2007-01-01 16:54:42

L'augurio del card. Poupard: i cristiani siano sempre più messaggeri di amore e speranza


(1 gennaio 2007 - RV) Il Papa invita tutti ad unirsi nella grande opera della pace, vincendo la tentazione dello scoraggiamento, anche di fronte alle tante drammatiche notizie che ci giungono ogni giorno attraverso i mass media. Ma ciascuno, nel proprio piccolo, è chiamato a operare quel bene che spesso non si vede ma che sostanzia il tessuto reale della vita quotidiana. E’ questa la convinzione del cardinale Paul Poupard, presidente del Pontificio Consiglio della Cultura e del Pontificio Consiglio per il dialogo interreligioso, intervistato da Giovanni Peduto:
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R. – Ma certo, il bene che cresce spesso non si vede perché cresce in casa nostra e anche sotto casa nostra e non fa notizia: è quello della generosità, della solidarietà che è vissuto da migliaia di donne e uomini che dedicano tanto tempo al servizio degli altri, in particolare dei poveri.
D. – Terra Santa, Iraq, Libano, Afghanistan ma anche Sri Lanka; e poi la povertà, i conflitti dimenticati dell’Africa nonché i grandi problemi dell’America Latina: cosa deve fare, eminenza, la comunità internazionale che ancora non fa?
R. – Ma guardi, la comunità internazionale è un termine un po’ impersonale, e vorrei essere chiaro. La politica internazionale è strettamente legata, di fatto, alle scelte degli Stati più potenti che portano la responsabilità maggiore delle scelte degli organismi dalle Nazioni Unite, all’Unione Europea, l’Unione Africana, la Lega Araba ... Prima di chiederci cosa deve fare la comunità internazionale, chiediamoci il perché delle sue scelte, qual è il suo interesse. Il bene comune o l’interesse economico-politico del proprio Stato a scapito degli altri, anche dei più deboli, anche nell’intera nazione? Dunque, senza un concetto veramente umano, il bene della comunità internazionale sarà lasciato a decisioni che sono senza radici umane.
D. – La Chiesa è una delle pochissime realtà che sta ponendo in questo particolare contesto storico la questione antropologica. Oggi – dice il Papa – si vuole negare chi è in realtà l’essere umano. Come difendere l’uomo creato ad immagine di Dio?
R. – Ma, il Santo Padre non si stanca di ripetere: “Per noi, il Figlio di Dio è la vera misura dell’umanesimo”, che vuol dire che nella cultura attuale e oggi anche così secolarizzata, dobbiamo trovare mezzi – e sarà la prossima plenaria del Pontificio Consiglio della cultura – in questo mondo di secolarizzazione, il modo di comunicare quel vero umanesimo del quale diceva il Concilio Ecumenico Vaticano, “Cristo è l’archetipo”. Cosa vuol dire “umanesimo”? Vuol dire la realtà della dignità umana.
D. – Benedetto XVI ha vissuto un anno di intensa attività apostolica. Eminenza, quale fatto particolare l’ha colpita?
R. – Forse la mia risposta la sorprenderà: quello che mi ha più colpito non è tanto un fatto particolare, dell’intensissima attività pontificia – evidentemente il viaggio in Turchia al quale ho avuto il privilegio di partecipare – ma quello che mi ha colpito di più è il suo modo di essere Papa Benedetto, cioè il suo atteggiamento personale. Vediamo le grandi folle che partecipano alle celebrazioni liturgiche a San Pietro, alla recita domenicale dell’Angelus, nelle udienze: la gente vede questo Papa, sente la sua interiorità e così lo ascolta volentieri, si associa alla sua preghiera in un’atmosfera di raccoglimento. Posso testimoniare, essendo vicino a lui in questo momento, quanto effetto abbia avuto il suo momento di raccoglimento silenzioso nella Moschea Blu a Istanbul. Questo momento di raccoglimento ha toccato profondamente le popolazioni musulmane, molto di più di qualsiasi discorso che noi possiamo, che dobbiamo fare sui rapporti tra cristiani e musulmani. E dunque, ripeto, quello che mi colpisce di più è il suo modo di fare il Papa, di essere il Papa, che è una predica silenziosa che raggiunge il cuore degli uomini che discernono l’uomo di Dio. Direi un po’ quello, il suo carisma mi ricorda spesso il modo di essere di Paolo VI, del quale sono stato a lungo collaboratore. La gente semplice, anche come i più intellettuali, intuiscono la bontà che illumina il suo volto che è il frutto della sua vita interiore, della sua amicizia con Gesù. Quello che mi colpisce sempre è che dice sempre: “Cari amici”: questo fin dal primo giorno del suo pontificato.
D. – Eminenza, di quale scatto ha bisogno la Chiesa per annunciare con maggior incisività il Vangelo della speranza?
R. – Per essere messaggera di speranza è chiaro che la Chiesa deve essere piena di speranza. Io dico che la speranza è la fede nell’amore. Non sarà certamente una definizione teologica, ma è per far capire che chi ha fede non può rimanere nella tristezza, anche se nel dolore.
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