Messa del Papa a Monaco: l'uomo di oggi non sente più Dio e rischia di cadere nel
cinismo. Credere vuol dire porre Dio al centro della propria vita percorrendo le vie
dell'amore e della giustizia
(10 settembre 2006 - RV) “La preghiera, forza di pace e di gioia, ci porta non solo
verso Dio, ma anche l’uno verso l’altro”. E’ uno dei passaggi dell’omelia dei vespri
celebrati da Benedetto XVI nel pomeriggio nella Cattedrale di Monaco sul tema “Facci
forti nella fede”. La riflessione era rivolta particolarmente ai bambini che hanno
ricevuto la prima comunione, ai loro genitori e docenti. A questi ultimi ha detto:
“Nelle scuole si insegni anche la ricerca di Dio”. Questa mattina la messa nella spianata
della Neue Messe, la Nuova Fiera. Oltre 250 mila i partecipanti. L’uomo di oggi –
ha detto il Papa - non riesce più a sentire Dio, sente l’urgenza del progresso, ma
non quella della fede e rischia di cadere nel cinismo e nel disprezzo di Dio. Il servizio
del nostro inviato Paolo Ondarza:
L’uomo di
oggi non riesce più a sentire Dio, sente l’urgenza del progresso, dello sviluppo ma
non quella della fede e rischia di cadere nel cinismo e nel disprezzo di Dio. Così
il Papa in mattinata nell’omelia della Messa presieduta a Monaco nella seconda giornata
del suo viaggio in Baviera, sua terra natale. Benedetto XVI ha invitato a mettere
Dio al centro della propria vita: solo così la vita cambia davvero, perché l’amore
di Dio è contemporaneamente amore per il prossimo, perchè “il fatto sociale e il Vangelo
sono inscindibili tra loro”. Allora “la giustizia e l’amore” diventano “le forze decisive
nell’ordine del mondo”. Solo così i cristiani diventano “testimoni credibili”. Il
servizio del nostro inviato Paolo Ondarza:
Ecco il testo
completo dell’omelia del Papa: ********** Cari fratelli e sorelle!
Innanzitutto
vorrei salutarvi tutti con affetto: sono lieto di potermi trovare di nuovo tra voi
e celebrare insieme con voi la Santa Messa. Sono lieto di poter ancora una volta visitare
i luoghi a me familiari, che hanno avuto un influsso determinante sulla mia vita,
formando il mio pensiero e i miei sentimenti: i luoghi nei quali ho imparato a credere
ed a vivere. È un'occasione per ringraziare tutti coloro – viventi e morti – che mi
hanno guidato ed accompagnato. Ringrazio Dio per questa bella Patria e per le persone
che me l'hanno resa e me la rendono tuttora Patria.
Abbiamo appena ascoltato
le tre letture bibliche che la liturgia della Chiesa ha scelto per questa domenica.
Tutte e tre sviluppano un duplice tema, che in fondo rimane un unico tema, accentuandone
– a seconda delle circostanze – l'uno o l'altro aspetto. Tutte e tre le letture parlano
di Dio come centro della realtà e come centro della nostra vita personale. "Ecco il
vostro Dio!" grida il profeta Isaia (35,4). La Lettera di Giacomo e il brano evangelico
dicono a loro modo la stessa cosa. Vogliono guidarci verso Dio, portandoci così sulla
retta via. Con il tema "Dio", però, è connesso il tema sociale: la nostra responsabilità
reciproca, la nostra responsabilità per la supremanzia della giustizia e dell'amore
nel mondo. Questo viene espresso in modo drammatico nella seconda lettura, in cui
Giacomo, un parente stretto di Gesù, ci parla. Egli si rivolge ad una comunità, nella
quale si comincia ad essere superbi, perché in essa si trovano anche persone benestanti
e distinte, mentre c'è il pericolo che la preoccupazione per il diritto dei poveri
venga meno. Giacomo, nelle sue parole, lascia intuire l'immagine di Gesù, di quel
Dio che si fece uomo e, pur essendo di origine davidica, cioè regale, diventò un uomo
semplice tra uomini semplici, non si sedette su un trono, ma alla fine morì nella
povertà estrema della Croce. L'amore del prossimo, che in primo luogo è sollecitudine
per la giustizia, è la pietra di paragone per la fede e per l'amore di Dio. Giacomo
lo chiama "legge regale" (cfr 2,8) lasciando intravedere la parola preferita di Gesù:
la regalità di Dio, il dominio di Dio. Questo non indica un regno qualsiasi che arriverà
una volta o l'altra, ma significa che Dio deve diventare la forza determinante per
la nostra vita e il nostro agire. È questo che domandiamo, quando preghiamo: "Venga
il tuo Regno". Non chiediamo una qualche cosa lontana, che noi stessi forse non desideriamo
neanche di sperimentare. Preghiamo invece perché la volontà di Dio determini ora la
nostra volontà e così Dio regni nel mondo; preghiamo dunque perché la giustizia e
l'amore diventino forze decisive nell'ordine del mondo. Una tale preghiera si rivolge
certamente in primo luogo a Dio, ma scuote anche il nostro stesso cuore. In fondo,
lo vogliamo davvero? Stiamo orientando la nostra vita in quella direzione? Giacomo
chiama la "legge regale", la legge della regalità di Dio, anche "legge della libertà":
se tutti pensano e vivono secondo Dio, allora diventiamo tutti uguali, diventiamo
liberi e così nasce la vera fraternità. Isaia, nella prima lettura, parlando di Dio
parla al tempo stesso della salvezza per i sofferenti, e Giacomo, parlando dell'ordine
sociale come espressione irrinunciabile della nostra fede, parla logicamente anche
di Dio, di cui siamo figli.
Ma ora dobbiamo rivolgere la nostra attenzione
al Vangelo che racconta la guarigione di un sordo-muto da parte di Gesù. Anche lì
incontriamo di nuovo i due aspetti dell'unico tema. Gesù si dedica ai sofferenti,
a coloro che sono spinti ai margini della società. Li guarisce e, aprendo loro così
la possibilità di vivere e di decidere insieme, li introduce nell'uguaglianza e nella
fraternità. Questo riguarda ovviamente tutti noi: Gesù ci indica la direzione del
nostro agire. Tutta la vicenda presenta però ancora una dimensione più profonda, che
i Padri della Chiesa hanno messo in luce con insistenza e che concerne in modo speciale
anche noi oggi. I Padri parlano degli uomini e per gli uomini del loro tempo. Ma quello
che dicono riguarda in modo nuovo anche noi uomini moderni. Non esiste soltanto la
sordità fisica, che taglia l'uomo in gran parte fuori della vita sociale. Esiste una
debolezza d'udito nei confronti di Dio di cui soffriamo specialmente in questo nostro
tempo. Noi, semplicemente, non riusciamo più a sentirlo – sono troppe le frequenze
diverse che occupano i nostri orecchi. Quello che si dice di Lui ci sembra pre-scientifico,
non più adatto al nostro tempo. Con la debolezza d'udito o addirittura la sordità
nei confronti di Dio si perde naturalmente anche la nostra capacità di parlare con
Lui o a Lui. Così, però, viene a mancarci una percezione decisiva. I nostri sensi
interiori corrono il pericolo di spegnersi. Con il venir meno di questa percezione
viene però circoscritto poi in modo drastico e pericoloso il raggio del nostro rapporto
con la realtà. L'orizzonte della nostra vita si riduce in modo preoccupante.
Il
Vangelo ci racconta che Gesù pose le dita negli orecchi del sordomuto, mise un po'
della sua saliva sulla lingua del malato e disse: "Effatà" – "Apriti!" L'evangelista
ha conservato per noi l'originale parola aramaica che Gesù allora pronunciò, trasferendoci
così direttamente in quel momento. Quello che lì viene raccontato è una cosa unica,
e tuttavia non appartiene ad un passato lontano: la stessa cosa Gesù la realizza in
modo nuovo e ripetutamente anche oggi. Nel Battesimo Egli ha compiuto su di noi questo
gesto del toccare e ci ha detto: "Effatà" – Apriti!", per renderci capaci di sentire
Dio e per ridonarci così anche la possibilità di parlare con Lui. Ma questo evento,
il Sacramento del Battesimo, non possiede niente di magico. Il Battesimo dischiude
un cammino. Ci introduce nella comunità di coloro che sono capaci di ascoltare e di
parlare; ci introduce nella comunione con Gesù stesso che, unico, ha visto Dio e quindi
ha potuto parlare di Lui (cfr Gv 1,18): mediante la fede, Gesù vuole condividere con
noi il suo vedere Dio, il suo ascoltare il Padre e parlare con Lui. Il cammino dell'essere
battezzati deve diventare un processo di sviluppo progressivo, nel quale noi cresciamo
nella vita di comunione con Dio, raggiungendo così anche uno sguardo diverso sull'uomo
e sulla creazione.
Il Vangelo ci invita a renderci conto che in noi esiste
un deficit riguardo alla nostra capacità di percezione – una carenza che inizialmente
non avvertiamo come tale, perché appunto tutto il resto si raccomanda per la sua urgenza
e ragionevolezza; perché apparentemente tutto procede in modo normale, anche se non
abbiamo più orecchi ed occhi per Dio e viviamo senza di Lui. Ma è vero che tutto procede
semplicemente, quando Dio viene a mancare nella nostra vita e nel nostro mondo? Prima
di porre ulteriori domande vorrei raccontare un po' delle mie esperienze negli incontri
con i Vescovi di tutto il mondo. La Chiesa cattolica in Germania è grandiosa nelle
sue attività sociali, nella sua disponibilità ad aiutare ovunque ciò si riveli necessario.
Sempre di nuovo, durante le loro visite "ad limina", i Vescovi, ultimamente quelli
dell'Africa, mi raccontano con gratitudine della generosità dei cattolici tedeschi
e mi incaricano di rendermi interprete di questa loro gratitudine. Anche i Vescovi
dei Paesi Baltici, venuti recentemente, mi hanno parlato di come i cattolici tedeschi
li hanno aiutati in modo grandioso nella ricostruzione delle loro chiese gravemente
fatiscenti a causa dei decenni di dominio comunista. Ogni tanto, però, qualche Vescovo
africano dice: "Se presento in Germania progetti sociali, trovo subito le porte aperte.
Ma se vengo con un progetto di evangelizzazione, incontro piuttosto riserve“. Ovviamente
esiste in alcuni l'idea che i progetti sociali siano da promuovere con massima urgenza,
mentre le cose che riguardano Dio o addirittura la fede cattolica siano cose piuttosto
particolari e di minor importanza. Tuttavia l'esperienza di quei Vescovi è proprio
che l'evangelizzazione deve avere la precedenza, che il Dio di Gesù Cristo deve essere
conosciuto, creduto ed amato, deve convertire i cuori, affinché anche le cose sociali
possano progredire, affinché s'avvii la riconciliazione, affinché – per esempio –
l'AIDS possa essere combattuto affrontando veramente le sue cause profonde e curando
i malati con la dovuta attenzione e con amore. Il fatto sociale e il Vangelo sono
inscindibili tra loro. Dove portiamo agli uomini soltanto conoscenze, abilità, capacità
tecniche e strumenti, là portiamo troppo poco. Allora sopravvengono ben presto i meccanismi
della violenza, e la capacità di distruggere e di uccidere diventa la capacità prevalente
per raggiungere il potere – un potere che una volta o l'altra dovrebbe portare il
diritto, ma che non ne sarà mai capace. In questo modo ci si allontana sempre di più
dalla riconciliazione, dall'impegno comune per la giustizia e l'amore. I criteri,
secondo i quali la tecnica entra a servizio del diritto e dell'amore, si smarriscono;
ma è proprio da questi criteri, che tutto dipende: criteri che non sono soltanto teorie,
ma che illuminano il cuore portando così la ragione e l'agire sulla retta via.
Le
popolazioni dell'Africa e dell'Asia ammirano le nostre prestazioni tecniche e la nostra
scienza, ma al contempo si spaventano di fronte ad un tipo di ragione che esclude
totalmente Dio dalla visione dell'uomo, ritenendo questa la forma più sublime della
ragione, da imporre anche alle loro culture. La vera minaccia per la loro identità
non la vedono nella fede cristiana, ma invece nel disprezzo di Dio e nel cinismo che
considera il dileggio del sacro un diritto della libertà ed eleva l'utilità a supremo
criterio morale per i futuri successi della ricerca. Cari amici, questo cinismo non
è il tipo di tolleranza e di apertura culturale che i popoli aspettano e che tutti
noi desideriamo! La tolleranza di cui abbiamo urgente bisogno comprende il timor di
Dio – il rispetto di ciò che per altri è cosa sacra. Questo rispetto per ciò che gli
altri ritengono sacro presuppone che noi stessi impariamo nuovamente il timor di Dio.
Questo senso di rispetto può essere rigenerato nel mondo occidentale soltanto se cresce
di nuovo la fede in Dio, se Dio sarà di nuovo presente per noi ed in noi.
Questa
fede non la imponiamo a nessuno. Un simile genere di proselitismo è contrario al cristianesimo.
La fede può svilupparsi soltanto nella libertà. Facciamo però appello alla libertà
degli uomini di aprirsi a Dio, di cercarlo, di prestargli ascolto. Noi qui riuniti
chiediamo al Signore con tutto il cuore di pronunciare nuovamente il suo "Effatà!",
di guarire la nostra debolezza d'udito per Dio, per il suo operare e per la sua parola,
di renderci capaci di vedere e di ascoltare. Gli chiediamo di aiutarci a ritrovare
la parola della preghiera, alla quale ci invita nella liturgia e la cui formula essenziale
ci ha donato nel Padre nostro.
Il mondo ha bisogno di Dio. Noi abbiamo
bisogno di Dio. Di quale Dio? Nella prima lettura, il profeta si rivolge a un popolo
oppresso dicendo: “La vendetta di Dio verrà” (vgl 35,4). Noi possiamo facilmente intuire
come la gente si immaginava tale vendetta. Ma il profeta stesso rivela poi in che
cosa essa consiste: nella bontà risanatrice di Dio. La spiegazione definitiva della
parola del profeta, la troviamo in Colui che è morto sulla Croce: in Gesù, il Figlio
di Dio incarnato. La sua “vendetta” è la Croce: il “No” alla violenza, “l’amore fino
alla fine”. È questo il Dio di cui abbiamo bisogno. Non veniamo meno al rispetto di
altre religioni e culture, al profondo rispetto per la loro fede, se confessiamo ad
alta voce e senza mezzi termini quel Dio che alla violenza oppone la sua sofferenza;
che di fronte al male e al suo potere innalza, come limite e superamento, la sua misericordia.
A Lui rivolgiamo la nostra supplica, perché Egli sia in mezzo a noi e ci aiuti ad
essergli testimoni credibili. Amen! **************** Sul messaggio che il Papa
ha voluto lanciare da Monaco ascoltiamo il nostro direttore generale padre Federico
Lombardi, al microfono di Sergio Centofanti:
Calorosissima
ieri pomeriggio l’accoglienza dei bavaresi, il cui entusiasmo il Papa ha voluto paragonare
a quello dei napoletani. Il viaggio è iniziato con la preghiera del Papa davanti alla
Colonna di Maria, nella Marienplatz di Monaco: Benedetto XVI ha affidato nuovamente
la Baviera alla protezione della Madre di Dio. Il servizio del nostro inviato Paolo
Ondarza: