2007-03-16 14:17:22

Padre Cantalamessa alla seconda predica quaresimale: il Vangelo non predica violenza né debolezza, ma la mitezza di Cristo che conquista i cuori


Le Beatitudini del Vangelo sono l’“autoritratto” di Gesù. Ed è dunque al comportamento di Gesù che bisogna rifarsi per capire cosa significhino purezza, mitezza, umiltà e non alle interpretazioni o a comportamenti, talvolta di cristiani stessi, fatti in altre epoche e spesso fuorvianti. E’ uno degli assunti del predicatore della Casa Pontificia, padre Raniero Cantalamessa, contenuti nella sua seconda predica quaresimale di questa mattina, tenuta davanti a Benedetto XVI e alla Curia Romana. Il servizio di Alessandro De Carolis.

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I cristiani possono essere usciti, nel corso della storia, dal solco tracciato da Cristo, ma la fonte - la vita di Gesù nel Vangelo - è “pura”. Dunque, non possono essere intellettuali antichi e moderni a spiegare le ragioni profonde del messaggio cristiano, né si possono “prendere meccanicamente alla lettera” le iperboli con le quali Gesù amava esprimersi. Su questa base, padre Cantalamessa ha approfondito la Beatitudine che afferma: “Beati i miti perché erediteranno la terra”: a differenza di Gandhi, per il quale il Discorso della montagna sarebbe rimasto comunque grande anche se Gesù non fosse esistito, il predicatore pontificio è stato subito netto nell’affermare che è invece la vita di Cristo a dare di una “splendida utopia etica” una “realizzazione pratica”, perché è lui il mite, l’umile, il perseguitato ed è quindi a lui che bisogna guardare per comprenderne appieno la portata. Nella tradizione cristiana, ha detto padre Cantalamessa, la mitezza viene sempre spiegata in associazione a due altre caratteristiche: la pazienza e l’umiltà. I Vangeli sono la dimostrazione di come Gesù sia stato il paziente e l’umile per eccellenza, fino alla “prova massima” della Passione, durante la quale non reagì con ira o minacce alle aggressioni:

 
“Ma Gesú ha fatto ben più che darci un esempio di mitezza e pazienza eroica; ha fatto della mitezza e della non violenza il segno della vera grandezza. Questa non consisterà più nell’elevarsi solitari sugli altri, sulla massa, ma nell’abbassarsi per servire ed elevare gli altri. Sulla croce, dice Agostino, egli rivela che la vera vittoria non consiste nel fare vittime, ma nel farsi vittima”.

 
Nei confronti del Vangelo, “letture” successive hanno esaltato il carattere remissivo o quello apparentemente coercitorio, perdendo di vista l’originalità di Cristo. Padre Cantalamessa ha dapprima criticato il filosofo Nietzsche - e chi oggi sta tendando di “addomesticarlo” e quasi “cristianizzarlo” - il quale aveva definito il cristianesimo una “morale da schiavi” per via della sua presunta debolezza nel “porgere l’altra guancia”. Ma, ha ricordato padre Cantalamessa, è illuminante ciò che afferma forse l’unica voce rimasta ad opporsi a Nietzsche, quella del filosofo francese René Girard:

 
“Secondo lui, tutti questi tentativi fanno torto anzitutto a Nietzsche. Con una perspicacia davvero unica, per il suo tempo, egli ha colto il vero nocciolo del problema, l’alternativa irriducibile tra paganesimo e cristianesimo. Il paganesimo esalta il sacrificio del debole a favore del forte e dell’avanzamento della vita; il cristianesimo esalta il sacrificio del forte a favore del debole. È difficile non vedere un nesso oggettivo tra la proposta di Nietzsche e il programma hitleriano di eliminazione di interi gruppi umani per l’avanzamento della civiltà e la purezza della razza".

 
Sul versante opposto, ha proseguito il predicatore francescano, dopo l’11 settembre 2001 è diventato di “straordinaria rilevanza” il rapporto tra religione e violenza. Il Vangelo, ha ribadito, “non lascia spazio a dubbi. “Non ci sono in esso esortazioni alla violenza, mescolate a esortazioni contrarie”:

 
“In un libro-inchiesta su Gesú che tanta eco ha suscitato ultimamente in Italia si attribuisce a Gesú la frase: 'E quei miei nemici che non volevano che diventassi loro re, conduceteli qui e uccideteli davanti a me' (Lc 19, 27) e se ne deduce che 'è a frasi come queste che si rifanno i sostenitori della guerra santa’. Ora va precisato che Luca non attribuisce tali parole a Gesú, ma al re della parabola, e si sa che non si possono trasferire di peso dalla parabola alla realtà tutti i dettagli del racconto parabolico, e in ogni caso essi vanno trasferiti dal piano materiale a quello spirituale. Il senso metaforico di quelle parole è che accettare o rifiutare Gesú non è senza conseguenze; è una questione di vita o di morte, ma vita e morte spirituale, non fisica. La guerra santa non c’entra proprio”.

 
In sostanza, è ancora una volta Gesù che chiarisce il significato vero della mitezza. Cristo afferma: “Imparate da me che sono mite e umile di cuore”. “La vera mitezza – ha commentato padre Cantalamessa – si decide lì”. Il cuore umano, spesso teatro di pensieri violenti, di “processi a porte chiuse” contro chi si ritiene sia nostro avversario, è anche il luogo della carità. Anche quando, ha concluso il predicatore pontificio, il modello di riferimento sembra fuori della nostra portata:

 
“C’è il rischio che si resti scoraggiati nel costatare l’incapacità di attuarle nella propria vita e la distanza abissale che c’è tra l’ideale e la pratica. Si deve richiamare alla mente quello che si diceva all’inizio: le Beatitudini sono l’autoritratto di Gesú. Egli le ha vissute tutte e in grado sommo; ma – e qui sta la buona notizia – non le ha vissute solo per sé, ma anche per tutti noi. Nei confronti delle Beatitudini, non siamo chiamati solo all’imitazione, ma anche all’appropriazione. Nella fede possiamo attingere dalla mitezza di Cristo, come dalla sua purezza di cuore e da ogni altra sua virtù (…) La mansuetudine e la mitezza sono come un vestito che Cristo ci ha meritato e di cui, nella fede, possiamo rivestirci, non per essere dispensati dalla pratica, ma per animarci ad essa”.
 
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