto, ha proseguito il predicatore francescano, dopo l’11 settembre 2001
è diventato di “straordinaria rilevanza” il rapporto tra religione e violenza. Il
Vangelo, ha ribadito, “non lascia spazio a dubbi. “Non ci sono in esso esortazioni
alla violenza, mescolate a esortazioni contrarie”:
“In
un libro-inchiesta su Gesú che tanta eco ha suscitato ultimamente in Italia si attribuisce
a Gesú la frase: 'E quei miei nemici che non volevano che diventassi loro re, conduceteli
qui e uccideteli davanti a me' (Lc 19, 27) e se ne deduce che 'è a frasi come queste
che si rifanno i sostenitori della guerra santa’. Ora va precisato che Luca non attribuisce
tali parole a Gesú, ma al re della parabola, e si sa che non si possono trasferire
di peso dalla parabola alla realtà tutti i dettagli del racconto parabolico, e in
ogni caso essi vanno trasferiti dal piano materiale a quello spirituale. Il senso
metaforico di quelle parole è che accettare o rifiutare Gesú non è senza conseguenze;
è una questione di vita o di morte, ma vita e morte spirituale, non fisica. La guerra
santa non c’entra proprio”.
In sostanza, è ancora una
volta Gesù che chiarisce il significato vero della mitezza. Cristo afferma: “Imparate
da me che sono mite e umile di cuore”. “La vera mitezza – ha commentato padre Cantalamessa
– si decide lì”. Il cuore umano, spesso teatro di pensieri violenti, di “processi
a porte chiuse” contro chi si ritiene sia nostro avversario, è anche il luogo della
carità. Anche quando, ha concluso il predicatore pontificio, il modello di riferimento
sembra fuori della nostra portata:
“C’è il rischio che
si resti scoraggiati nel costatare l’incapacità di attuarle nella propria vita e la
distanza abissale che c’è tra l’ideale e la pratica. Si deve richiamare alla mente
quello che si diceva all’inizio: le Beatitudini sono l’autoritratto di Gesú. Egli
le ha vissute tutte e in grado sommo; ma – e qui sta la buona notizia – non le ha
vissute solo per sé, ma anche per tutti noi. Nei confronti delle Beatitudini, non
siamo chiamati solo all’imitazione, ma anche all’appropriazione. Nella fede possiamo
attingere dalla mitezza di Cristo, come dalla sua purezza di cuore e da ogni altra
sua virtù (…) La mansuetudine e la mitezza sono come un vestito che Cristo
ci ha meritato e di cui, nella fede, possiamo rivestirci, non per essere dispensati
dalla pratica, ma per animarci ad essa”. **********