2003-09-13 15:29:58

Dieci anni fa gli accordi di Oslo tra israeliani e palestinesi


Ha sollevato un’ondata di ‘no’ nel mondo intero il via libera – in linea di principio anche se ancora non operativo – all’espulsione del presidente dell'Autorità nazionale palestinese, Yasser Arafat, dai territori occupati.

L’annuncio, fatto due giorni fa dal governo israeliano, preoccupa soprattutto per il pericolo di vedere completamente annullata la “road map”, cioè il piano messo a punto dal cosiddetto quartetto, Usa, Ue, Onu e Russia, con l’obiettivo di far nascere entro il 2005 uno stato palestinese indipendente e sovrano, in pace con Israele.

Ma come valutare l’ipotesi dell’espulsione di Arafat? Fausta Speranza lo ha chiesto al direttore del Centro italiano per la pace in Medio Oriente, Janiki Cingoli:

R. – La questione è che, in sé, la risposta di Israele sarebbe una risposta sbagliata perché non è che espellendo Arafat risolva nessun problema. Anzi, Arafat all’estero probabilmente potrebbe influire sull’opinione pubblica mondiale ed avere una voce più forte di quanto non l’abbia chiuso nel palazzo della Mukata. D’altra parte, forse il governo israeliano pensa che così potrebbe influenzare meno direttamente gli apparati sul posto, soprattutto gli apparati di sicurezza che loro ritiene essere strettamente intrecciati con le stesse attività terroristiche, soprattutto alcuni. Quello che gli israeliani rimproverano ad Arafat è la sua doppiezza, la sua incapacità di scegliere tra opzione diplomatica ed opzione terroristica. In questo momento è molto alto l’allarme per il fatto che è ripresa la stagione del terrore, con Hamas, e quindi il tentativo coraggioso di Abu Mazen è sostanzialmente fallito, cioè il tentativo di rilanciare la scelta diplomatica, ponendo un termine al terrorismo. In questa recrudescenza del terrorismo di Hamas ha avuto probabilmente un ruolo molto pesante la scelta israeliana di riprendere gli omicidi mirati contro i leader delle organizzazioni terroristiche. Anche questa è una soluzione che – certo – non porta molto lontano perché innesca di nuovo una spirale violenza-terrore.

D. – Da parte della comunità internazionale, quale impegno è possibile oltre a questo ‘no’ all’ipotesi dell’espulsione di Arafat?

R. – In questo momento ho l’impressione che si debba andare in doppia direzione. Se i palestinesi non riescono a fermare l’escalation terroristica e se i palestinesi continuano a tollerare l’esistenza di diversi eserciti, di diverse bande armate, oltre a quelle ufficiali dell’Autorità palestinese, questa situazione non durerà a lungo. E’ molto probabile che si possa ritornare alla situazione di occupazione totale preesistente agli Accordi di Oslo. D’altra parte, questo rappresenterebbe un costo terribile per gli stessi israeliani, anche in termini economici. Diventerebbero essi responsabili di quella popolazione palestinese. Quindi, la pressione va fatta sugli israeliani perché non facciano precipitare la situazione, ma contestualmente va fatta sui palestinesi perché facciano scelte adeguate alla gravità del momento, uscendo dalla doppiezza che fino adesso ha contraddistinto l’attività e l’azione della loro leadership.

D. – Gli Accordi di Oslo sono stati firmati il 13 settembre del 1993: a dieci anni di distanza, che cosa sopravvive di quel tentativo?

R. – Credo che sopravviva il percorso fatto e poi credo che le due parti abbiano imparato a conoscersi molto meglio. Sopravvive ancora qualche barlume dell’Autorità nazionale palestinese e inoltre non è totalmente annullata l’acquisizione di capacità autonoma di dirigere se stessi nella leadership palestinese. Credo che tutti siano consapevoli che sarà ad un certo momento necessario tornare al punto in cui si è arrivati a Camp David e a Taba. Il problema è se le parti decidono di spargere un bel po’ di sangue in più per sedersi più forti al tavolo delle trattative: questo è il dubbio terribile che ci attanaglia.







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