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Sommario del 27/01/2017

Il Papa e la Santa Sede

Oggi in Primo Piano

Il Papa e la Santa Sede



Francesco: basta violenze e persecuzioni contro i cristiani

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I cristiani sono chiamati a testimoniare l’amore di Cristo anche di fronte alle violenze e persecuzioni. E’ quanto affermato da Papa Francesco nell’udienza ai membri della Commissione mista Internazionale per il dialogo teologico tra la Chiesa Cattolica e le Chiese Ortodosse Orientali. Il sangue dei martiri, ha detto il Pontefice, è ancora oggi seme di nuovi cristiani e strumento di pace e comunione. Il servizio di Alessandro Gisotti

Testimoniare Gesù anche quando si è perseguitati, quando si è vittime di atti terribili e persecuzioni. Papa Francesco ha colto l’occasione dell’incontro con la Commissione di dialogo tra cattolici e ortodossi orientali per mostrare la sua vicinanza ai tanti cristiani che oggi soffrono a causa dei fondamentalismi.

Di fronte a violenze e persecuzioni, cristiani siano uniti
“Molti di voi – ha rilevato – appartengono a Chiese che assistono quotidianamente all’imperversare della violenza e ad atti terribili, perpetrati dall’estremismo fondamentalista”:

“Siamo consapevoli che situazioni di così tragica sofferenza si radicano più facilmente in contesti di povertà, ingiustizia ed esclusione sociale, dovute anche all’instabilità generata da interessi di parte, spesso esterni, e da conflitti precedenti, che hanno prodotto condizioni di vita miserevoli, deserti culturali e spirituali nei quali è facile manipolare e istigare all’odio. Ogni giorno le vostre Chiese sono vicine alla sofferenza, chiamate a seminare concordia e a ricostruire pazientemente la speranza, confortando con la pace che viene dal Signore, una pace che insieme siamo tenuti a offrire a un mondo ferito e lacerato”.

Vicino a popolazioni provate da guerre e persecuzioni
Ancora, riecheggiando San Paolo, il Papa ha evidenziato che “se un membro soffre, tutte le membra soffrono insieme”. Si è quindi unito nella preghiera alle Chiese che soffrono, “invocando la fine dei conflitti e la vicinanza di Dio per le popolazioni provate, specialmente per i bambini, i malati e gli anziani”:

“In modo particolare ho a cuore i vescovi, i sacerdoti, i consacrati e i fedeli, vittime di rapimenti crudeli, e tutti coloro che sono stati presi in ostaggio o ridotti in schiavitù”.

Rispondere con il Vangelo alla logica della violenza
Il Papa ha così rivolto il pensiero ai tanti martiri “che hanno dato coraggiosa testimonianza a Cristo”. Essi, ha ammonito, “ci rivelano il cuore della nostra fede, che non consiste in un generico messaggio di pace e di riconciliazione, ma in Gesù stesso, crocifisso e risorto: Egli è la nostra pace e la nostra riconciliazione”:

“Come discepoli suoi, siamo chiamati a testimoniare ovunque, con fortezza cristiana, il suo amore umile che riconcilia l’uomo di ogni tempo. Laddove violenza chiama violenza e violenza semina morte, la nostra risposta è il puro fermento del Vangelo, che, senza prestarsi alle logiche della forza, fa sorgere frutti di vita anche dalla terra arida e albe di speranza dopo le notti del terrore”.

Il sangue dei martiri seme di nuovi cristiani e di pace
“Il centro della vita cristiana, il mistero di Gesù morto e risorto per amore – ha soggiunto – è il punto di riferimento anche per il nostro cammino verso la piena unità”. Ed ha affermato che la vita di martiri richiama “alla comunione, a camminare più speditamente sulla strada verso la piena unità”. “E noi – ha aggiunto a braccio – cosa aspettiamo?”:

“Come nella Chiesa primitiva il sangue dei martiri fu seme di nuovi cristiani, così oggi il sangue di tanti martiri sia seme di unità fra i credenti, segno e strumento di un avvenire in comunione e in pace”.

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Papa a delegazione ebraica: ricordare Olocausto perché non accada mai più

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Stamane, nella Giornata della Memoria delle vittime dell'Olocausto, Papa Francesco ha ricevuto una delegazione dell'European Jewish Congress. In un tweet esorta a non dimenticare mai le loro lacrime. Era presente all’incontro padre Norbert Hofmann, segretario della Commissione della Santa Sede per i Rapporti religiosi con l'Ebraismo. Ascoltiamolo al microfono di Sergio Centofanti: 

R. – Era una delegazione di cinque persone dell'European Jewish Congress che rappresenta più di due milioni di ebrei in Europa. L’incontro è andato molto bene, il Papa è stato molto aperto e c'è stata una conversazione libera.

D. – Il Papa ha detto qualcosa di particolare alla delegazione, soprattutto in questa Giornata della Memoria?

R. – Sì, certamente. Il Papa ha cominciato il dialogo menzionando questa Giornata importante per gli ebrei, ma anche per noi, perché ricordare le vittime dell’Olocausto è importante perché questa tragedia umana non si ripeta più.

D. – E da parte della delegazione ebraica?

R. – Il presidente dell'European Jewish Congress, Moshe Kantor, ha parlato dell’importanza dell’etica, dei valori cristiani ed ebrei che abbiamo in comune. Ha detto che nel nostro mondo vediamo tanti progressi, però anche una caduta dei valori morali ed etici. Quindi bisogna rinforzare questi valori che abbiamo in comune, ebrei e cristiani. E poi ha anche parlato dell’importanza dell’educazione e della famiglia. Il Papa era pienamente d’accordo con questi temi.

D. – Un incontro significativo che mostra ancora una volta quanto sia fecondo il dialogo tra cattolici e ebrei…

R. – Sì, certamente. Il Papa ha anche detto che nella sua famiglia, suo padre riceveva sempre degli ebrei; quindi lui è cresciuto in un’atmosfera favorevole agli ebrei. Parlando della sua storia personale, ha detto che c'erano sempre ebrei che andavano a visitarlo e così, già da bambino, il nostro Papa ha imparato ad avere degli amici ebrei.

D. – Quindi, un clima molto cordiale…

R. – Sì, molto cordiale. Gli ebrei alla fine erano molto soddisfatti. E poi adesso tocca a noi intensificare la collaborazione con questa organizzazione ebraica.

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Papa: la paura di tutto, il peccato che paralizza il cristiano

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Dio ci liberi dal peccato che ci paralizza come cristiani: la pusillanimità, l’aver paura di tutto, che non ci fa avere memoria, speranza, coraggio e pazienza. E’ quanto ha detto, in sintesi, il Papa durante la Messa del mattino a Casa Santa Marta. Il servizio di Sergio Centofanti

Fare memoria della salvezza di Dio nella mia vita
La Lettera agli Ebrei proposta dalla liturgia del giorno - afferma Papa Francesco - esorta a vivere la vita cristiana con  tre punti di riferimento: il passato, il presente e il futuro. Innanzitutto ci invita a fare memoria, perché “la vita cristiana non incomincia oggi: continua oggi”. Fare memoria è “ricordare tutto”: le cose buone e quelle meno buone, è mettere la mia storia “davanti a Dio”, senza coprirla o nasconderla:

“’Fratelli, richiamate alla memoria quei primi giorni’: i giorni dell’entusiasmo, di andare avanti nella fede, quando si incominciò a vivere la fede, le prove sofferte … Non si capisce la vita cristiana, anche la vita spirituale di ogni giorno, senza memoria. Non solo non si capisce: non si può vivere cristianamente senza memoria. La memoria della salvezza di Dio nella mia vita, la memoria dei guai miei nella mia vita; ma come il Signore mi ha salvato da questi guai? La memoria è una grazia: una grazia da chiedere. ‘Signore, che io non dimentichi il tuo passo nella mia vita, che io non dimentichi i buoni momenti, anche i brutti; le gioie e le croci’. Il cristiano è un uomo di memoria”.

Vivere nella speranza di incontrare Gesù
Poi l’autore della Lettera ci fa capire che “siamo in cammino in attesa di qualcosa”, in attesa di “arrivare a un punto: un incontro; incontrare il Signore”. “E ci esorta a vivere per fede”:

“La speranza: guardare al futuro. Così come non si può vivere una vita cristiana senza la memoria dei passi fatti, non si può vivere una vita cristiana senza guardare il futuro con la speranza dell’incontro con il Signore. E lui dice una frase bella: ‘Ancora un poco …’. Eh, la vita è un soffio, eh? (imita il soffio) Passa. Quando uno è giovane, pensa che ha tanto tempo davanti, ma poi la vita ci insegna che quella parola che diciamo tutti: ‘Ma come passa il tempo! Questo l’ho conosciuto da bambino, adesso si sposa! Come passa il tempo!’. Presto viene. Ma la speranza di incontrarlo è una vita in tensione, tra la memoria e la speranza, il passato e il futuro”.

Vivere il presente con coraggio e pazienza
Terzo punto, la Lettera invita a vivere il presente, “tante volte doloroso e triste”, con “coraggio e pazienza”: cioè, con franchezza, senza vergogna, e sopportando le vicende della vita. Siamo peccatori – spiega il Papa – “tutti lo siamo. Chi prima e chi dopo … se volete, possiamo fare la lista dopo, ma tutti siamo peccatori. Tutti. Ma andiamo avanti con coraggio e con pazienza. Non restiamo lì, fermi, perché questo non ci farà crescere”.

Il peccato che paralizza il cristiano: la pusillanimità
Infine, l’autore della Lettera agli Ebrei esorta a non compiere il peccato che non fa avere memoria, speranza, coraggio e pazienza: la pusillanimità. “E’ un peccato che non ti lascia andare avanti per paura”, mentre Gesù dice: “Non abbiate paura”. Pusillanimi sono “quelli che vanno sempre indietro, che custodiscono troppo se stessi, che hanno paura di tutto”:

“‘Non rischiare, per favore, no … la prudenza …’. I comandamenti tutti, tutti … Si, è vero, ma questo ti paralizza anche, ti fa dimenticare tante grazie ricevute, ti toglie la memoria, ti toglie la speranza perché non ti lascia andare. E il presente di un cristiano, di una cristiana così è come quando uno va per la strada e viene una pioggia inaspettata e il vestito non è tanto buono e si restringe la stoffa … Anime ristrette … questa è la pusillanimità: questo è il peccato contro la memoria, il coraggio, la pazienza e la speranza. Il Signore ci faccia crescere nella memoria, ci faccia crescere nella speranza, ci dia ogni giorno coraggio e pazienza e ci liberi da quella cosa che è la pusillanimità, avere paura di tutto …. Anime ristrette per conservarsi. E Gesù dice: ‘Chi vuole conservare la propria vita, la perde’”.

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Il Papa riceve i cardinali Pell e Filoni

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Il Papa ha ricevuto oggi anche i cardinali Pell e Filoni. Lo riferisce il Bollettino della Sala Stampa vaticana.

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Giornata memoria. Urbańczyk: passato sia lezione per presente e futuro

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La sofferenza, la paura e le lacrime delle innumerevoli vittime dell'odio cieco che hanno subito la deportazione, la prigionia e la morte in quei luoghi disumani e perversi non devono mai essere dimenticate. E’ quanto ha dichiarato mons. Janusz Urbańczyk, rappresentante permanente della Santa Sede presso l’Osce, intervenendo ieri a Vienna alla 1129.ma Assemblea del Consiglio permanente di questo organismo. Durante la riunione, dedicata alla Giornata internazionale di commemorazione in memoria delle vittime dell’Olocausto, che si celebra oggi 27 gennaio, mons. Urbańczyk ha anche sottolineato che quella terribile sofferenza smaschera il “completo disprezzo per la dignità di ogni persona”.

Maggiore rispetto per la dignità di ogni persona
In secondo luogo – ha detto il presule ricordando le parole pronunciate da Papa Francesco in occasione, il 17 gennaio 2016, della visita al Tempio maggiore di Roma – l’olocausto “ci insegna che occorre sempre massima vigilanza, per poter intervenire tempestivamente in difesa della dignità umana e della pace”. Si tratta di un appello - ha aggiunto - a rinnovare l’impegno per garantire “un maggiore e incondizionato rispetto per la dignità di ogni persona”. Deve anche essere riconosciuto – ha spiegato il rappresentante della Santa Sede - l’impegno di quanti, anche a rischio della loro vita, si sforzano per proteggere le persone perseguitate, “resistendo alla follia omicida che li circonda”.

Necessaria una “trasfusione della memoria”
Mons. Urbańczyk ha poi ricordato le parole dello scrittore Elie Wiesel, sopravvissuto ai campi di sterminio nazisti, secondo cui è necessaria una “trasfusione della memoria”. Abbiamo bisogno di “ricordare”, di “ascoltare la voce dei nostri antenati”. Questo – ha affermato il presule riferendosi all’esortazione apostolica di Papa Francesco “Evangeli Gaudium” - ci aiuterà a “non ripetere gli stessi errori del passato”. Ma ci aiuterà anche a riappropriarci – ha osservato mons. Urbańczyk ricordando quanto detto dal Papa in occasione, lo scorso 6 maggio, del conferimento del Premio Carlo Magno - di quelle esperienze che hanno permesso ai nostri popoli “di superare le crisi del passato”. “Il passato – ha sottolineato il presule - deve servire da lezione per il presente e per il futuro.

Non ci sia posto per l’antisemitismo in qualsiasi forma si manifesti
La Santa Sede – ha detto mons. Urbańczyk – attribuisce grande importanza all’educazione, soprattutto nelle scuole, per contrastare sia l’antisemitismo sia le tesi negazioniste dell’Olocausto. Di fronte alla barbarie della Shoah, la Comunità internazionale, gli Stati e le persone devono sforzarsi di vivere “i principi della pace, della giustizia, della solidarietà e della riconciliazione”. Devono farlo – ha detto l’osservatore permanente – per una semplice ragione. “La crudeltà – come ha detto Papa Francesco - non è finita ad Auschwitz e Birkenau”.  Questa Giornata della memoria aiuti la comunità internazionale a creare un futuro – ha concluso il presule ricordando quanto affermato dal Pontefice il 25 maggio 2014 durante la cerimonia di benvenuto all’aeroporto internazionale di Tel Aviv – in cui ”l’esclusione e lo scontro lascino il posto all’inclusione e all’incontro”.  Un futuro “dove non ci sia posto per l’antisemitismo, in qualsiasi forma si manifesti, e per ogni espressione di ostilità, discriminazione o intolleranza verso persone e popoli”.

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"In Viaggio" con Papa Francesco: nuovo libro di Andrea Tornielli

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Fatti e retroscena di tutti i viaggi internazionali di Papa Francesco fino ad oggi, raccontati da chi li ha vissuti in presa diretta come cronista. E’ quanto si propone il libro “In Viaggio” del vaticanista de “La Stampa” Andrea Tornielli, edito da Piemme. Il volume, arricchito da un’intervista con il Papa, è stato presentato ieri a Roma. Il servizio di Michele Raviart

Dalla Giornata Mondiale della Gioventù in Brasile nel 2013 alla visita a Lund per i 500 anni della riforma luterana lo scorso autunno, i sedici viaggi apostolici del Papa raccontano la metamorfosi di un Pontefice che all’inizio non amava lasciare la diocesi di Roma – “la sua sposa”. Spiega mons. Giovanni Becciu, Sostituto della Segreteria di Stato:

“Il Papa viaggia perché adesso ama viaggiare: lo dico in maniera così, provocatoria, perché agli inizi non voleva viaggiare, ma ha visto il bene enorme che fa, e come facilmente riesce a trasmettere il Vangelo. E quindi io penso che lui senta questa responsabilità di poter spezzare il pane con la gente. Già il modo di viaggiare, già la poca gente che va con lui; lo stile che ha assunto; è il vicario di Gesù: gli interessa predicare il Vangelo, non gli interessa la pompa, non gli interessano gli applausi.”

Per Francesco il momento più bello è stato quando in Armenia ha riconosciuto un’anziana signora georgiana, dalla “pelle come pergamena”, che lo aveva continuato a seguire per chilometri nei vari incontri del suo viaggio. O quando nello stadio di Kasarani in Kenya, ha invitato i settantamila presenti ad alzarsi in piedi contro il tribalismo che divide il Paese, invece di leggere il discorso che aveva precedentemente preparato. Una spontaneità che è diventata uno dei segni distintivi dei suoi viaggi. Andrea Tornielli, autore del volume:

R. - Ogni Papa ha un suo stile. La caratteristica di questo Papa è quella di scegliere là dove può scegliere, perché alcuni appuntamenti sono – diciamo così – dovuti: la Gmg, la Giornata delle Famiglie… Però, là dove può scegliere, sceglie realtà talvolta un po’ di periferia, ma dove pensa che la sua presenza possa in qualche modo essere di aiuto per favorire processi di dialogo, processi di pace, processi di sviluppo. Lo abbiamo visto nei tre Paesi periferici dell’America Latina: Ecuador, Bolivia e Paraguay. Lo abbiamo visto a Sarajevo; lo abbiamo visto a Tirana. L’altra caratteristica è come lui, così com’è, riesce ad esprimere e a testimoniare una grande prossimità nell’incontro con la gente: che questo, però, è ciò che si vede in Piazza San Pietro; e, durante i viaggi, semplicemente continua a essere se stesso.

D. – Dall’altro lato, dal lato del giornalista e dell’addetto ai lavori che segue costantemente il Papa nei suoi viaggi, qual è l’impressione?

R. – Sempre viaggiando con il Papa si riceve molto. Direi che però la cosa più bella è vedere quando il Papa, nel caso di Francesco, decide, sentendosi sfidato dalla realtà che ha di fronte, di lasciare perdere il discorso, magari pur bello, preparato per l’occasione, per rispondere con le parole che gli vengono dal cuore di fronte alla realtà che incontra in quel momento. E questo credo che sia la più bella lezione: cioè che bisogna lasciarsi ferire dalla realtà ed essere in grado di reagire, di rispondere, di dialogare e di interloquire, non attraverso schemi preparati, perché la realtà ti supera, ti fa commuovere, vedi la sofferenza, delle domande a cui non c’è risposta, come la sofferenza dei bambini… E allora lì, un gesto, una parola detta improvvisando, dal cuore, vale mille discorsi - pur se teologicamente perfetti - vale molto di più! Ed è per questo che per me l’omelia più bella di tutti i viaggi resta quella a Tacloban, nelle Filippine, quando parlò sotto la pioggia a dirotto di un minitifone in arrivo ai parenti delle vittime del tifone Yolanda.

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Jurkovič all'Oms: al bando traffico di organi e turismo dei trapianti

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“Mai nessuna vita o persona umana sia trattata come un oggetto da manipolare o  come merce “usa e getta”. Ha citato san Giovanni Paolo II, ieri l’arcivescovo Ivan Jurkovič, Osservatore permanente della Santa Sede presso l’Onu e le altre organizzazioni internazionali di Ginevra,  intervenendo nella città elvetica  al 140.mo  incontro del Consiglio esecutivo dell’Oms sul tema “Principi per un consenso globale alla donazione e alla gestione del sangue e dei prodotti medici di origine umana”. “Di fronte alle iniquità costituite dallo sfruttamento e dal traffico degli organi umani – è stato l’appello - i governi dovrebbero assumersi la responsabilità di promuovere e preservare gli standard necessari per garantire l'equità nelle pratiche di donazione e accesso al sangue e ai prodotti medici di origine umana.

I governi mettano al bando il traffico di organi e il turismo dei trapianti
Rimarcando la necessità di una convergenza internazionale sui principi che tutelano sia la dignità dei donatori e che la salute e la sicurezza di tutti i malati, il presule ha quindi ricordato l’appuntamento promosso il 7 e l’8 febbraio prossimi in Vaticano dalla Pontificia Accademia delle Scienze sul tema del Traffico di Organi e Turismo dei trapianti con l’obbiettivo di esaminare tali piaghe e chiedere alle autorità internazionali di lavorare per una loro risolutiva messa al bando ed eradicazione

Ricordato l’appello del Papa a porre fine all’esclusione sociale
L’Osservatore Permanente della Santa Sede ha quindi fatto presente l’esortazione di Papa Francesco ai leader mondiali affinché compiano passi concreti e costanti per porre fine al fenomeno dell’esclusione sociale ed economica e alle sue nefaste conseguenze, prime fra tutti il traffico di esseri umani e il mercato di tessuti e organi umani. Fondamentale quindi tutelare le persone che non hanno accesso alle necessarie medicine di origine umana, ma allo stesso modo è prioritario contrastare lo sfruttamento degli esseri umani, appartenenti spesso ai gruppi sociali più svantaggiati e vulnerabili.

Promuovere la responsabilità dell’amore e della carità
Necessario anche promuovere e preservare  alti standard di cure mediche, garantire una disponibilità affidabile ed un’equità nelle pratiche di donazione e accesso ai prodotto medici di origine umana, tutelare la riservatezza delle persone coinvolte e proteggere i soggetti coinvolti dai rischi fisici e psicosociali derivanti da tali pratiche. “Ancora più importante – conclude – mons. Jurkovič – è forse la necessità di riconoscere e promuovere” quella che Benedetto XVI ha definito “la responsabilità dell'amore e della carità, che impegna a fare della propria vita un dono per gli altri, se si desidera davvero realizzare se stessi”.  (A cura di Paolo Ondarza)

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Oggi in Primo Piano



Muro Usa-Messico. Peña Nieto annulla incontro alla Casa Bianca

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Bisogna costruire ponti, non muri. Così la Conferenza episcopale degli Stati Uniti risponde alla decisione del Presidente Trump di completare il muro con il Messico. Intanto il Presidente messicano Peña Nieto ha annullato l'incontro previsto alla Casa Bianca per martedì prossimo. Massimiliano Menichetti:

 

Sfruttamento e sofferenza. E’ questo che porterà secondo i vescovi statunitensi il completamento del muro, innalzato durante la presidenza Clinton nel 1994, con il Messico deciso dal presidente Trump. Per l’episcopato americano, che invita a costruire ponti e non barriere, la “vita degli immigranti” sarà messa “in pericolo” e si incrementeranno “trafficanti e contrabbandieri”, “destabilizzando molte comunità che vivono pacificamente lungo il confine”. Sulla stella linea i vescovi messicani. Intanto sale la tensione tra i due Paesi. Il Capo si Stato messicano Peña Nieto, ha annullato l'incontro previsto alla Casa Bianca per la prossima settimana. Cerca di buttare acqua sul fuoco Trump, che dalla conferenza dei parlamentari repubblicani a Filadelfia, precisa: “la cancellazione dell'incontro" è stata concordata. Su tutto però rimane il “no” di Pena Nieto al pagamento della barriera tra i due Stati come invocato dal magnate americano che ha subito annunciato l'ipotesi di dazi doganali del 20% sulle merci messicane per finanziare proprio la barriera. In questo contesto il Brasile mostra preoccupazione e si registra l’irrigidimento di Cuba. Intanto sul internet sono diventai virali gli hashtag #NoBanNoWall e #RefugeesWelcome.

In questo quadro c’è chi parla di crisi diplomatica aperta. Ai nosti microfoni il prof. Loris Zanatta, esperto di America Latina: 

R. – La crisi diplomatica c’è, perché l’incontro tra i due Presidenti è stato sospeso; è anche una crisi prevista: era ipotizzabile che Trump avrebbe dato seguito a quello che è stato uno dei suoi simboli, in campagna elettorale, e cioè il famoso muro. Detto ciò, io aspetterei a trarne conseguenze definitive, nel senso che ai fatti poi bisogna vedere come andrà avanti questo conflitto, perché il Messico è il Paese più importante per gli Stati Uniti, e che lo capisca Trump o che glielo facciano capire i suoi consiglieri, penso che a breve ci si renderà conto che destabilizzare il Messico è l’ultima cosa che convenga agli Stati Uniti.

D. – Ma dunque, potremmo assistere a una marcia indietro reale, e quindi non si proseguirà il muro già costruito da Clinton nel 1994?

R. – Benché non sia immaginabile una marcia indietro, che ovviamente lo esporrebbe a una figuraccia internazionale, mi piace pensare che al di là degli slogan e delle grandi battute, che poi fanno effetto sui media internazionali, piano piano con il governo del Messico si arriverà a qualche forma di compromesso, anche perché in Messico presto si vota e l’eventualità di avere in Messico la vittoria di un fronte visceralmente nazionalista e anti-americano francamente non vedo come possa convenire agli Stati Uniti …

D. – Professore, ci sono precedenti storici in questo senso?

R. – Questo è difficile da dire, perché personaggi come Trump non li abbiamo mai visti e quindi siamo davanti a una novità storica. Il muro, finora, è un muro parziale; in parte ha funzionato, in parte è facilmente aggirabile: molto dipende dalla volontà politica del governo degli Stati Uniti. Il muro eliminerebbe l’emigrazione? No. La renderebbe più pericolosa, ci sarebbero più morti ma non eliminerebbe l’emigrazione. Tra l’altro, benché si parli tanto del caso messicano, forse sarebbe bene che l’opinione pubblica sapesse che negli ultimi due-tre anni, in realtà, sono molti più i messicani rientrati dagli Stati Uniti in Messico che quelli andati dal Messico negli Stati Uniti. Viceversa, nessuno parla – per esempio – dei migranti cubani, che continuano a scappare da Cuba in grandissimo numero, che sono sparsi per tutti i Paesi dell’America Latina, in particolare a Panama e che ora si trovano – con il cambiamento della legge introdotto da Obama prima di andarsene – davanti alla difficoltà di accedere al territorio degli Stati Uniti. E’ un problema che riguarda un po’ tutti i Paesi latinoamericani, non solamente il Messico.

D. – Lo ricordiamo: la legge a cui si riferisce è quella che riconosceva automaticamente la cittadinanza americana, una volta toccato il suolo …

R. – Sì in spagnolo: Pies secos, pies mojados.

D. – La preoccupazione del Brasile, l’attendismo del Cile, Cuba dice: “Non accetteremo diktat”: cosa sta succedendo in quell’area?

R. – Lasciando a parte il caso cubano, che è a se stante e per il quale è difficile parlare di irrigidimento di Cuba dal momento che Cuba è sempre stata molto rigida, ma negli altri Paesi dell’America Latina la preoccupazione per queste politiche di Trump è una preoccupazione che antecede la sua elezione. Ciò che preoccupa sono essenzialmente due cose. Una è di tipo commerciale, e cioè l’apertura commerciale che ha giovato molto ai Paesi latinoamericani negli ultimi 20 anni; quindi, la chiusura protezionista degli Stati Uniti produrrebbe danni enormi. La seconda conseguenza è più di tipo politico, perché ovviamente se il messaggio che arriva dagli Stati Uniti non è un messaggio favorevole alla liberaldemocrazia che si è così tanto diffusa in America Latina, c’è da ipotizzare che tutti i governi sinceramente liberaldemocratici saranno i primi a patirne. Infatti, paradossalmente, di questa politica di Trump, questo nuovo nazionalismo di Trump potrebbero giovarsi quei governi come quello venezuelano, quello cubano che viceversa sulla chiusura e sull’anti-americanismo hanno sempre scommesso.

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Messico: dolore e rifiuto dei vescovi per la costruzione del muro

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"Esprimiamo il nostro dolore e il rifiuto della costruzione di questo muro, e rispettosamente invitiamo tutti a fare una riflessione più approfondita sui modi attraverso i quali si può garantire la sicurezza, lo sviluppo, la creazione di posti di lavoro e altre misure necessarie ed eque, senza causare ulteriori danni a coloro che già soffrono, i più poveri e i più vulnerabili": così si legge nel comunicato della Conferenza episcopale messicana (Cem) pubblicato ieri e ripreso dall'agenzia Fides.

Siano salvaguardati la dignità e il rispetto" dei migranti
"Noi continueremo a sostenere in modo stretto e solidale tanti nostri fratelli che vengono dal Centro e dal Sud America, che attraversano il nostro Paese verso gli Stati Uniti" è scritto nel comunicato dell'episcopato messicano, che si conclude invitando le autorità del Paese a "continuare nella ricerca di accordi" con il Paese vicino, perché  alla fine "siano salvaguardati la dignità e il rispetto" dei migranti, che cercano solo migliori opportunità di vita.

Impegno dei vescovi messicani in piena sintonia con i presuli statunitensi
Il comunicato è firmato da mons. Guillermo Ortiz Mondragón, vescovo di Cuautitlán, quale presidente della Commissione episcopale per la Mobilità umana della Cem. Nel testo viene sottolineato che l'impegno dei vescovi messicani è in piena sintonia con la Commissione episcopale per le Migrazioni degli Stati Uniti, che si è espressa allo stesso modo alla notizia della costruzione del muro con la frontiera messicana. (C.E.)

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Giornata della Memoria: una tragedia per tutta l'umanità

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La “Shoah è una lezione “terribile che richiama le coscienze, occorre vigilare sui nuovi germi di intolleranza”. Così il presidente della Repubblica Mattarella durante la cerimonia al Quirinale in occasione della Giornata della Memoria. 72 anni fa, esattamente il 27 gennaio del 1945, le truppe dell'Armata Rossa entravano nel campo di concentramento e sterminio di Auschwitz nella Polonia meridionale, liberando i pochi prigionieri sopravvissuti ai nazisti e mostrando al mondo il più atroce orrore dell’umanità. E’ questo che sin dal 2000, con mostre, film, cerimonie e racconti si vuole ricordare. Il servizio di Gabriella Ceraso

“Voi, che vivete sicuri nelle vostre case,
voi che trovate, tornando a sera, il cibo caldo e visi amici,
considerate se questo è un uomo …” (Primo Levi)

C’era ben poco che facesse pensare a esseri umani, al di là dei cancelli di Auschwitz. Scheletri marchiati da numeri, donne, bambini, uomini per lo più nudi, affamati, pietrificati dalla paura. Tra la fine degli anni '30 e il ’45, in Europa furono deportati e uccisi circa 6 milioni di ebrei e con loro anche rom, disabili, omosessuali, oppositori politici, testimoni di Geova: tutte categorie indesiderate. Un progetto di eliminazione di massa creato dalla confluenza di diversi fattori, spiega Claudio Procaccia, direttore del Dipartimento di Cultura ebraica di Roma:

“Diciamo, l’antigiudaismo storico, le nuove teorie razziste ma anche fenomeni di carattere sociale e culturale più ampio, antropologico, cioè la comparsa delle masse nello scenario politico internazionale, quindi la paura dell’altro sul piano psicologico, teorie scientifiche sbagliate, la crisi economica e l’idea – appunto – dell’ebreo che comunque viene percepito come colui che è contro per definizione perché non riconosce l’autorità”.

Quel 27 gennaio i nazisti se n’erano già andati, portando con sé le persone più sane, molte delle quali morirono durante la marcia. Settemila i prigionieri, i cosiddetti sopravvissuti, ancora in vita, che da subito apparvero segnati, e per sempre, da quella esperienza: molti erano bambini …

“La kapò della baracca disse: ‘Ma voi, dove credete di essere arrivati? In un luogo di vacanza? Non sapete che siete in un lager di sterminio?’”.

“Io facevo il barbiere; veramente, avevano chiesto chi era barbiere, io avevo detto ‘barbiere’, pensando di tagliare i capelli a quelli … invece, era di tagliare i capelli ai morti …”.

“Uscivamo alla mattina dal campo, lasciando indietro il crematorio, le camere a gas, le compagne in punizione, i mucchi di scheletri fuori dal crematorio pronti per essere bruciati. Io non guardavo …”.

Goti Bauer, Liliana Segre, Samuel Modiano: è attraverso la loro testimonianza che oggi conosciamo i dettagli della Shoah, che non può essere dimenticata. E non per pietà, dice Ruth Dureghello, presidente della Comunità ebraica di Roma:

“Serve accompagnare questi momenti a gesti concreti, servono prese di posizioni chiare e nette, serve una coscienza civica comune che maturi nel senso della memoria. Perché la memoria non è solo quella del popolo ebraico: è una tragedia per l’umanità. E dobbiamo essere consapevoli che i pericoli esistono e che soprattutto a quei valori che ci rendono comuni e uguali nel mondo, non possiamo assolutamente mai permettere di rinunciare”.

Ma si può avere fiducia nelle nuove generazioni? Ancora Ruth Dureghello:

“Molto più di quanto uno non si aspetti. C’è una generazione di persone che vogliono capire un po’ di più e che si pongono in maniera critica: su questi dobbiamo lavorare. Anche perché, purtroppo, sono loro che utilizzano gli strumenti del web o dei social che troppo spesso, invece, sono oggetti [strumenti?] di diffusione di odi e di differenze”.

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Iraq: visita Patriarca Sako sulla Piana di Ninive riconquistata dall'esercito

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Nella giornata di ieri, una delegazione della Chiesa caldea guidata dal Patriarca Louis Raphael I Sako ha visitato l'area della Piana di Ninive da poco riconquistata dall'esercito governativo, accolta anche da rappresentanti politici locali. A Telkaif, nella chiesa del Sacro Cuore - dove è stata anche ricollocata la croce sulla cupola, in precedenza divelta dai jihadisti - il Patriarca caldeo - riporta l'agenzia Fides - ha guidato un momento di preghiera per invocare il dono della pace in tutta la regione e il sollecito ritorno dei rifugiati alle proprie case.

Fondi per il ripristino di case e chiese danneggiate o distrutte dall'Is
Il Patriarcato caldeo riferisce che sono stati costituiti dei comitati e stanziati i primi fondi – messi a disposizione dallo stesso Patriarcato e dalle singole diocesi caldee in Iraq - per un ammontare di quasi 500 milioni di dinari iracheni (pari a più di 380mila euro), per accelerare il ripristino di abitazioni e chiese danneggiate o distrutte durante gli anni di occupazione jihadista, e così consentire il rientro di quanti desiderano tornare alle proprie case, abbandonate tra il giugno e l'agosto 2014 davanti all'avanzata delle milizie dell'auto-proclamato Califfato Islamico.

Batnaya è la cittadina più devastata dall'occupazione jihadista
In un messaggio diffuso ieri attraverso i media del Patriarcato, si fa appello alla generosità delle parrocchie e alle comunità caldee sparse in tutto il mondo affinchè si facciano carico del sostegno finanziario ai progetti di ricostruzione e ripristino delle condizioni di vivibilità nelle città liberate della Piana di Ninive. Secondo dati forniti dallo stesso Patriarcato, e pervenuti alla Fides, le prime ricognizioni hanno mostrato che Batnaya è la cittadina più devastata durante l'occupazione jihadista, e poi durante gli scontri che hanno portato all'espulsione delle milizie del califfato. Altre città, come Tesqopa e la stessa Telkaif, hanno subito meno danni.

A Telkaif l'incontro con una donna cristiana tenuta nascosta da una famiglia musulmana
Proprio a Telkaif le truppe governative, quando hanno ripreso il controllo della città, hanno trovato una donna cristiana di 60 anni, Georgette Hanna, che nell'agosto 2014 non era riuscita a fuggire insieme agli altri membri della sua famiglia, e da allora aveva trovato rifugio presso una famiglia di vicini musulmani, che per tutto questo tempo l'hanno accudita, tenendola nascosta presso la propria abitazione. (G.V.)

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Siria. Mosca: colloqui di Ginevra rinviati. Onu non conferma

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È giallo sui negoziati di pace di Ginevra dedicati alla Siria, in programma l’8 febbraio. Stamani a Mosca, in un vertice con esponenti dell’opposizione siriana, il ministro degli Esteri russo Serghei Lavrov ha annunciato un rinvio della conferenza alla fine del prossimo mese, criticando le Nazioni Unite per quella che ha definito una “passività inaccettabile”. Mentre sul terreno si registrano ancora 10 civili uccisi in bombardamenti turchi su postazioni jihadiste nella zona di Al-Bab, da New York l’Onu non ha confermato lo slittamento degli incontri in Svizzera: annunciate per la prossima settimana consultazioni al riguardo tra l'inviato speciale Staffan de Mistura e il Segretario generale Antonio Guterres. Il commento di Luciano Bozzo, docente di Relazioni internazionali all’università di Firenze, intervistato da Giada Aquilino

R. – Mosca sta tentando di mettere in pagamento, e quindi di ottenere, i vantaggi sperati dall’intervento ormai prolungato sul teatro siriano, approfittando dell’incertezza o addirittura dell’assenza di iniziativa – intendo negli ultimi anni – di altri attori di livello globale, a cominciare dagli Stati Uniti. La divergenza di opinioni, se non il contrasto con la posizione delle Nazioni Unite, ovviamente è frutto di questa situazione e rende il problema abbastanza fluido, al momento. La Federazione Russa vuole assumere il ruolo non soltanto di attore partecipe, presente nel conflitto, ma anche di grande mediatore in modo poi da poter giocare un ruolo di primo piano nel riassetto dell’area mediorientale, che inevitabilmente seguirebbe ad un’eventuale fine - che non mi pare probabile in tempi brevi - del conflitto armato in Siria.

D. – In questa direzione vanno le dichiarazioni di Lavrov, che ha parlato di “passività inaccettabile” delle Nazioni Unite?

R. – Accusando le Nazioni Unite di passività, la Russia si accredita appunto quale grande mediatore, quale foro ospite delle parti, in vista di un accordo negoziato sulla Siria. Le Nazioni Unite sono state prontamente tenute al margine; lo stesso Staffan de Mistura più di una volta si è lamentato di questa condizione in cui forzatamente si sono venuti a trovare i mediatori dell’Onu.

D. – Nei giorni scorsi, la Russia aveva fatto circolare una bozza di Costituzione siriana con l’eliminazione della parola “araba” dalla denominazione di “Repubblica siriana”. I curdi ne hanno presentata un’altra, che prevede uno Stato federale. Quale potrebbe essere la via?

R. – La via dello Stato federale in una situazione come quella siriana potrebbe apparire preferibile, semplicemente perché nel Paese sono presenti comunità diverse – sunniti, alawiti, curdi, per rimanere alle maggiori e a quelle più note – e, in considerazione delle divisioni createsi e approfonditesi terribilmente durante questi anni di guerra civile, penso che un qualsiasi assetto minimamente stabile futuro della Siria non potrà prescindere dal riconoscimento delle autonomie e dei diritti di queste componenti etniche. Resta da vedere se un assetto di questo genere sia accettabile dai siriani e soprattutto dagli attori esterni coinvolti: sto pensando in particolare alla Turchia, sto pensando agli alawiti, che sono una minoranza numericamente relativamente assai poco consistente nel Paese ma che in Siria hanno storicamente giocato, i questi ultimi decenni, un ruolo politico molto importante: hanno mantenuto un’egemonia politica sul Paese e gli Assad sono evidentemente espressione di quella comunità. Allora, un progetto di Costituzione federale dello Stato penso che si scontrerebbe contro questo tipo di resistenze. D’altra parte, abbiamo alle spalle l’esperienza irachena, in cui un assetto federale è stato realizzato, ma ha immediatamente scatenato la reazione dei sunniti nei confronti degli sciiti poiché i sunniti erano abituati a mantenere la leadership, l’egemonia politica in quel Paese.

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Israele concede status di rifugiati a 100 bambini siriani orfani di guerra

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100 bambini siriani, orfani a causa della guerra, saranno accolti da Israele che concederà loro lo status di rifugiati con residenza temporanea e la possibilità che essa diventi permanente. Lo rende noto dal suo sito, l’ambasciata di Israele in Italia che informa che questo “atto ufficiale segue una decisione presa dal ministro dell’Interno, Aryeh Deri, e consentirà ai bambini di diventare residenti permanenti dopo quattro anni, con la possibilità di rimanere in Israele per il resto della loro vita. Potranno essere presi in considerazione, per ricevere lo status di rifugiato in Israele, anche parenti più stretti degli orfani”. Questi ultimi - riporta l'agenzia Sir - “saranno assegnati presumibilmente a famiglie arabe israeliane.Il governo sta ora collaborando con importanti organizzazioni internazionali per portare i bambini nel Paese”. 

Aiuti umanitari israeliani per cittadini e profughi siriani
Sempre dal sito dell’ambasciata si apprende, inoltre, che sono “oltre 2.500 i siriani curati in ospedali israeliani dal 2013, nonostante i due Paesi siano formalmente in stato di guerra dal 1948. A volte, alcune donne siriane in stato di gravidanza viaggiano verso il confine per poter partorire in Israele, e i medici israeliani hanno operato giovani pazienti siriani con tecniche all’avanguardia che hanno consentito ai pazienti di tornare a camminare di nuovo”. Una campagna di raccolta fondi israeliana per i rifugiati siriani ha raggiunto “la cifra di 350.000 dollari lo scorso mese”. (R.P.)

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Sisma in Centro Italia: promessi aiuti, ma nei paesi c'è sconforto

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Nelle terre colpite dal terremoto, oggi giornata di digiuno. La proposta è arrivata dal vescovo di Spoleto Norcia mons. Renato Boccardo affinché, ha detto, “si calmino le forze della natura”. Nel nord del Lazio, nelle Marche e in Umbria si attendono le casette, e il ministro dell’Economia Padoan ha promesso che il Governo procederà con nuove "misure concrete" per il sisma già dalla prossima settimana. Alessandro Guarasci

Lo scontento nelle terre colpite dal terremoto di agosto e ottobre lo si respira nell’aria. Chi è voluto rimanere in queste zone e non è ospitato da amici o parenti che hanno la casa intatta, per lo più è costretto a stare nelle roulotte o in alloggi di fortuna. In tanti casi le macerie non sono state rimosse o laddove sono passate le ruspe è stata fatta tabula rasa. Per molti abitanti, c’erano abitazioni che potevano essere salvate, messe in sicurezza, eppure sono state abbattute. E’ una disperazione che mercoledi ha portato in piazza a Roma migliaia di abitanti di quelle zone per chiedere che si cominci a parlare di ricostruzione. Stefano Petrucci, sindaco di Accumoli:

“Io penso che i cittadini da un lato, noi istituzioni dall’altro, stiamo spronando il governo centrale affinché si possano mettere in campo delle norme più pratiche per affrontare quest’emergenza; perché quest’emergenza sta prendendo il sopravvento, e anzi già lo ha preso, perché ecco… più scosse in diversi periodi, a distanza di mesi; la nevicata eccezionale…Quindi una serie di circostanze che comunque fanno sì che tutte quelle attività che abbiamo messo in campo, e che stiamo portando avanti con molta fatica, non riescano ad avere ancora oggi dei risultati”.

Già prima del terremoto quelle erano terre con una disoccupazione oltre il 12% della forza lavoro, con punte fino al 14%. Ora le autorità locali stanno, a fatica, predisponendo piani per far ripartire l’economia locale, puntando sulle poche aziende rimaste in piedi. Ancora Petrucci:

“Non si sono fermate quelle che avevano le agibilità e le agibilità parziali. Le altre ancora non sono ripartite: contiamo di farle ripartire per metà primavera, delocalizzando nell’area commerciale provvisoria queste attività che erano nel centro storico di Accumoli”.

Terre che hanno basato il loro vivere quotidiano sull’agricoltura, sull’allevamento. David Granieri, presidente di Coldiretti Lazio:

“La produzione di latte è calata anche del 50%. Ciò significa che il modello di sostenibilità economica che quelle aziende hanno messo in piedi ormai da decenni non è più praticabile, perché non si riesce nemmeno a coprire le spese ordinarie di un’azienda anche molto piccola”.

Eppure è un modello di sviluppo che non va abbandonato, anche per non perdere tradizioni e legami col territorio. Ancora Granieri:

“Non solo abbiamo l’onere e il dovere di contribuire a ricostruire le infrastrutture - e quindi le stalle, gli immobili, le case - ma la sfida più grande, secondo noi, è sicuramente quella di poter ricostruire il modello economico con un progetto che sia strategico e innovativo, ma che possa dare ristoro immediato a quelle aziende che, per scelta presa, hanno deciso di rimanere in quei territori”.

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Comunità di Bose: Enzo Bianchi lascia la guida, Luciano Manicardi priore

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Dopo 52 anni alla guida della Comunità di Bose, il fondatore, della famiglia monastica, Enzo Bianchi, all’età di quasi 74 anni, ha lasciato la carica di priore. Per ricoprire questo ruolo i confratelli hanno scelto Luciano Manicardi, già vicepriore. Il servizio di Giancarlo La Vella

Enzo Bianchi si fa da parte e lascia il ruolo di priore della comunità monastica piemontese, che fondò nel 1965, pur rimanendone un punto di riferimento importante. Sui motivi della decisione, dovuta a un naturale avvicendamento, sentiamo lo stesso Enzo Bianchi:

R. - È bene che un fondatore mostri anche che la comunità che lui ha generato, ha plasmato, è una comunità che appartiene al Signore e non a lui. Quindi, non ho mai pensato di poter arrivare fino alla morte con quest’incarico. E quando ho visto che la Comunità era matura, nei mesi scorsi abbiamo avuto l’approvazione ecclesiastica dello Statuto, e io ho detto che ormai era venuto il tempo.

D. – Ecco, una decisione che conferma l’unità della Comunità e anche quelle che sono le vostre priorità…

R. – Non abbiamo davvero nessun orgoglio spirituale, perché conosciamo le nostre mancanze. Ma noi vogliamo essere una Comunità che tenta di vivere il Vangelo, nient’altro. Tutto il resto è secondario, e questo ci dà molta gioia.

D. – È ancora attuale l’esperienza del monachesimo oggi?

R. – Nel nuovo millennio la crisi veramente tocca tutti i monasteri, e molti monaci si sentono anche un po’ abbandonati e dimenticati. Quindi io penso che noi monaci siamo dei marginali, e che questa è la nostra vocazione - stare sui confini - e che quindi c’è un’occasione in più di essere fedeli al Vangelo. Però, mi rattrista il vedere questa grande crisi della vita monastica, questa continua diminuzione di vocazioni e di fedeltà e l’invecchiamento di molte comunità che devono semplicemente chiudere perché non riescono più neanche ad assicurare il minimo della vita monastica quale la Liturgia.

D. – Un augurio al suo successore…

R. – L’augurio che gli faccio è di essere misericordioso sempre. Perché anche la saldezza e il discernimento, senza la misericordia, non servono a una vita cristiana e restano sterili.

Enzo Bianchi ha passato il testimone a Luciano Manicardi, già vicepriore e da 35 anni nella Comunità, eletto dai confratelli di Bose. Ascoltiamo le sue emozioni nell’assumere il ruolo di priore:

R. – Enzo Bianchi non ha successore, essendo un fondatore, una personalità che anche negli ambiti ecclesiali è ormai ben conosciuta per la sua statura umana, intellettuale, ecclesiale e di fede. Detto questo, credo che la consonanza che si è stabilita fra me e chi presiede già da molti anni - essendo io in Comunità da più di 35 anni - credo che possa assicurare una continuità nel cammino di quella che vuole essere una vita monastica. Una vita monastica è una vita in cui si cerca di vivere il celibato nella vita comunitaria, con il proprium della Comunità di Bose: vale a dire l’accentuata dimensione di ecclesialità, l’accentuata dimensione di ecumenismo e una grande apertura alle istanze del mondo, che si esprime soprattutto nel lavoro dell’ospitalità, ma poi anche con i tanti servizi che cerchiamo di fare all’interno della Chiesa.

D. – Una società, quella di oggi, che presenta tante sfide. Come la Comunità di Bose partecipa a cercare di affrontarle?

R. – Credo che una dimensione della vita cristiana, e dunque anche monastica, sia quella di cercare di rendersi cosciente del mondo in cui vive e dunque di ascoltare le voci del mondo culturale, e – ripeto – anche della cultura laica e delle problematiche che si stanno vivendo, per cercare di dare sempre uno sguardo ispirato al Vangelo.

D. – Personalmente, come ha accolto questo incarico?

R. – Conoscendo i miei limiti. Eh sì, insomma… la dimensione del timore certamente è quella predominante. Al tempo stesso, si può cercare di vivere il Vangelo e di seguire il Signore anche all’interno di un incarico che viene dato, contando soprattutto sulla collaborazione, la solidarietà e la comunione dei fratelli e delle sorelle della Comunità.

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Chiesa keniana: l'estremismo islamico colpisce i cristiani

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“Nonostante nel corso degli anni siamo stati testimoni di una notevole crescita della fede cristiana in Kenya, le sfide non sono mancate. I keniani sono stati vittime di attacchi terroristici da parte di estremisti islamici, i quali hanno preso di mira principalmente i cristiani”. Mons. Paul Kariuki Njiru, vescovo della diocesi keniana di Embu, in una conversazione con Acs-Italia descrive così, in sintesi, le luci e le ombre che la comunità cristiana della nazione africana sta sperimentando. Dopo aver ricordato i “barbari attacchi” al centro commerciale Westgate di Nairobi (2013), al Garissa University College (2015), e il più recente, verificatosi nella provincia di Mandera (2016), il presule nota che “si attaccano solo i cristiani al fine di inserire una sorta di ‘cuneo’ fra gli stessi cristiani e i musulmani”, tentando di far apparire questi ultimi come “simpatizzanti di al Shabaab.”. Ciò costituisce una “situazione molto pericolosa, che facilmente può causare conflitti religiosi.”. Per questo motivo, per l’episcopato cattolico keniano “il dialogo con i leaders cristiani e musulmani in Kenya è di primaria importanza allo scopo di garantire una comune e coraggiosa denuncia della violenza, in particolare quella commessa in nome di Dio.”.

Più a rischio le diocesi confinanti con la Somalia
Secondo mons. Kariuki Njiru “il governo sta facendo del suo meglio nel garantire la sicurezza. Gli attacchi non si verificano in ogni parte del territorio keniano. Nella mia diocesi di Embu per esempio non ci sono stati attacchi, ma la situazione è molto diversa nelle diocesi confinanti con la Somalia, o in quelle del nord e del nord-est. Queste aree sono maggiormente esposte ad attacchi terroristici, e in esse lo Stato ha intensificato i controlli. I luoghi di culto sono di norma sorvegliati. Ma nonostante queste lodevoli iniziative assunte dalle autorità gli attacchi si verificano ancora”. 

Programma del governo per la sicurezza delle aree urbane
Per questo motivo, nota il presule, “la sicurezza non può essere affidata alle sole autorità statali. I keniani stessi sono diventati più consapevoli, e riferiscono alla polizia di chiunque possa rappresentare una minaccia. Il governo infatti ha varato un programma per le aree urbane, denominato “nyumba kumi”, che in Swahili letteralmente significa “dieci case”. Ha lo scopo di responsabilizzare i cittadini, coinvolgendoli nelle questioni riguardanti la loro stessa sicurezza. Ognuno infatti dovrebbe conoscere i vicini presenti in almeno ‘dieci case’, e se viene notata qualche persona sospetta viene segnalata alle autorità.”.  

In molte diocesi a causa della siccità mancano cibo ed acqua
 Ma non ci sono solo problemi di sicurezza. Nonostante la Chiesa in Kenya “stia imparando ad essere autonoma”, ci sono diocesi che “hanno bisogno di essere sostenute. Sono quelle presenti nelle aree desertiche o semi-desertiche. Metà della mia diocesi, Embu, è semi-desertica. I cristiani di queste aree, nonostante la buona volontà di sostenere la Chiesa, non sono nelle condizioni di farlo, perché a causa della siccità mancano anche di cibo e acqua.”. Per questi motivi mons. Kariuki Njiru conclude con un pensiero rivolto ai benefattori di Aiuto alla Chiesa che Soffre, manifestando apprezzamento per “il lavoro e le iniziative della Fondazione pontifica che in Kenya ha realizzato progetti per un totale di circa 850mila euro (M.T.)

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Croazia e Bosnia ed Erzegovina: vescovi in Assemblea congiunta

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I vescovi della Croazia e della Bosnia ed Erzegovina si sono riuniti nella loro 19.ma Assemblea congiunta, ospitata a Zagabria. L’incontro – riferisce una nota della Conferenza episcopale croata – è stato presieduto da mons. Želimir Puljić, presidente dei vescovi croati, e dal card. Vinko Puljić, omologo per la Bosnia ed Erzegovina. Tramite il nunzio apostolico in Croazia, l’arcivescovo Alessandro D’Errico, ai partecipanti è giunto inoltre il saluto e la benedizione di Papa Francesco.

I fedeli emigrati non dimentichino la loro patria
Numerosi in temi in agenda: in primo luogo, ci si è soffermati sui fedeli originari di entrambi i Paesi ed emigrati altrove, che sono stati esortati a non dimenticare la loro patria e a dare “una coraggiosa testimonianza della fede in Dio e della fedeltà alla Chiesa cattolica là dove hanno costruito una nuova casa”. Al contempo, i presuli hanno espresso apprezzamento e gratitudine per i “numerosi sacerdoti, religiosi e operatori pastorali che proclamano il Vangelo in tante parti del mondo”.

Sostenere le comunità più in difficoltà
In secondo luogo, l’Assemblea congiunta ha riflettuto sull’operato della Caritas in Croazia e in Bosnia ed Erzegovina, ricordando alcune iniziative particolarmente significative come la “Domenica della solidarietà” grazie alla quale numerose parrocchie hanno sostenuto comunità con pochi fedeli o distrutte dal conflitto nei Balcani, dimostrando “il desiderio della Chiesa di sopravvivere e di vivere con dignità” anche là dove tante popolazioni sono state costrette ad emigrare.

Rafforzare i legami spirituali
“I vescovi – si legge nella nota – esortano i fedeli a provvedere al sostentamento dei più deboli e dei più bisognosi, come già avvenuto in tempo di guerra, ed a perseverare in questo compito anche in tempo di pace affinché i legami reciproci divengano una vera benedizione per chi dà e per chi riceve”. In particolare, i presuli raccomandano il rafforzamento di “legami spirituali e di preghiera che contribuiscono al miglioramento della Chiesa e della società”.

Avviare beatificazione per i martiri dei sistemi totalitari
Un’ulteriore riflessione i presuli l’hanno dedicata al ritrovamento dei martiri di entrambi i Paesi “che hanno donato la loro vita per amore della fede e per i quali dovrebbe essere possibile avviare la causa di beatificazione”. Nello specifico, si è deciso di “trasmettere le aspettative dei vescovi ai funzionari governativi croati per quanto riguarda le misure da adottare per indagare sulle vittime dei sistemi totalitari”.

Serve collaborazione per missione, educazione, ecumenismo
​Infine, sempre nell’ottica di un operato congiunto, le Chiese di ambedue le nazioni hanno evidenziato la necessità di “una fruttuosa collaborazione” in ambito missionario, nel settore “scolastico educativo” e in una possibile “campagna congiunta nell’area dell’ecumenismo e del dialogo”. (I.P.)

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Sito Radio Vaticana

Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LXI no. 27

E' possibile ricevere gratuitamente, via posta elettronica, l'edizione quotidiana del Bollettino del Radiogiornale. La richiesta può essere effettuata sul sito http://it.radiovaticana.va

Segreteria di redazione: Gloria Fontana, Mara Gentili e Beatrice Filibeck, con la collaborazione di Barbara Innocenti e Serena Marini.