È per me un
momento emozionante trovarmi ancora una volta nell'università e una volta ancora poter
tenere una lezione. I miei pensieri, contemporaneamente, ritornano a quegli anni in
cui, dopo un bel periodo presso l'Istituto superiore di Freising, iniziai la mia attività
di insegnante accademico all'università di Bonn. Era – nel 1959 – ancora il tempo
della vecchia università dei professori ordinari. Per le singole cattedre non esistevano
né assistenti né dattilografi, ma in compenso c'era un contatto molto diretto con
gli studenti e soprattutto anche tra i professori. Ci si incontrava prima e dopo la
lezione nelle stanze dei docenti. I contatti con gli storici, i filosofi, i filologi
e naturalmente anche tra le due facoltà teologiche erano molto stretti. Una volta
in ogni semestre c'era un cosiddetto dies academicus, in cui professori di tutte le
facoltà si presentavano davanti agli studenti dell'intera università, rendendo così
possibile un’esperienza di universitas – una cosa a cui anche Lei, Magnifico Rettore,
ha accennato poco fa – l’esperienza, cioè del fatto che noi, nonostante tutte le specializzazioni,
che a volte ci rendono incapaci di comunicare tra di noi, formiamo un tutto e lavoriamo
nel tutto dell'unica ragione con le sue varie dimensioni, stando così insieme anche
nella comune responsabilità per il retto uso della ragione – questo fatto diventava
esperienza viva. L'università, senza dubbio, era fiera anche delle sue due facoltà
teologiche. Era chiaro che anch'esse, interrogandosi sulla ragionevolezza della fede,
svolgono un lavoro che necessariamente fa parte del "tutto" dell'universitas scientiarum,
anche se non tutti potevano condividere la fede, per la cui correlazione con la ragione
comune si impegnano i teologi. Questa coesione interiore nel cosmo della ragione non
venne disturbata neanche quando una volta trapelò la notizia che uno dei colleghi
aveva detto che nella nostra università c'era una stranezza: due facoltà che si occupavano
di una cosa che non esisteva – di Dio. Che anche di fronte ad uno scetticismo così
radicale resti necessario e ragionevole interrogarsi su Dio per mezzo della ragione
e ciò debba essere fatto nel contesto della tradizione della fede cristiana: questo,
nell'insieme dell'università, era una convinzione indiscussa.
Tutto ciò mi
tornò in mente, quando recentemente lessi la parte edita dal professore Theodore Khoury
(Münster) del dialogo che il dotto imperatore bizantino Manuele II Paleologo, forse
durante i quartieri d'inverno del 1391 presso Ankara, ebbe con un persiano colto su
cristianesimo e islam e sulla verità di ambedue.[1] Fu poi presumibilmente l'imperatore
stesso ad annotare, durante l'assedio di Costantinopoli tra il 1394 e il 1402, questo
dialogo; si spiega così perché i suoi ragionamenti siano riportati in modo molto più
dettagliato che non quelli del suo interlocutore persiano.[2] Il dialogo si estende
su tutto l'ambito delle strutture della fede contenute nella Bibbia e nel Corano e
si sofferma soprattutto sull'immagine di Dio e dell'uomo, ma necessariamente anche
sempre di nuovo sulla relazione tra le – come si diceva – tre "Leggi" o tre "ordini
di vita": Antico Testamento – Nuovo Testamento – Corano. Di ciò non intendo parlare
ora in questa lezione; vorrei toccare solo un argomento – piuttosto marginale nella
struttura dell’intero dialogo – che, nel contesto del tema "fede e ragione", mi ha
affascinato e che mi servirà come punto di partenza per le mie riflessioni su questo
tema.
Nel settimo colloquio (διάλεξις – controversia) edito dal prof. Khoury,
l'imperatore tocca il tema della jihād, della guerra santa. Sicuramente l'imperatore
sapeva che nella sura 2, 256 si legge: "Nessuna costrizione nelle cose di fede". È
probabilmente una delle sure del periodo iniziale, dice una parte degli esperti, in
cui Maometto stesso era ancora senza potere e minacciato. Ma, naturalmente, l'imperatore
conosceva anche le disposizioni, sviluppate successivamente e fissate nel Corano,
circa la guerra santa. Senza soffermarsi sui particolari, come la differenza di trattamento
tra coloro che possiedono il "Libro" e gli "increduli", egli, in modo sorprendentemente
brusco, brusco al punto da essere per noi inaccettabile, si rivolge al suo interlocutore
semplicemente con la domanda centrale sul rapporto tra religione e violenza in genere,
dicendo: "Mostrami pure ciò che Maometto ha portato di nuovo, e vi troverai soltanto
delle cose cattive e disumane, come la sua direttiva di diffondere per mezzo della
spada la fede che egli predicava".[3] L'imperatore, dopo essersi pronunciato in modo
così pesante, spiega poi minuziosamente le ragioni per cui la diffusione della fede
mediante la violenza è cosa irragionevole. La violenza è in contrasto con la natura
di Dio e la natura dell'anima. "Dio non si compiace del sangue - egli dice -, non
agire secondo ragione, „σὺν λόγω”, è contrario alla natura di Dio. La fede è frutto
dell'anima, non del corpo. Chi quindi vuole condurre qualcuno alla fede ha bisogno
della capacità di parlare bene e di ragionare correttamente, non invece della violenza
e della minaccia… Per convincere un'anima ragionevole non è necessario disporre né
del proprio braccio, né di strumenti per colpire né di qualunque altro mezzo con cui
si possa minacciare una persona di morte…"[4]
L'affermazione decisiva in questa
argomentazione contro la conversione mediante la violenza è: non agire secondo ragione
è contrario alla natura di Dio.[5] L'editore, Theodore Khoury, commenta: per l'imperatore,
come bizantino cresciuto nella filosofia greca, quest'affermazione è evidente. Per
la dottrina musulmana, invece, Dio è assolutamente trascendente. La sua volontà non
è legata a nessuna delle nostre categorie, fosse anche quella della ragionevolezza.[6]
In questo contesto Khoury cita un'opera del noto islamista francese R. Arnaldez, il
quale rileva che Ibn Hazm si spinge fino a dichiarare che Dio non sarebbe legato neanche
dalla sua stessa parola e che niente lo obbligherebbe a rivelare a noi la verità.
Se fosse sua volontà, l'uomo dovrebbe praticare anche l'idolatria.[7]
A questo
puntosi apre, nella comprensione di Dio e quindi nella realizzazione concreta della
religione, un dilemma che oggi ci sfida in modo molto diretto. La convinzione che
agire contro la ragione sia in contraddizione con la natura di Dio, è soltanto un
pensiero greco o vale sempre e per se stesso? Io penso che in questo punto si manifesti
la profonda concordanza tra ciò che è greco nel senso migliore e ciò che è fede in
Dio sul fondamento della Bibbia. Modificando il primo versetto del Libro della Genesi,
il primo versetto dell’intera Sacra Scrittura, Giovanni ha iniziato il prologo del
suo Vangelo con le parole: "In principio era il λόγος". È questa proprio la stessa
parola che usa l'imperatore: Dio agisce „σὺν λόγω”, con logos. Logos significa insieme
ragione e parola – una ragione che è creatrice e capace di comunicarsi ma, appunto,
come ragione. Giovanni con ciò ci ha donato la parola conclusiva sul concetto biblico
di Dio, la parola in cui tutte le vie spesso faticose e tortuose della fede biblica
raggiungono la loro meta, trovano la loro sintesi. In principio era il logos, e il
logos è Dio, ci dice l'evangelista. L'incontro tra il messaggio biblico e il pensiero
greco non era un semplice caso. La visione di san Paolo, davanti al quale si erano
chiuse le vie dell'Asia e che, in sogno, vide un Macedone e sentì la sua supplica:
"Passa in Macedonia e aiutaci!" (cfr At 16,6-10) – questa visione può essere interpretata
come una "condensazione" della necessità intrinseca di un avvicinamento tra la fede
biblica e l'interrogarsi greco.
In realtà, questo avvicinamento ormai era avviato
da molto tempo. Già il nome misterioso di Dio dal roveto ardente, che distacca questo
Dio dall'insieme delle divinità con molteplici nomi affermando soltanto il suo "Io
sono", il suo essere, è, nei confronti del mito, una contestazione con la quale sta
in intima analogia il tentativo di Socrate di vincere e superare il mito stesso.[8]
Il processo iniziato presso il roveto raggiunge, all'interno dell'Antico Testamento,
una nuova maturità durante l'esilio, dove il Dio d'Israele, ora privo della Terra
e del culto, si annuncia come il Dio del cielo e della terra, presentandosi con una
semplice formula che prolunga la parola del roveto: "Io sono". Con questa nuova conoscenza
di Dio va di pari passo una specie di illuminismo, che si esprime in modo drastico
nella derisione delle divinità che sarebbero soltanto opera delle mani dell'uomo (cfr
Sal 115). Così, nonostante tutta la durezza del disaccordo con i sovrani ellenistici,
che volevano ottenere con la forza l'adeguamento allo stile di vita greco e al loro
culto idolatrico, la fede biblica, durante l'epoca ellenistica, andava interiormente
incontro alla parte migliore del pensiero greco, fino ad un contatto vicendevole che
si è poi realizzato specialmente nella tarda letteratura sapienziale. Oggi noi sappiamo
che la traduzione greca dell'Antico Testamento, realizzata in Alessandria – la "Settanta"
–, è più di una semplice (da valutare forse in modo addirittura poco positivo) traduzione
del testo ebraico: è infatti una testimonianza testuale a se stante e uno specifico
importante passo della storia della Rivelazione, nel quale si è realizzato questo
incontro in un modo che per la nascita del cristianesimo e la sua divulgazione ha
avuto un significato decisivo.[9] Nel profondo, vi si tratta dell'incontro tra fede
e ragione, tra autentico illuminismo e religione. Partendo veramente dall'intima natura
della fede cristiana e, al contempo, dalla natura del pensiero greco fuso ormai con
la fede, Manuele II poteva dire: Non agire "con il logos" è contrario alla natura
di Dio.
Per onestà bisogna annotare a questo punto che, nel tardo Medioevo,
si sono sviluppate nella teologia tendenze che rompono questa sintesi tra spirito
greco e spirito cristiano. In contrasto con il cosiddetto intellettualismo agostiniano
e tomista iniziò con Duns Scoto una impostazione volontaristica, la quale alla fine,
nei suoi successivi sviluppi, portò all'affermazione che noi di Dio conosceremmo soltanto
la voluntas ordinata. Al di là di essa esisterebbe la libertà di Dio, in virtù della
quale Egli avrebbe potuto creare e fare anche il contrario di tutto ciò che effettivamente
ha fatto. Qui si profilano delle posizioni che, senz'altro, possono avvicinarsi a
quelle di Ibn Hazm e potrebbero portare fino all'immagine di un Dio-Arbitrio, che
non è legato neanche alla verità e al bene. La trascendenza e la diversità di Dio
vengono accentuate in modo così esagerato, che anche la nostra ragione, il nostro
senso del vero e del bene non sono più un vero specchio di Dio, le cui possibilità
abissali rimangono per noi eternamente irraggiungibili e nascoste dietro le sue decisioni
effettive. In contrasto con ciò, la fede della Chiesa si è sempre attenuta alla convinzione
che tra Dio e noi, tra il suo eterno Spirito creatore e la nostra ragione creata esista
una vera analogia, in cui – come dice il Concilio Lateranense IV nel 1215 –certo le
dissomiglianze sono infinitamente più grandi delle somiglianze, non tuttavia fino
al punto da abolire l'analogia e il suo linguaggio. Dio non diventa più divino per
il fatto che lo spingiamo lontano da noi in un volontarismo puro ed impenetrabile,
ma il Dio veramente divino è quel Dio che si è mostrato come logos e come logos ha
agito e agisce pieno di amore in nostro favore. Certo, l'amore, come dice Paolo, "sorpassa"
la conoscenza ed è per questo capace di percepire più del semplice pensiero (cfr Ef
3,19), tuttavia esso rimane l'amore del Dio-Logos, per cui il culto cristiano è, come
dice ancora Paolo „λογικη λατρεία“ – un culto che concorda con il Verbo eterno e
con la nostra ragione (cfr Rm 12,1).[10]
Il qui accennato vicendevole avvicinamento
interiore, che si è avuto tra la fede biblica e l'interrogarsi sul piano filosofico
del pensiero greco, è un dato di importanza decisiva non solo dal punto di vista della
storia delle religioni, ma anche da quello della storia universale – un dato che ci
obbliga anche oggi. Considerato questo incontro, non è sorprendente che il cristianesimo,
nonostante la sua origine e qualche suo sviluppo importante nell'Oriente, abbia infine
trovato la sua impronta storicamente decisiva in Europa. Possiamo esprimerlo anche
inversamente: questo incontro, al quale si aggiunge successivamente ancora il patrimonio
di Roma, ha creato l'Europa e rimane il fondamento di ciò che, con ragione, si può
chiamare Europa.
Alla tesi che il patrimonio greco, criticamente purificato,
sia una parte integrante della fede cristiana, si oppone la richiesta della deellenizzazione
del cristianesimo – una richiesta che dall'inizio dell'età moderna domina in modo
crescente la ricerca teologica. Visto più da vicino, si possono osservare tre onde
nel programma della deellenizzazione: pur collegate tra di loro, esse tuttavia nelle
loro motivazioni e nei loro obiettivi sono chiaramente distinte l'una dall'altra.[11]
La
deellenizzazione emerge dapprima in connessione con i postulati della Riforma del
XVI secolo. Considerando la tradizione delle scuole teologiche, i riformatori si vedevano
di fronte ad una sistematizzazione della fede condizionata totalmente dalla filosofia,
di fronte cioè ad una determinazione della fede dall'esterno in forza di un modo di
pensare che non derivava da essa. Così la fede non appariva più come vivente parola
storica, ma come elemento inserito nella struttura di un sistema filosofico. Il sola
Scriptura invece cerca la pura forma primordiale della fede, come essa è presente
originariamente nella Parola biblica. La metafisica appare come un presupposto derivante
da altra fonte, da cui occorre liberare la fede per farla tornare ad essere totalmente
se stessa. Con la sua affermazione di aver dovuto accantonare il pensare per far spazio
alla fede, Kant ha agito in base a questo programma con una radicalità imprevedibile
per i riformatori. Con ciò egli ha ancorato la fede esclusivamente alla ragione pratica,
negandole l'accesso al tutto della realtà.
La teologia liberale del XIX e del
XX secolo apportò una seconda onda nel programma della deellenizzazione: di essa rappresentante
eminente è Adolf von Harnack. Durante il tempo dei miei studi, come nei primi anni
della mia attività accademica, questo programma era fortemente operante anche nella
teologia cattolica. Come punto di partenza era utilizzata la distinzione di Pascal
tra il Dio dei filosofi ed il Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe. Nella mia prolusione
a Bonn, nel 1959, ho cercato di affrontare questo argomento[12] e non intendo riprendere
qui tutto il discorso. Vorrei però tentare di mettere in luce almeno brevemente la
novità che caratterizzava questa seconda onda di deellenizzazione rispetto alla prima.
Come pensiero centrale appare, in Harnack, il ritorno al semplice uomo Gesù e al suo
messaggio semplice, che verrebbe prima di tutte le teologizzazioni e, appunto, anche
prima delle ellenizzazioni: sarebbe questo messaggio semplice che costituirebbe il
vero culmine dello sviluppo religioso dell'umanità. Gesù avrebbe dato un addio al
culto in favore della morale. In definitiva, Egli viene rappresentato come padre di
un messaggio morale umanitario. Lo scopo di Harnack è in fondo di riportare il cristianesimo
in armonia con la ragione moderna, liberandolo, appunto, da elementi apparentemente
filosofici e teologici, come per esempio la fede nella divinità di Cristo e nella
trinità di Dio. In questo senso, l'esegesi storico-critica del Nuovo Testamento, nella
sua visione, sistema nuovamente la teologia nel cosmo dell'università: teologia, per
Harnack, è qualcosa di essenzialmente storico e quindi di strettamente scientifico.
Ciò che essa indaga su Gesù mediante la critica è, per così dire, espressione della
ragione pratica e di conseguenza anche sostenibile nell'insieme dell'università. Nel
sottofondo c'è l'autolimitazione moderna della ragione, espressa in modo classico
nelle "critiche" di Kant, nel frattempo però ulteriormente radicalizzata dal pensiero
delle scienze naturali. Questo concetto moderno della ragione si basa, per dirla in
breve, su una sintesi tra platonismo (cartesianismo) ed empirismo, che il successo
tecnico ha confermato. Da una parte si presuppone la struttura matematica della materia,
la sua per così dire razionalità intrinseca, che rende possibile comprenderla ed usarla
nella sua efficacia operativa: questo presupposto di fondo è, per così dire, l'elemento
platonico nel concetto moderno della natura. Dall'altra parte, si tratta della utilizzabilità
funzionale della natura per i nostri scopi, dove solo la possibilità di controllare
verità o falsità mediante l'esperimento fornisce la certezza decisiva. Il peso tra
i due poli può, a seconda delle circostanze, stare più dall'una o più dall'altra parte.
Un pensatore così strettamente positivista come J. Monod si è dichiarato convinto
platonico.
Questo comporta due orientamenti fondamentali decisivi per la nostra
questione. Soltanto il tipo di certezza derivante dalla sinergia di matematica ed
empiria ci permette di parlare di scientificità. Ciò che pretende di essere scienza
deve confrontarsi con questo criterio. E così anche le scienze che riguardano le cose
umane, come la storia, la psicologia, la sociologia e la filosofia, cercavano di avvicinarsi
a questo canone della scientificità. Importante per le nostre riflessioni, comunque,
è ancora il fatto che il metodo come tale esclude il problema Dio, facendolo apparire
come problema ascientifico o pre-scientifico. Con questo, però, ci troviamo davanti
ad una riduzione del raggio di scienza e ragione che è doveroso mettere in questione.
Tornerò
ancora su questo argomento. Per il momento basta tener presente che, in un tentativo
alla luce di questa prospettiva di conservare alla teologia il carattere di disciplina
"scientifica", del cristianesimo resterebbe solo un misero frammento. Ma dobbiamo
dire di più: se la scienza nel suo insieme è soltanto questo, allora è l'uomo stesso
che con ciò subisce una riduzione. Poiché allora gli interrogativi propriamente umani,
cioè quelli del "da dove" e del "verso dove", gli interrogativi della religione e
dell'ethos, non possono trovare posto nello spazio della comune ragione descritta
dalla "scienza" intesa in questo modo e devono essere spostati nell'ambito del soggettivo.
Il soggetto decide, in base alle sue esperienze, che cosa gli appare religiosamente
sostenibile, e la "coscienza" soggettiva diventa in definitiva l'unica istanza etica.
In questo modo, però, l'ethos e la religione perdono la loro forza di creare una comunità
e scadono nell'ambito della discrezionalità personale. È questa una condizione pericolosa
per l'umanità: lo costatiamo nelle patologie minacciose della religione e della ragione
– patologie che necessariamente devono scoppiare, quando la ragione viene ridotta
a tal punto che le questioni della religione e dell'ethos non la riguardano più. Ciò
che rimane dei tentativi di costruire un'etica partendo dalle regole dell'evoluzione
o dalla psicologia e dalla sociologia, è semplicemente insufficiente.
Prima
di giungere alle conclusioni alle quali mira tutto questo ragionamento, devo accennare
ancora brevemente alla terza onda della deellenizzazione che si diffonde attualmente.
In considerazione dell’incontro con la molteplicità delle culture si ama dire oggi
che la sintesi con l’ellenismo, compiutasi nella Chiesa antica, sarebbe stata una
prima inculturazione, che non dovrebbe vincolare le altre culture. Queste dovrebbero
avere il diritto di tornare indietro fino al punto che precedeva quella inculturazione
per scoprire il semplice messaggio del Nuovo Testamento ed inculturarlo poi di nuovo
nei loro rispettivi ambienti. Questa tesi non è semplicemente sbagliata; è tuttavia
grossolana ed imprecisa. Il Nuovo Testamento, infatti, e stato scritto in lingua greca
e porta in se stesso il contatto con lo spirito greco – un contatto che era maturato
nello sviluppo precedente dell’Antico Testamento. Certamente ci sono elementi nel
processo formativo della Chiesa antica che non devono essere integrati in tutte le
culture. Ma le decisioni di fondo che, appunto, riguardano il rapporto della fede
con la ricerca della ragione umana, queste decisioni di fondo fanno parte della fede
stessa e ne sono gli sviluppi, conformi alla sua natura.
Con ciò giungo alla
conclusione. Questo tentativo, fatto solo a grandi linee, di critica della ragione
moderna dal suo interno, non include assolutamente l’opinione che ora si debba ritornare
indietro, a prima dell’illuminismo, rigettando le convinzioni dell’età moderna. Quello
che nello sviluppo moderno dello spirito è valido viene riconosciuto senza riserve:
tutti siamo grati per le grandiose possibilità che esso ha aperto all’uomo e per i
progressi nel campo umano che ci sono stati donati. L’ethos della scientificità, del
resto, è – Lei l’ha accennato, Magnifico Rettore – volontà di obbedienza alla verità
e quindi espressione di un atteggiamento che fa parte delle decisioni essenziali dello
spirito cristiano. Non ritiro, non critica negativa è dunque l’intenzione; si tratta
invece di un allargamento del nostro concetto di ragione e dell’uso di essa. Perché
con tutta la gioia di fronte alle possibilità dell'uomo, vediamo anche le minacce
che emergono da queste possibilità e dobbiamo chiederci come possiamo dominarle. Ci
riusciamo solo se ragione e fede si ritrovano unite in un modo nuovo; se superiamo
la limitazione autodecretata della ragione a ciò che è verificabile nell'esperimento,
e dischiudiamo ad essa nuovamente tutta la sua ampiezza. In questo senso la teologia,
non soltanto come disciplina storica e umano-scientifica, ma come teologia vera e
propria, cioè come interrogativo sulla ragione della fede, deve avere il suo posto
nell'università e nel vasto dialogo delle scienze.
Solo così diventiamo anche
capaci di un vero dialogo delle culture e delle religioni – un dialogo di cui abbiamo
un così urgente bisogno. Nel mondo occidentale domina largamente l'opinione, che soltanto
la ragione positivista e le forme di filosofia da essa derivanti siano universali.
Ma le culture profondamente religiose del mondo vedono proprio in questa esclusione
del divino dall'universalità della ragione un attacco alle loro convinzioni più intime.
Una ragione, che di fronte al divino è sorda e respinge la religione nell'ambito delle
sottoculture, è incapace di inserirsi nel dialogo delle culture. E tuttavia, la moderna
ragione propria delle scienze naturali, con l'intrinseco suo elemento platonico, porta
in sé, come ho cercato di dimostrare, un interrogativo che la trascende insieme con
le sue possibilità metodiche. Essa stessa deve semplicemente accettare la struttura
razionale della materia e la corrispondenza tra il nostro spirito e le strutture razionali
operanti nella natura come un dato di fatto, sul quale si basa il suo percorso metodico.
Ma la domanda sul perché di questo dato di fatto esiste e deve essere affidata dalle
scienze naturali ad altri livelli e modi del pensare – alla filosofia e alla teologia.
Per la filosofia e, in modo diverso, per la teologia, l'ascoltare le grandi esperienze
e convinzioni delle tradizioni religiose dell'umanità, specialmente quella della fede
cristiana, costituisce una fonte di conoscenza; rifiutarsi ad essa significherebbe
una riduzione inaccettabile del nostro ascoltare e rispondere. Qui mi viene in mente
una parola di Socrate a Fedone. Nei colloqui precedenti si erano toccate molte opinioni
filosofiche sbagliate, e allora Socrate dice: "Sarebbe ben comprensibile se uno, a
motivo dell'irritazione per tante cose sbagliate, per il resto della sua vita prendesse
in odio ogni discorso sull'essere e lo denigrasse. Ma in questo modo perderebbe la
verità dell'essere e subirebbe un grande danno".[13] L'occidente, da molto tempo,
è minacciato da questa avversione contro gli interrogativi fondamentali della sua
ragione, e così potrebbe subire solo un grande danno. Il coraggio di aprirsi all'ampiezza
della ragione, non il rifiuto della sua grandezza – è questo il programma con cui
una teologia impegnata nella riflessione sulla fede biblica, entra nella disputa del
tempo presente. "Non agire secondo ragione, non agire con il logos, è contrario alla
natura di Dio", ha detto Manuele II, partendo dalla sua immagine cristiana di Dio,
all'interlocutore persiano. È a questo grande logos, a questa vastità della ragione,
che invitiamo nel dialogo delle culture i nostri interlocutori. Ritrovarla noi stessi
sempre di nuovo, è il grande compito dell'università.
[1] Dei complessivamente 26 colloqui (διάλεξις– Khoury traduce: controversia)
del dialogo („Entretien“), Th. Khoury ha pubblicato la 7ma „controversia“ con delle
note e un'ampia introduzione sull'origine del testo, sulla tradizione manoscritta
e sulla struttura del dialogo, insieme con brevi riassunti delle „controversie“ non
edite; al testo greco è unita una traduzione francese: Manuel II Paléologue, Entretiens
avec un Musulman. 7e Controverse. Sources chrétiennes n. 115, Parigi 1966. Nel frattempo,
Karl Förstel ha pubblicato nel Corpus Islamico-Christianum (Series Graeca. Redazione
A. Th. Khoury – R. Glei) un'edizione commentata greco-tedesca del testo: Manuel II.
Palaiologus, Dialoge mit einem Muslim, 3 volumi, Würzburg – Altenberge 1993 – 1996.
Già nel 1966, E. Trapp aveva pubblicato il testo greco con una introduzione come vol.
II dei „Wiener byzantinische Studien“. Citerò in seguito secondo Khoury. [2] Sull'origine
e sulla redazione del dialogo cfr Khoury pp. 22-29; ampi commenti a questo riguardo
anche nelle edizioni di Förstel e Trapp. [3] Controversia VII 2c: Khoury, pp.
142-143; Förstel, vol. I, VII. Dialog 1.5, pp. 240-241. Questa citazione, nel mondo
musulmano, è stata presa purtroppo come espressione della mia posizione personale,
suscitando così una comprensibile indignazione. Spero che il lettore del mio testo
possa capire immediatamente che questa frase non esprime la mia valutazione personale
di fronte al Corano, verso il quale ho il rispetto che è dovuto al libro sacro di
una grande religione. Citando il testo dell'imperatore Manuele II intendevo unicamente
evidenziare il rapporto essenziale tra fede e ragione. In questo punto sono d'accordo
con Manuele II, senza però far mia la sua polemica. [4] Controversia VII 3b –
c: Khoury, pp. 144-145; Förstel Bd. I, VII. Dialog 1.6 pp. 240-243. [5] Solamente
per questa affermazione ho citato il dialogo tra Manuele e il suo interlocutore persiano.
È in quest'affermazione che emerge il tema delle mie successive riflessioni. [6]Cfr
Khoury, op. cit., p. 144, nota 1. [7]R. Arnaldez, Grammaire et théologie chez
Ibn Hazm de Cordoue. Parigi 1956 p. 13; cfr Khoury p. 144. Il fatto che nella teologia
del tardo Medioevo esistano posizioni paragonabili apparirà nell'ulteriore sviluppo
del mio discorso. [8] Per l'interpretazione ampiamente discussa dell'episodio del
roveto ardente vorrei rimandare al mio libro "Einführung in das Christentum" (Monaco
1968), pp. 84-102. Penso che le mie affermazioni in quel libro, nonostante l'ulteriore
sviluppo della discussione, restino tuttora valide. [9]Cfr. A. Schenker, L’Écriture
sainte subsiste en plusieurs formes canoniques simultanées, in: L’interpretazione
della Bibbia nella Chiesa. Atti del Simposio promosso dalla Congregazione per la Dottrina
della Fede. Città del Vaticano 2001, p. 178-186. [10] Su questo argomento mi sono
espresso più dettagliatamente nel mio libro "Der Geist der Liturgie. Eine Einführung",
Friburgo 2000, pp. 38-42. [11] Della vasta letteratura sul tema della deellenizzazione
vorrei menzionare innanzitutto: A Grillmeier, Hellenisierung – Judaisierung des Christentums
als Deuteprinzipien der Geschichte des kirchlichen Dogmas, in: Id., Mit ihm und in
ihm. Christologische Forschungen und Perspektiven. Freiburg 1975 pp. 423-488. [12]
Nuovamente pubblicata e commentata da Heino Sonnemanns: Joseph Ratzinger – Benedikt
XVI., Der Gott des Glaubens und der Gott der Philosophen. Ein Beitrag zum Problem
der theologia naturalis. Johannes-Verlag Leutesdorf, 2. ergänzte Auflage 2005. [13]
90 c-d. Per questo testo cfr anche R. Guardini, Der Tod des Sokrates. Mainz-Paderborn
19875, pp. 218-221.