L'augurio del card. Poupard: i cristiani siano sempre più messaggeri di amore e speranza
(1 gennaio 2007 - RV) Il Papa invita tutti ad unirsi nella grande opera della pace,
vincendo la tentazione dello scoraggiamento, anche di fronte alle tante drammatiche
notizie che ci giungono ogni giorno attraverso i mass media. Ma ciascuno, nel proprio
piccolo, è chiamato a operare quel bene che spesso non si vede ma che sostanzia il
tessuto reale della vita quotidiana. E’ questa la convinzione del cardinale Paul Poupard,
presidente del Pontificio Consiglio della Cultura e del Pontificio Consiglio per il
dialogo interreligioso, intervistato da Giovanni Peduto: ********* R. – Ma
certo, il bene che cresce spesso non si vede perché cresce in casa nostra e anche
sotto casa nostra e non fa notizia: è quello della generosità, della solidarietà che
è vissuto da migliaia di donne e uomini che dedicano tanto tempo al servizio degli
altri, in particolare dei poveri. D. – Terra Santa, Iraq, Libano, Afghanistan
ma anche Sri Lanka; e poi la povertà, i conflitti dimenticati dell’Africa nonché i
grandi problemi dell’America Latina: cosa deve fare, eminenza, la comunità internazionale
che ancora non fa? R. – Ma guardi, la comunità internazionale è un termine un po’
impersonale, e vorrei essere chiaro. La politica internazionale è strettamente legata,
di fatto, alle scelte degli Stati più potenti che portano la responsabilità maggiore
delle scelte degli organismi dalle Nazioni Unite, all’Unione Europea, l’Unione Africana,
la Lega Araba ... Prima di chiederci cosa deve fare la comunità internazionale, chiediamoci
il perché delle sue scelte, qual è il suo interesse. Il bene comune o l’interesse
economico-politico del proprio Stato a scapito degli altri, anche dei più deboli,
anche nell’intera nazione? Dunque, senza un concetto veramente umano, il bene della
comunità internazionale sarà lasciato a decisioni che sono senza radici umane. D.
– La Chiesa è una delle pochissime realtà che sta ponendo in questo particolare contesto
storico la questione antropologica. Oggi – dice il Papa – si vuole negare chi è in
realtà l’essere umano. Come difendere l’uomo creato ad immagine di Dio? R. – Ma,
il Santo Padre non si stanca di ripetere: “Per noi, il Figlio di Dio è la vera misura
dell’umanesimo”, che vuol dire che nella cultura attuale e oggi anche così secolarizzata,
dobbiamo trovare mezzi – e sarà la prossima plenaria del Pontificio Consiglio della
cultura – in questo mondo di secolarizzazione, il modo di comunicare quel vero umanesimo
del quale diceva il Concilio Ecumenico Vaticano, “Cristo è l’archetipo”. Cosa vuol
dire “umanesimo”? Vuol dire la realtà della dignità umana. D. – Benedetto XVI ha
vissuto un anno di intensa attività apostolica. Eminenza, quale fatto particolare
l’ha colpita? R. – Forse la mia risposta la sorprenderà: quello che mi ha più colpito
non è tanto un fatto particolare, dell’intensissima attività pontificia – evidentemente
il viaggio in Turchia al quale ho avuto il privilegio di partecipare – ma quello che
mi ha colpito di più è il suo modo di essere Papa Benedetto, cioè il suo atteggiamento
personale. Vediamo le grandi folle che partecipano alle celebrazioni liturgiche a
San Pietro, alla recita domenicale dell’Angelus, nelle udienze: la gente vede questo
Papa, sente la sua interiorità e così lo ascolta volentieri, si associa alla sua preghiera
in un’atmosfera di raccoglimento. Posso testimoniare, essendo vicino a lui in questo
momento, quanto effetto abbia avuto il suo momento di raccoglimento silenzioso nella
Moschea Blu a Istanbul. Questo momento di raccoglimento ha toccato profondamente le
popolazioni musulmane, molto di più di qualsiasi discorso che noi possiamo, che dobbiamo
fare sui rapporti tra cristiani e musulmani. E dunque, ripeto, quello che mi colpisce
di più è il suo modo di fare il Papa, di essere il Papa, che è una predica silenziosa
che raggiunge il cuore degli uomini che discernono l’uomo di Dio. Direi un po’ quello,
il suo carisma mi ricorda spesso il modo di essere di Paolo VI, del quale sono stato
a lungo collaboratore. La gente semplice, anche come i più intellettuali, intuiscono
la bontà che illumina il suo volto che è il frutto della sua vita interiore, della
sua amicizia con Gesù. Quello che mi colpisce sempre è che dice sempre: “Cari amici”:
questo fin dal primo giorno del suo pontificato. D. – Eminenza, di quale scatto
ha bisogno la Chiesa per annunciare con maggior incisività il Vangelo della speranza? R.
– Per essere messaggera di speranza è chiaro che la Chiesa deve essere piena di speranza.
Io dico che la speranza è la fede nell’amore. Non sarà certamente una definizione
teologica, ma è per far capire che chi ha fede non può rimanere nella tristezza, anche
se nel dolore. ********** =======ooo=======