2006-03-22 08:11:02

Eviterà la pena di morte solo se riconosciuto malato di mente l'afgano convertitosi dall'Islam al Cristianesimo


(22 marzo 2006 - RV) La notizia dall’Afghanistan è rimbalzata nei giorni scorsi in tutto il mondo: un uomo di 41 anni, Abdul Rahman, è stato condannato a morte da un Tribunale di Kabul per essersi convertito al Cristianesimo dall’Islam: hanno protestato i governi italiano, tedesco e degli Stati Uniti. Potrà salvarsi solo se sarà riconosciuto malato di mente. Il servizio di Roberta Gisotti.

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Separato dalla moglie, Rahman è stato arrestato lo scorso mese, dopo che la famiglia di lei, con la quale è in lite per la custodia dei figli, lo ha denunciato per apostasia, ovvero per aver rinnegato l’Islam. La conversione al Cristianesimo risale a 16 anni fa - ha confessato l’uomo - che ha vissuto per lungo periodo all’estero, prima in Pakistan e poi per 15 anni in Germania. Il caso ha sollevato vibrate proteste in diversi Paesi tra cui gli Stati Uniti; ieri a Roma e Berlino sono stati convocati gli ambasciatori afghani e il ministro italiano degli Esteri Fini ha deciso di porre la questione in ambito europeo. Oggi la risposta ‘sibillina’ di Kabul: “la vicenda” “deve essere affrontata dal solo potere giudiziario, che è indipendente” – ha detto il portavoce del presidente Karzai, aggiungendo che “il governo resta comunque determinato a far rispettare i diritti dell’uomo nel Paese”. Poi a fine mattinata una dichiarazione che apre alla speranza: il portavoce della Corte Suprema di Kabul ha ipotizzato che se l’uomo fosse riconosciuto malato di mente non verrebbe messo a morte.
Ma a ben leggere il Corano non troviamo condanne a morte per gli apostati, anzi troviamo scritto “Chi vuole creda, chi non vuole respinga la fede” ed ancora “A voi la vostra religione, a me la mia. La religione non può essere imposta”. Ma se il Corano non ne fa cenno, da dove trae spunto questa interpretazione del reato di apostasia? Uniche tracce - secondo esperti di islamistica - in due hadith, detti attribuiti a Maometto e tratti dalla Sunna, libro che raccoglie parole e gesta del Profeta: qui si legge “è lecito il sangue di chi abbandona la sua religione”. In proposito ascoltiamo l’opinione del professor Khaled Fouad Allam, docente di Sociologia del mondo musulmano e di Storia e istituzioni dei Paesi islamici all'Università di Trieste e di Islamistica all'Università di Urbino, editorialista de “La Repubblica”: RealAudioMP3
R. - Ci sono sempre due interpretazioni nel diritto musulmano: un’interpretazione di tipo ‘minimalista’ ed un’interpretazione di tipo ‘massimalista’. E siccome la Sharia è sovente utilizzata in questi ultimi anni nei Paesi islamici come paradigma politico, spesso l’interpretazione che domina è un’interpretazione di tipo ‘massimalista’, e questo fa sì che si utilizzi la pena di morte.
D. – Professore, ma questa interpretazione ‘massimalista’ della Sharia, che applica i testi sacri all’organizzazione della società, pone gravissime contraddizioni con i testi di diritto internazionale - che pure sono stati sottoscritti da massima parte di questi Paesi che applicano la Sharia - a partire dalla Carta delle Nazioni Unite…
R. – Certo è una contraddizione flagrante, questo mi pare evidente: è una battaglia politica ed anche culturale ovviamente che i Paesi musulmani devono assolutamente condurre. Sarà una battaglia lunga, difficile ma è la battaglia essenziale del mondo musulmano perché - come ricordava benissimo alcuni anni fa, Papa Giovanni Paolo II - “là dove non c’è libertà di religione non c’è libertà”. Mi sembra evidente che la questione della libertà religiosa è la grande questione in primo piano nel mondo musulmano, perché è una questione che in un certo senso definirà o non definirà l’accettazione di un Islam, che si vuole moderno ed anche democratico.
D. – Possiamo pensare che dietro l’alibi della religione, molti Paesi islamici nascondano l’incapacità delle classi dirigenti, sostenute da leadership religiose, di raffrontarsi con una organizzazione democratica della società?
R. - Sì, i contesti definiscono spesso purtroppo delle prassi politiche, perché ci sono poste in gioco terribili e ci sono ovviamente delle logiche di potenze che definiscono dei contrasti e delle contraddizioni molto forti all’interno di queste società.
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