Conferenza sulla povertà in Bosnia a 10 anni dagli accordi di Dayton. Intervista all'ausiliare
di Sarajevo Mons. Sudar
(11 ottobre 2005 - RV) A dieci anni dagli Accordi di Dayton, che il 21 novembre 1995
ponevano fine alla guerra nella Bosnia Erzegovina, a Sarajevo si svolge oggi una conferenza
per parlare della crescente povertà in questo Paese della ex Jugoslavia. E’ promossa
da Caritas Europa e dalla Conferenza episcopale bosniaca, con la partecipazione di
entità caritative di altre confessioni: la musulmana Merhamet, la serbo-ortodossa
Dobrotvor e l’ebraica La Benevolencija. L’obiettivo è richiamare l’attenzione su dati
preoccupanti: nel Paese balcanico la disoccupazione tocca, secondo indicatori recenti,
oltre il 40% della popolazione e l'analfabetismo il 15%, mentre un bosniaco su cinque
sopravvive con meno di un euro al giorno. Nello spirito del dialogo interreligioso,
gli organismi caritativi si confronteranno sulle difficoltà delle rispettive comunità
per poi presentare un documento finale su orientamenti e possibili strategie. Gli
Accordi di pace di Dayton, lo ricordiamo, hanno diviso la Bosnia Erzegovina in due
entità praticamente autonome: la Federazione croato-musulmana e la Repubblica serba
Srpska. La componente musulmana è maggioritaria nel Paese e la comunità cattolica
è quella che più soffre questa divisione. Ma ascoltiamo, nell’intervista di Emer McCarthy,
mons. Pero Sudar, vescovo ausiliare di Sarajevo:
********** R.
– Con gli Accordi di Dayton certamente è stata raggiunta una cosa molto importante:
è stata fermata la guerra. Però, purtroppo, questa “pace imposta” con cui è stato
diviso il nostro Paese, ha reso impossibile qualcosa che è sempre tipico dopo la guerra:
la cosiddetta ‘ripresa’, specialmente economica, ma anche sociale. Questo non è avvenuto
a causa, prima di tutto, di una ingiusta spartizione del Paese, e poi nessuno crede
che questa soluzione politica possa durare e quindi nessuno si fida di investire.
Bisogna notare che in Bosnia Erzegovina durante la guerra è stato distrutto quasi
il 75 per cento delle infrastrutture, fabbriche, tutto ciò da cui nasce l’economia.
Non c’è stata una ricostruzione. Le poche infrastrutture che sono state privatizzate,
sono anch’esse in qualche modo finite male, perché coloro che hanno comprato queste
fabbriche, che erano statali, non si fidano di investire perché la situazione politica
non è stabile proprio a causa di una soluzione che ha imposto praticamente due sistemi
politici diversi: questo ha determinato il 48 per cento della disoccupazione e non
permette una vera ripresa della vita sociale e della vita economica.
D. –
A questa Conferenza prendono parte i rappresentanti delle principali religioni in
Bosnia Erzegovina. Questo è un passo avanti?
R. – Da noi c’è, in linea di principio,
un consiglio interreligioso di cui fanno parte tutti i capi delle Chiese cristiane
e delle altre comunità religiose; questo non è qualcosa di rivoluzionario, perché
queste istituzioni umanitarie delle diverse Chiese e comunità religiose hanno collaborato
molto durante la guerra, aiutandosi a vicenda, e continuano a collaborare anche dopo
la guerra. Certamente, è un gesto significativo molto importante, però ci si pone
la domanda: cosa possono fare istituzioni del genere, se siamo incatenati da una amministrazione
imposta, un governo che fa del nostro Paese un Paese guidato dall’estero. Ben 17 miliardi
di dollari sono stati investiti in Bosnia Erzegovina, e non se ne vede nulla, perché
l’amministrazione si è mangiato tutto. I profughi che sono stati cacciati via durante
la guerra, e più del 50 per cento dei cattolici sono fuggiti, non si fidano di tornare
a causa, prima di tutto, della sicurezza che non c’è e poi della mancanza di posti
di lavoro; i giovani delle ultime generazioni cercano ancora il modo di andare via;
il 62 per cento di tutta la popolazione giovane della Bosnia vorrebbe lasciare la
Bosnia perché non vede prospettive. **********