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Sommario del 30/09/2016

Il Papa e la Santa Sede

Oggi in Primo Piano

Il Papa e la Santa Sede



Papa in Georgia: ci sia pace nel Caucaso, differenze sono ricchezza

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Le differenze etniche, politiche o religiose non siano pretesto per conflitti e tragedie ma strumento di arricchimento reciproco. Prevalga la logica del dialogo. E’ questo in sintesi il messaggio che il Papa ha lasciato alle autorità, al mondo della cultura e alle rappresentanze civili incontrate nel Palazzo presidenziale a Tbilisi, capitale della Georgia, prima tappa del suo nuovo viaggio nel Caucaso che terminerà domenica in Azerbaigian. Il capo dello Stato dal canto suo ha rimarcato l’impegno per la pace e  la cooperazione nonostante l’occupazione militare russa nell’area occidentale mini l’integrità territoriale del Paese. Il servizio della nostra inviata Gabriella Ceraso

Georgia: terra radicata nel Cristianesimo
“Ringrazio Dio onnipotente per avermi offerto l’opportunità di visitare questa terra benedetta”.

Queste le parole con cui il Papa saluta Tbilisi e la Georgia,”luogo di incontro di civiltà, che nel cristianesimo” dice “ha trovato identità e fondamento dei suoi valori”. Poco prima all’aeroporto Rustaveli, dove 17 anni fa giunse anche S. Giovanni Paolo II, la cerimonia è semplice, ma molto calorosa con la festa di un centinaio di fedeli giunti da tutto il Paese per dire “benvenuto carissimo Padre”.

Ma è al Palazzo presidenziale che il Papa prende la parola davanti alle autorità. Leggendo nella storia plurisecolare di questo Paese “ponte naturale tra Europa e Asia”, e “cerniera di comunicazione tra popoli” esprime l’auspicio che il cammino di pace e sviluppo iniziato con l’indipendenza 25 anni fa, “prosegua con l’impegno di tutti, per garantire equità, stabilità e rispetto della legalità”.

La pace richiede stima reciproca e rispetto
“Tale autentico e duraturo progresso ha come indispensabile condizione preliminare la pacifica coesistenza fra tutti i popoli e gli Stati della Regione. Ciò richiede che crescano sentimenti di mutua stima e considerazione, i quali non possono tralasciare il rispetto delle prerogative sovrane di ciascun Paese nel quadro del Diritto Internazionale”.

“In troppi luoghi della terra” - sottolinea il Papa - “sembra prevalere la logica che rende difficile mantenere nell’ambito del dialogo e del confronto, differenze e controversie legittime”. Questo è invece tanto più necessario oggi che “estremismi violenti”, afferma “manipolano e distorcono principi di natura civile e religiosa per asservirli ad oscuri disegni di dominio e di morte”.

No alla logica dello scontro: differenze sono arricchimento
“Qualsiasi distinzione di carattere etnico, linguistico, politico o religioso, lungi dall’essere usata come pretesto per trasformare le divergenze in conflitti e i conflitti in interminabili tragedie, può e deve essere per tutti sorgente di arricchimento reciproco a vantaggio del bene comune”.

Ma per questo è necessario essere liberi di far fruttare la propria specificità e di vivere in pace nella propria terra. Da qui l’appello ai politici per i profughi:

"Auspico che i responsabili pubblici continuino ad avere a cuore la situazione di queste persone, impegnandosi nella ricerca di soluzioni concrete anche al di fuori delle irrisolte questioni politiche".

Non servono solo lungimiranza e coraggio per riconoscere il bene autentico dei popoli e perseguirlo con determinazione e prudenza:

"E’ indispensabile avere sempre davanti agli occhi le sofferenze delle persone per proseguire con convinzione il cammino, paziente e faticoso ma anche avvincente e liberante, della costruzione della pace".

Dio benedica la Georgia e le dia pace e prosperità: l’augurio conclusivo del Papa,in terra georgiana, suggella l’impegno della Chiesa cattolica in dialogo con quella ortodossa georgiana, a favorire la pace, il benessere e lo sviluppo sociale.

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Francesco incontra Ilia: uniti in un mondo assetato di misericordia

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Un nuovo passo nel cammino ecumenico per rendere più stretti i legami tra la Chiesa cattolica e la Chiesa ortodossa di Georgia. E’ lo spirito che ha animato l’incontro di Papa Francesco con il Catholicos e Patriarca di tutta la Georgia Ilia II, avvenuto nella Sede del Patriarcato Ortodosso a Tbilisi. Il Pontefice ha invitato cattolici ed ortodossi a testimoniare assieme il Vangelo in un mondo assetato di pace e misericordia. Durante l'incontro anche l'offerta simbolica del te e del caffé di benvenuto al Papa, una tradizione familiare in Georgia. Il servizio di Alessandro Gisotti:

Rimanere saldi nel Signore per essere "fraternamente uniti" nell'annunciare il Vangelo. E’ il messaggio forte che Papa Francesco ha consegnato nel suo incontro con il Patriarca Ilia II. Il Pontefice si è detto innanzitutto commosso per l’Ave Maria composta dallo stesso Patriarca e che è stata intonata all’inizio della cerimonia.

Nuovo slancio e fervore per i vincoli tra cattolici e ortodossi
Quindi, ha ricordato i momenti salienti delle rinnovate relazioni tra la Chiesa ortodossa di Georgia e la Chiesa cattolica e la storica visita di San Giovanni Paolo II in terra georgiana alle soglie del Giubileo del 2000. Un cammino ecumenico che deve proseguire:

“Ora, la Provvidenza divina ci fa nuovamente incontrare e, di fronte a un mondo assetato di misericordia, di unità e di pace, ci chiede che quei vincoli tra noi ricevano nuovo slancio, rinnovato fervore, di cui il bacio della pace e il nostro abbraccio fraterno sono già un segno eloquente”.

Evangelizzare insieme, le difficoltà non diventino impedimenti
“Perché il Vangelo porti frutto anche oggi – ha ripreso – ci viene chiesto” di “rimanere ancora più saldi nel Signore e uniti tra noi”:

“La moltitudine di Santi che questo Paese annovera ci incoraggi a mettere il Vangelo prima di tutto e ad evangelizzare come in passato, più che in passato, liberi dai lacci delle precomprensioni e aperti alla perenne novità di Dio. Le difficoltà non siano impedimenti, ma stimoli a conoscerci meglio, a condividere la linfa vitale della fede, a intensificare la preghiera gli uni per gli altri e a collaborare con carità apostolica nella testimonianza comune, a gloria di Dio nei cieli e a servizio della pace in terra”.

Il Papa ha ricordato che la Chiesa ortodossa di Georgia è radicata in particolare nella figura dell’Apostolo Andrea ed ha così sottolineato che - come Andrea era fratello di Pietro - anche la Chiesa cattolica e quella ortodossa della Georgia devono oggi rinnovare la “fraternità apostolica”, lasciandosi guardare dal Signore per essere “insieme annunciatori della sua presenza”.

Nell’amore di Cristo, il popolo georgiano ha superato innumerevoli prove
Quindi ha messo l’accento sull’amore di Cristo che ci innalza perché “permette di elevarci al di sopra delle incomprensioni del passato, dei calcoli del presente e dei timori per l’avvenire”:

“Il popolo georgiano ha testimoniato nei secoli la grandezza di questo amore. È in esso che ha trovato la forza di rialzarsi dopo innumerevoli prove; è in esso che si è elevato fino alle vette di una straordinaria bellezza artistica”.

Voglio essere amico di tutti i georgiani, invochiamo la pace assieme
Francesco ha ricordato l’importanza del patrimonio culturale della Georgia e in modo speciale Santa Nino che diffuse la fede tra le popolazioni di questa terra e che, per questo, viene equiparata agli Apostoli. Quindi ha ribadito il suo voler essere amico di tutti i georgiani, augurando la pace ad una terra ferita:

“Desidero essere amico sincero di questa terra e di questa cara popolazione, che non dimentica il bene ricevuto e il cui tratto ospitale si sposa con uno stile di vita genuinamente speranzoso, pur in mezzo a difficoltà che non mancano mai. Anche questa positività trova le proprie radici nella fede, che porta i Georgiani a invocare, attorno alla propria tavola, la pace per tutti e a ricordare persino i nemici”.

Francesco ha concluso il suo intervento rivolgendo un pensiero speciale ai tanti cristiani che ancora oggi nel mondo "soffrono persecuzioni e oltraggi". Dal canto suo, il Patriarca Ilia II ha definito storica la visita di Francesco per tutta la Georgia e ha invocato la benedizione del Signore su di Lui. Il Papa ha donato al Patriarca il Codex Pauli, un prezioso volume edito in occasione del bimillenario della nascita di San Paolo.

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La Chiesa ortodossa georgiana: uniti totalmente in Cristo

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Papa Francesco incontra oggi a Tbilisi, nella sede del Patriarcato, il Catholicos della Chiesa ortodossa georgiana Ilia II e il clero di questa Chiesa antica e visiterà il più importante centro spirituale - la Cattedrale Patriarcale Svetitskhoveli in Mtskheta. Padre Viktor Vladymyrov ha chiesto allo ieromonaco Mikhail, dell'Ufficio comunicazione del Patriarcato, quali siano le aspettative della Chiesa ortodossa georgiana riguardo la visita del Pontefice: 

“Мы надеемся и верим, что такие визиты…
Speriamo e crediamo che l’incontro dei capi delle nostre due Chiese antiche abbia sempre conclusione positiva. Come sapete, a un certo punto della storia la Chiesa Cattolica e le Chiese Ortodosse hanno perso l’unità nella preghiera e nell’Eucarestia, quell’unità che esisteva prima del XI secolo, e con la Chiesa georgiana fino al secolo XII. In seguito, tra di noi sono iniziate a delinearsi le differenze interne alla confessione: noi abbiamo il nostro Patriarca e i cattolici il loro, abbiamo diverse convinzioni. Ma queste differenze non devono causare prese di posizione radicali tra credenti. Credo che questo incontro risolverà tali questioni. Eppure, la gente chiaramente vede che non c’è ostilità tra noi, come tra altri credenti che non capiscono la tragedia dello scisma e la complessità della riunificazione. Pertanto, ci aspettiamo che questo sia un passo verso il futuro... Ogni volta che durante liturgia noi preghiamo la prima ektenia, preghiamo sempre 'per la pace in tutto il mondo, per il benessere delle sante Chiese di Dio e per l'unità di tutti'. La nostra preghiera è sempre affinché giunga il momento in cui saranno risolti i problemi che esistono tra noi e affinché – con la grazia di Dio – noi saremo uniti totalmente in Cristo. Pertanto, questa visita è ancora un deciso passo avanti per avvicinarci e risolvere gli impulsi radicali nascosti presenti in alcuni fedeli. Confidiamo molto in questo”.

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L'ambasciatrice georgiana: ecumenismo non facile ma in cammino

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L’incontro con la Chiesa ortodossa e col Catholicos e Patriarca di tutta la Georgia Ilia II è al cuore della visita del Papa. Ma come sono oggi i rapporti tra le due Chiese? Philippa Hitchen lo ha chiesto all’ambasciatrice georgiana presso la Santa Sede, Tamara Grdzelidz

R. – Difficult is the first word, I would say. I think because it is all new to us…
"Difficile”, è la prima parola che mi viene… penso perché per noi è tutto nuovo… Molte cose si possono spiegare e giustificare con il fatto che solo 25 anni fa abbiamo avuto indipendenza e libertà e anche la Chiesa si è ritrovata libera di agire per suo proprio conto … E’ una strada lunga, quella che dobbiamo percorrere.

D. – Cioè, il lascito della cultura sovietica è pesante, lei mi dice …

R. – Yes: the legacy of the Soviet culture, but also the fact that the Church all of a sudden …
Sì, il lascito della cultura sovietica, ma anche il fatto che la Chiesa all’improvviso è tornata ad essere indipendente e ha ritrovato una sua autorevolezza … La Chiesa si sta impegnando molto per diventare simbolo di identità nazionale e sembra che in questo momento nel nostro Paese funzioni … Tutto questo sicuramente mette i cattolici in una situazione difficile. Io ho l’impressione che si trovino fortemente sotto l’ombra di una sorta di influenza negativa da parte della Chiesa ortodossa, ma ci sono anche molti casi di buona collaborazione tra le Chiese e molti esempi di buoni rapporti. E siccome io ho lavorato per tanto tempo per l’unità nel Consiglio mondiale delle Chiese, so che ci troviamo di fronte a un argomento difficile e sensibile: è una questione di identità, di eredità e di molti altri fattori. E aspettarsi che nei Paesi in cui la Chiesa ortodossa è maggioritaria, la piccola comunità cattolica sia trattata in maniera assolutamente “giusta”, penso che non sia facile. Ma ci dobbiamo lavorare …

D. – Quindi, nel contesto difficile che lei sta descrivendo, quali sono le sue speranze per la visita del Santo Padre in merito al dialogo ecumenico?

R. – The Pope tries very much to bring on board Christians from all traditions. …
Il Papa si impegna tantissimo a “portare a bordo” i cristiani di tutte le tradizioni. Ho fatto questa considerazione recentemente, in collegamento con la Laudato si’, cioè con la mia lettura di questa Enciclica, e in particolare con il messaggio del Papa del 1° settembre di quest’anno (Messaggio per la Giornata di preghiera per la cura del Creato), in cui egli chiedeva di rinnovare il dialogo a livello mondiale nella Giornata dedicata alla tutela del Creato. Credo che questo sia un importante catalizzatore: il suo intento è “mettere insieme” tutti i leader spirituali, ma in particolare tutti i cristiani. Infatti, se guardiamo quello che ha fatto il Papa l’anno scorso, con un impegno immane per riunire ortodossi e cattolici, e mi riferisco al suo incontro un po’ contestato con il Patriarca Kirill - ha fatto di tutto per poterlo incontrare, quando è andato a Cuba; ha rapporti ottimi con il Patriarca Bartolomeo, ma in particolare vorrei ricordare il suo incontro a Lesbo con il Patriarca Bartolomeo e con l’arcivescovo di Atene - ora, con questa sua visita in Georgia sta cercando in ogni modo di costruire buoni rapporti personali con quei leader ortodossi che ancora oppongono resistenza. Non sempre, non tutti, ma loro hanno difficoltà a parlare di “unità dottrinale” …

D. – Cosa può dirci del Patriarca Ilia? E' molto popolare, molto amato, più di ogni altro nel Paese, oggi …

R. – Yes: in Georgia he has enormous influence. People almost worship him. He is an expression of …
Sì, è vero: in Georgia ha un’influenza grandissima. La gente praticamente lo venera: è espressione dell’amore della gente, sì. Ma quando alcuni, in maniera irresponsabile, dicono che seguirebbero le indicazioni della Chiesa in ogni ambito – politico, sociale o via dicendo – non penso che sia questo che dà credibilità a Ilia che, in realtà, è una persona estremamente credibile, in quando leader della sua Chiesa. E’ al suo posto dal 1977, ha letteralmente rinnovato la vita della Chiesa, devo dire: ha rinnovato la vita monastica; non c’era nemmeno un mezzo informativo della Chiesa … Ora invece ci sono molte cose organizzate dalla Chiesa e tutti sanno che è dovuto alla sua guida.

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La Chiesa caldea: dal coraggio del Papa la nostra forza

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Un appuntamento di natura del tutto spirituale col pensiero rivolto ai cristiani martiri della Siria e all’Iraq. E’ quanto si attende dall’incontro del Papa con la comunità assiro caldea, riunita a Tbilisi venerdì, primo giorno della visita del Pontefice in Georgia. Nella Chiesa di San Simone sarà presente anche gran parte del Sinodo caldeo dall’Iraq guidato dal patriarca Sako. L’emozione è tanta nelle parole del parroco padre Benny Beth Yadegar che presenterà la comunità al Papa: 

R. – La comunità è frutto di una emigrazione dell’inizio del secolo scorso dall’Iran e dalla Turchia, dei caldei cattolici e non cattolici scappati allora dai curdi e dai turchi. Ci sono anche degli immigrati venuti dalla Siria e dall’Iraq. Sono cristiani e non avevano nient’altro che la chiesa. Quando sono arrivati qui, hanno visto solo le chiese , la croce e i campanili, e hanno deciso di rimanere.

D. – Ci sono state delle difficoltà?

R. – Sì, qui in Chiesa sono arrivate quasi 25 famiglie. Abbiamo pagato loro un anno e quattro mesi di affitto della casa, medicinali, vitto, alloggio, tutto perché potessero poi andare in Europa. Ma tutte le ambasciate europee ci hanno risposto che eravano fuori da una zona di pericolo, che qui in Georgia nessuno li avrebbe ammazzati o cacciati via, e quindi  hanno detto loro di rimanere. Ma rimanere come? Non davano alcun aiuto! I fondi che la Chiesa usa per aiutare un po’ questa comunità vengono tutti dall’estero. La maggior parte dei soldi vengono dalla comunità caldea che ormai si è stabilita negli Stati Uniti: sono loro che danno un grande aiuto a questa comunità.

D. – Proprio dagli Stati Uniti, ma anche da altre parti del mondo, arriveranno in tanti per questo incontro con il Papa: cosa rappresenta per voi questo momento?

R. – È la prima volta nella storia, da quanto ci risulta, che un Papa entra in una chiesa caldea-cattolica. C’è tanta emozione, e anche tanto lavoro da fare. C’è poi il Sinodo con i patriarchi che arriveranno: saranno con noi quindici vescovi, sacerdoti, monache…

D. – Un segno importante quindi il suo solo ingresso nella vostra comunità…

R. – Sì, perché anche il Papa ha detto immediatamente che sarebbe venuto a visitare la comunità “anche se piccola” ha detto  “sono sempre i miei figli”.-E questa è stata una gioia immensa per noi, e anche una cosa giusta: insomma, noi siamo cristiani – siamo cattolici – e rappresentiamo delle tradizioni molto antiche in Oriente. Abbiamo vissuto tutte le difficoltà delle persecuzioni, e abbiamo visto molto sangue e anche tante distruzioni. E quindi era anche giusto avere accanto il padre della nostra Chiesa: che viene a  visitare la nostra comunità e a darci il coraggio, confermarci nella nostra fede.

D. – Sarà un momento soprattutto di preghiera. In che modo pregherete?

R. – Il Papa vuole ascoltare le preghiere di questa gente. Abbiamo dieci-dodici minuti per pregare con i Salmi, alcuni inni dei martiri del II, III, IV secolo e con le melodie antichissime, canti dalla profonda meditazione, fede e coraggio.

D. – Padre Beniamino, le intenzioni profonde nei vostri cuori, di questa preghiera, quali sono?

R. – Prima di tutto, vogliamo far sapere a tutto il mondo che tutte le persecuzioni e i disastri che accadono in Medio Oriente non ci cambiano, perché solo la bontà alla fine vincerà la violenza. E vogliamo anche attirare l’attenzione del Papa su tutti i caldei immigrati in questi ultimi anni, dalla prima guerra contro l’Iraq fino ad oggi: sono dispersi in tutta Europa – dalla Grecia fino al Nord Europa – e  sono senza un pastore, un vescovo o una diocesi. Se avremo una chiesa caldea un po’ più forte in Europa, potremmo forse ancora per i prossimi 100-150 anni salvare queste tradizioni antichissime: pregheremo per questo. E poi, quando il Papa è con noi, ciò vuol dire che tutta la comunità cristiana - cattolica - del mondo è con noi. Ecco, vogliamo far capire anche questo alla gente: che siamo uniti con Roma, con tutta la comunità cristiana, e abbiamo bisogno del loro appoggio spirituale e del loro incoraggiamento.

D. – L’Anno della Misericordia nella vostra comunità come lo state vivendo e che cosa sta significando per voi proprio la misericordia?

R. – Praticamente lo abbiamo vissuto con i profughi in modo concreto. Tutto quello che avevamo lo abbiamo diviso con loro. Spesso abbiamo fatto delle preghiere per la pace e a volte abbiamo anche invitato dei musulmani che venivano dall’Iran per non far crescere un odio cieco contro una religione, perché questo non risolve assolutamente niente. Quello che ci unisce è molto, molto più grande di quello che semplicemente ci divide.

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La Georgia: il Paese che da oggi visita il Papa

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Ma che Paese è oggi la Georgia, ex repubblica sovietica indipendente dal “91? E soprattutto, come le autorità guardano all’arrivo di un secondo Pontefice dopo S. Giovanni Paolo II nel 1999? Gabriella Ceraso lo ha chiesto a Marilisa Lorusso ricercatrice esperta dell’area per l’Osservatorio Balcani e Caucaso: 

R. – Sicuramente è un Paese che è cresciuto: ha vissuto un periodo iniziale estremamente turbolento, con due guerre di secessione, una guerra civile, grandi lacune di capacità di sovranità e un tracollo economico completo, dovuto, come molti altri Paesi post-sovietici, alla crisi della struttura economica dell’Urss. Rispetto a tassi di crescita che avevano superato l’8% annuo, adesso siamo sul 3% rispetto al Pil. Quindi è un Paese che, con grande fatica, sta cercando di riproporsi come agente economico, di sfruttare la propria posizione sia dal punto di vista del turismo sia da quello della differenziazione della produzione, sia industriale che agricola, in un contesto che non è facilissimo. Ci sono infatti tensioni tra i Paesi vicini che generano delle difficoltà di trasporto e di comunicazione; tra l’altro tutta la Regione del Mar Nero è un po’ in sofferenza, e dalla crisi in Ucraina ancora di più. E quindi, tra mille difficoltà, la Georgia sta comunque stabilizzando il proprio quadro economico e politico.

D. – Il Papa arriverà a pochi giorni dalle elezioni: cosa il Paese, e il popolo anche, si aspettano da questo voto? Cosa chiede la gente?

R. – Quello che ci si aspetta a livello di sondaggi è che il governo in carica venga bene o male confermato. C’è un effettivo dibattito politico: non abbiamo più lo strapotere di un partito, quindi sono elezioni effettivamente discusse e dibattute. Per quello che riguarda invece le reali tematiche che stanno a cuore alla popolazione, il primo posto in assoluto è occupato dall’occupazione. È da vedere se questa stabilizzazione politica continuerà, e questo potrebbe incoraggiare gli investitori stranieri ad essere più presenti. È molto probabile quindi che non ci siano grandi cambiamenti di strategie economiche; così come è difficile che queste elezioni portino cambiamenti dal punto di vista dell’orientamento, non solo nella politica interna, ma anche in quella estera. La Georgia sembra abbastanza saldamente ancorata a un percorso euro-atlantista. Il riconoscimento da parte della Russia delle sue due regioni secessioniste dopo il 2008 – l’Abkhazia e l’Ossezia – di fatto ha creato una frattura molto profonda nei confronti della Russia che non è ancora stata normalizzata dal punto di vista diplomatico, e ha consegnato un po’ la Georgia a quell’orientamento filo-occidentale, nelle corde del Paese fin dalla prima indipendenza.

D. – La Georgia è ancora un Paese che vive essenzialmente di agricoltura o no?

R. – Assolutamente no. Il terziario è in crescita: si stanno creando dei poli di produzione abbastanza all’avanguardia. Relativamente invece al discorso degli idrocarburi che sono presenti nella Regione ma non nel suo territorio, la Georgia è un Paese di transito, cosa che potrebbe garantirle una certa rilevanza anche strategica.

D. – Come i politici georgiani guardano a questa visita del Papa? Ricordiamo che quando andò San Giovanni Paolo II c’era il suo amico Shevardnadze: dunque la situazione era diversa…

R. – Sicuramente la visita del Papa è una riconferma dell’identità europea per la Georgia. Poi ci sono piani che riguardano la politica interna georgiana: accogliere il rappresentante di un’altra religione cristiana nel proprio territorio è anche, in un certo senso, un atto di superamento di forme di nazionalismo che tendono poi alla fine a minare la coesione sociale. Questo riguarda non solo le minoranze cristiane, ma anche quelle musulmane che, rispetto a questo far coincidere la georgianità con la chiesa ortodossa, sono forse più esposte a processi di radicalizzazione. C’è poi un discorso anche di rapporti bilaterali: questa sarà tra l’altro la prima visita del Papa dopo che la Georgia ha riconosciuto la presenza di altre Chiese nel proprio territorio non come associazioni ma proprio come “Chiese”; quindi sicuramente anche questo è un dato importante. E in generale – a livello internazionale – la visita in un Paese che ha una così forte coincidenza tra la Chiesa nazionale e lo Stato di un leader straniero è di nuovo un voler ribadire un percorso di pace e di dialogo interreligioso, che è nel Caucaso più che mai necessario, in un momento in cui l’intera area è scossa dall’onda lunga del conflitto siriano, in un momento che rimane delicato e che, molto probabilmente, sarà anche di lunga durata.

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Oggi su "L'Osservatore Romano"

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Il cammino della pace: al suo arrivo in Georgia il Papa ricorda che le differenze etniche, linguistiche, politiche o religiose non devono essere pretesto per i conflitti ma sorgente di arricchimento.

L’antico e sempre nuovo criterio di verità: Sergio Massironi sulla nuova edizione di “Cordula ovverosia il caso serio”.

Catastrofe umanitaria ad Aleppo.

Ancora sangue di migranti nel Mediterraneo.

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Oggi in Primo Piano



I grandi del mondo ai funerali di Shimon Peres

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A Gerusalemme i funerali di Stato di Shimon Peres, l'ex presidente israeliano scomparso a 93 anni. Alle esequie hanno partecipato molti dei grandi del mondo, tutti presenti a rendere omaggio all’ultima storica figura israeliana, che nel suo lungo percorso politico riuscì a trasformarsi da “falco” in “colomba” e a promuovere con forza il dialogo per la pace tra popolo ebraico e palestinesi. Tra le presenze alle esequie da segnalare, tra gli altri, quella del presidente dell’Autorità nazionale palestinese, Abu Mazen, e dei presidenti americani Obama e Clinton. In rappresentanza di Papa Francesco, il nunzio apostolico a Gerusalemme, mons. Giuseppe Lazzarotto, che di recente ha messo in evidenza il grande impegno di Peres per il dialogo. Il premier israeliano, Netanyahu, ha auspicato prosperità e pace per i due popoli, pur ribadendo la necessità della sicurezza per Israele. Sulle speranze che da questo incontro possa nascere uno stimolo nuovo al dialogo israelo-palestinese, Giancarlo La Vella ha sentito l’esperto di Medio Oriente, Graziano Motta

R. – Certamente apre le speranze, perché questo dialogo riprenda. Deve però superare tantissime difficoltà. La principale è l’accettazione da parte del mondo arabo di una realtà territoriale dello Stato ebraico, perché ancora oggi c'è la convinzione che il territorio di Israele non possa appartenere ad altri che al mondo palestinese: è questa la prima preclusione. Da questa ne discende anche una seconda, che riguarda Gerusalemme, che viene considerata come espressione di una unità incarnata nel territorio e nella coscienza del mondo islamico e quindi non viene accettato il principio di una sua internazionalizzazione.

D. – I grandi del mondo devono riprendere in mano le redini del dialogo diplomatico?

R. – Certo, sono tutti impegnati moralmente dall’eredità che ha lasciato Peres, l’ordine che lui ha dato di operare per la pace. Secondo me, però, ci vuole un personaggio laico che incarni proprio la sua stessa visione della speranza, dell’ottimismo, della fiducia nella coesistenza di queste due nazioni.

D. – Qual è il personaggio, oggi, che può prendere su di sé l’eredità lasciata da Shimon Peres?

R. – E’ difficile dirlo… Chi ha le più grandi chance, per l’esperienza diplomatica, è Hillary Clinton, candidata alla presidenza degli Stati Uniti. Lei può portare avanti una visione che ha già espresso non soltanto da segretaria di Stato, ma praticamente anche come moglie del presidente Clinton stesso. Quello che ci vuole è anche un forte impegno da parte della Russia, che ha in Israele moltissimi immigrati. Infine, c’è il discorso dell’Europa, che deve assolutamente giocare un ruolo importante. L’Europa sconta però una preclusione da parte dell’opinione pubblica israeliana, che non ha mai considerato Bruxelles equilibrata nel processo di mediazione, perché viene colta la sua propensione più a rispondere alle esigenze palestinesi che non alle esigenze di sicurezza di Israele.

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Amnesty International: dramma umanitario a Bengasi

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Le condizioni dei cittadini di Bengasi sono drammatiche. A dare l’allarme è Amnesty International, sottolineando come i combattimenti tra le forze dell’ex generale Haftar e i gruppi armati islamisti di Bengasi, che hanno formato la coalizione denominata Consiglio della shura dei rivoluzionari di Bengasi (Csrb), si siano intensificati, generando una situazione umanitaria critica. Le strade sono bloccate, le forniture di cibo, acqua ed energia sono state sospese e mancano anche i medicinali. Maria Carnevali ha intervistato Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia: 

R. – Dal 2014, in quella zona della Libia – la zona di Bengasi – l’ex generale di Gheddafi, Haftar, si è messo alla guida di un’operazione militare chiamata “Operazione Dignità”, che è riuscita nell’obiettivo di allontanare quasi tutti i gruppi armati islamisti da quella zona. Ma c’è una sacca all’interno della città, soprattutto nel quartiere di Ganfouda, di civili, che a loro volta presumibilmente sono ostaggi dei gruppi armati islamisti che ancora controllano quella piccola parte della città. E contro questa sacca di resistenza degli islamisti, il generale Haftar ha lanciato nelle ultime settimane un’offensiva durissima: non possono neanche uscire di casa per timore di essere centrati da una bomba.

D. – Di cosa ha maggiore necessità la popolazione?

R. – Si può dire di tutto. Ci si arrangia con acqua sporca e ciò con danni per la salute. Manca il latte in polvere, per non parlare di quello fresco. Non ci sono medicinali e si stanno perfino esaurendo le scorte di quelli già scaduti, il cibo è marcio e andato a male, quando si trova.... Manca la luce elettrica spesso e non ci sono linee telefoniche funzionanti.

D. – Le vie d’accesso sono bloccate dalla forze dell’Esercito nazionale libico: come la comunità internazionale può sollecitare la riapertura delle strade per consentire l’accesso ai soccorsi umanitari?

R. – La comunità internazionale non dovrebbe chiedere, supplicare, ma pretendere: che chi vuole uscire dalla città possa uscire in condizioni di sicurezza, attraverso dei percorsi di uscita sicuri dalla città. Dovrebbe pretendere che ci sia un cessate-il-fuoco nei tempi e modi adeguati per consentire ai civili di ricevere gli aiuti umanitari. E dovrebbe prendere in considerazione il fatto che a Bengasi si stanno compiendo, da parte di tutte le parti in conflitto, dei veri e propri crimini di guerra. Ci sono migliaia di persone vittime di una sorta di punizione collettiva, bloccate all’interno delle loro abitazioni senza acqua né cibo, per il fatto che sono in un quartiere che è ancora occupato dai gruppi armati islamisti.

D. – La situazione è anche peggiore per le categorie più deboli, come i bambini…

R. – Questo è sicuramente il fatto più urgente. Un abitante di Ganfouda ci ha detto: “Io sono disponibile a rimanere qui sotto assedio tutta la vita e anche a morire, purché facciano qualcosa per far uscire i bambini perché loro sono il futuro di questo Paese”.

D. – Com’è lo stato attuale della popolazione?

R. – Quello che ascoltiamo e che riusciamo, con mezzi di fortuna, ancora a sentire dalle persone ci parla di disperazione, rassegnazione e rabbia anche. Eppure, potrebbe essere semplice ridare speranza a queste persone: basterebbe veramente garantire percorsi sicuri di uscita e ci vorrebbero dalle 24-48 alle 72 ore, non di più. Il punto è che la comunità internazionale oggi – e veramente lo vediamo da ogni parte del mondo e ad Aleppo è forse sempre più evidente – non è in grado di tutelare la vita dei civili. E quindi lascia che le persone rimangano sotto la minaccia costante delle bombe, dei colpi di artiglieri.

D. – Come sollecitare le parti in conflitto ad aprire degli spazi per chi vuole lasciare la zona?

R. – Se è vero che il generale Haftar sta vincendo quest’ultima fase – la fase finale della battaglia contro gli islamisti – è una persona dai cui interlocutori – e ne ha: penso all’Egitto o a qualche Paese del Golfo – potrebbe ascoltare un appello per sospendere le operazioni militari. Ma non sembra che lui voglia farlo né sembra che i Paesi sponsor siano interessati a questa situazione. Quello che preoccupa moltissimo è che uno dei capi di una delle tribù locali, che hanno giurato fedeltà ad Haftar, ha detto che tutte le persone al di sopra dei 14 anni “non usciranno vive da Ganfouda”. E questo ricorda le cose che dicevano i serbo-bosniaci a Srebrenica nel 1995 – nei Balcani, in Bosnia – con il risultato che abbiamo visto più di 10 mila morti.

D. – Questo conflitto, dal 2014 ad oggi, continua con gravi violazioni del diritto internazionale: perché non si fa nulla? Ci sono degli interessi in gioco?

R. – Dalla fine del regime di Gheddafi, possiamo dire che la vita della Libia è stata segnata dall’assenza dello Stato di diritto. La comunità internazionale, come in altre occasioni, si mostra divisa: i singoli Stati forse più interessati a trovare qualcuno al quale chiedere garanzie su cose specifiche – che sia la protezione dei pozzi di petrolio o la garanzia che non partano migranti. Però, complessivamente, un disegno unitario per riportare lo Stato di diritto e la pace in Libia non c’è.

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Sinodo caldeo: testimoni di Cristo in un clima di guerra

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All’incontro guidato da sua Beatitudine mar Louis Raphael Sako hanno partecipato 20 vescovi caldei provenienti da Iraq, Siria, Iran, Libano, Stati Uniti, Canada e Australia. Unico assente - riferisce l'agenzia AsiaNews - mons. Sarhad Jammo, emerito della  diocesi di san Pietro Apostolo a San Diego, negli Stati Uniti, protagonista in passato di un duro scontro con il Patriarcato per la questione dei sacerdoti e monaci ribelli.

Nella dichiarazione finale il riferimento a sacerdoti e monaci ribelli
Uno dei punti della dichiarazione finale riguarda proprio i sacerdoti e monaci ribelli. “Il Sinodo - si legge nella nota - ha deciso che preti e monaci che hanno abbandonato diocesi e monasteri senza il permesso formale devono lasciare immediatamente le loro attuali diocesi”. Il loro comportamento, avverte il Sinodo, è fonte “di dubbi” fra i fedeli; prima di rientrare nella posizione originaria essi devono svolgere “un mese o due di riabilitazione”. 

Attenzione alle vocazioni sacerdotali
Assieme al richiamo a una “maggiore partecipazione dei laici alla vita della Chiesa”, il Sinodo caldeo pone particolare attenzione “alle vocazioni sacerdotali e monastiche”. Vi sono “sfide e ostacoli” come “l’immigrazione, il controllo delle nascite, i social media, l’instabilità del Paese, i modelli guida” che vanno approfonditi, per rispondere alle domande poste dai fedeli. Al riguardo è necessario “focalizzare” l’attenzione su “una formazione sostenibile” a livello “psicologico e pedagogico”. 

Appello per la pace in Iraq e Siria ed Aleppo in particolare
Implorando la pace per l’Iraq e la liberazione di tutte le aree ancora nelle mani dei gruppi jihadisti fra cui il sedicente Stato islamico, così da “favorire il ritorno degli sfollati nelle loro case”, i vescovi hanno pregato in comunione e solidarietà con mons. Antoine Audo, vescovo di Aleppo. Dalla Chiesa caldea giunge un “rinnovato appello per la fine della guerra in Siria” e la richiesta di un “dialogo proficuo che permetta di raggiungere una soluzione politica e pacifica al conflitto”. 

Sostegno alla famiglia
Nella dichiarazione finale si rinnova l’impegno al sostegno della famiglia, seguendo le indicazioni tracciate da Papa Francesco nell’Esortazione apostolica "Amoris Laetitia". Da ultimo, la Chiesa caldea ha inviato in Vaticano il nuovo messale caldeo per l’approvazione e un documento per promuovere la pratica di beatificazione e canonizzazione dei martiri caldei. (R.P.)

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Nordest Nigeria: è emergenza umanitaria secondo MSF

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Si aggrava la crisi umanitaria nel nordest della Nigeria. Questa la denuncia di Medici senza frontiere, che parlano di una vera e propria emergenza umanitaria in una delle aree più colpite dal conflitto tra il governo centrale e Boko Haram. Malnutrizione, anche infantile, malattie e scarsità di acqua e generi alimentari affliggono la popolazione civile. Andrea Walton ne ha parlato con Francois Dumont, direttore della comunicazione di Medici Senza Frontiere Italia: 

R. – Nel Nordest della Nigeria, nello Stato del Borno, noi Medici senza frontiere viviamo una situazione ormai catastrofica. Il conflitto tra Boko Haram, il gruppo armato e il governo nigeriano, ha provocato centinaia di migliaia di sfollati e piano piano, nonostante la situazione difficile per quanto riguarda la sicurezza, stiamo arrivando in posti nuovi, in città e cittadine recentemente tornate alla sicurezza e lì vediamo decine di migliaia di persone che mancano di cibo, di acqua, di tutto. Le condizioni medico-sanitarie sono difficili. Per esempio, siamo arrivati in una città che si chiama Gala, qualche giorno fa: abbiamo trovato 80 mila persone che sono letteralmente bloccate lì. Ci hanno raccontato che hanno mezzo litro d’acqua al giorno a persona. Hanno fatto uno screening: un bambino su dieci soffre di malnutrizione grave. Ogni volta che arriviamo in posti nuovi, troviamo situazioni sempre più gravi. Quindi, chiediamo un intervento umanitario massiccio a sostegno di queste persone, perché ancora non c’è stata assistenza adeguata e sufficiente.

D. – Quante persone sono coinvolte nell’emergenza sanitaria?

R. – Noi abbiamo diverse decine di collaboratori. Le condizioni per la sicurezza sono difficili e quindi proviamo a mandare il maggior numero possibile di persone. Vediamo che la situazione, anche nella capitale Maiduguri, è gravissima.

D. – Quanto ha influito il disastroso conflitto con Boko Haram sulle condizioni di vita della popolazione civile?

R. – Il conflitto tra il governo nigeriano e il gruppo Boko Haram esiste ormai da anni. Tra la popolazione civile contiamo ormai due milioni e mezzo di persone sfollate, nella maggior parte nello Stato del Borno. Soprattutto per quanto riguarda i bambini, vediamo tassi alti di malnutrizione e anche di mortalità. La cosa più paradossale e più preoccupante è che nella capitale dello Stato, a Maiduguri, dove c’è un livello di sicurezza che garantisce l’accesso anche alle altre organizzazioni e agenzie umanitarie, la situazione medica è altrettanto grave. Quindi, possiamo dire che le condizioni di vita e la mancanza di assistenza provocano quasi più morti del conflitto stesso…

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Nigeria: liberato il rettore del seminario di Tansi

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Padre Emmanuel Dim, rettore del Seminario maggiore di Tansi in Nigeria, e' stato prima rapito e poi liberato. La notizia del rapimento - riferisce l'agenzia Agi - era stata diffusa dalla Fides, citando padre Hyginus Aghaulor della diocesi di Nnewi. Secondo padre Aghaulor, alle 19 di lunedì 26 settembre, lungo la strada Nkpologwu/Nimbo nello Stato di Enugu, alcuni pastori Fulani pesantemente armati hanno bloccato l'automobile sulla quale viaggiava padre Dim insieme ad altri due sacerdoti. "I tre preti stavano tornando da Nsukka a Onitsha e a Nnewi, quando sono stati attaccati". 

Feriti in modo lieve altri due sacerdoti
Nell'assalto sono rimasti feriti gli altri due sacerdoti, in maniera più leggera, padre Ezeokana che insegna sia al Seminario Maggiore di Onitsha sia alla Nnamdi Azikiwe University di Awka. "Padre Chukwuemeka, cappellano del San Camillus de Lellis College of Health Science, presso la Nnamdi Azikiwe University, a Nnewi,è' stato colpito alla testa da colpi di arma da fuoco ed è stato trasferito dall'ospedale di Enugu a quello di Nnewi". 

La diocesi nega di aver pagato un riscatto
​Secondo la diocesi di Awka non è stato pagato alcun riscatto. “Ringraziamo Dio per il rilascio di padre Emmanuel Dim, rettore del Seminario maggiore di Tansi, senza che sia stato pagato alcun riscatto” si legge in una nota ripresa dall'agenzia Fides. Mons. Paulinus Chukwuemeka Ezeokafor, vescovo di Awka, ha chiesto alle autorità dello Stato di Enugu e a quelle federali di garantire la sicurezza della popolazione, messa a rischio dalle incursioni dei pastori Fulani. (R.P.)

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Lavoro, più occupati. Bobba: decontribuzione per i giovani

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Il tasso di disoccupazione ad agosto è stato delll'11,4%, invariato rispetto al mese precedente. Aumentano però gli occupati. Per il ministro del Lavoro, Poletti, “si conferma lo spostamento dell'occupazione verso il lavoro dipendente stabile”, con una crescita dei 589 mila posti dall’inizio del governo. E qualche buona notizia arriva anche dai prezzi. Il servizio di Alessandro Guarasci

Disoccupazione ferma, ma occupati in aumento ad agosto, di 13 mila unità. In un anno 162 mila persone trovato un  lavoro. Segno che c’è chi si rimette in moto per cercare un posto. Si tratta soprattutto di lavoratori dipendenti e con più di 50 anni. Calano quindi del 2,1% gli inattivi, come cala anche la disoccupazione giovanile. Dal 39,2% di luglio al 38,8% di agosto. Il sottosegretario al Lavoro Luigi Bobba:

R. – Vedere di indirizzare quello che era il sistema di decontribuzione, che è stato molto generoso nel 2015 e un po’ meno generoso nel 2016, in modo più deciso verso i giovani. Secondo, il nostro governo, il ministro Poletti, ha chiesto all’Unione Europea – e sembra esserci una buona disponibilità – di rifinanziare il "Programma Garanzia Giovani", in modo che questo diventi una struttura di servizio, di accompagnamento, di avvicinamento al lavoro in modo stabile, qualcosa che adesso abbiamo sperimentato e che deve continuare in modo da facilitare appunto l’occupabilità del giovane. Terzo, abbiamo avviato questa sperimentazione con il sistema duale, quindi con uno sviluppo del nuovo apprendistato formativo. Ho visto i dati del bimestre di luglio e agosto e sono dati incoraggianti, rispetto allo stesso bimestre dello scorso anno: c’è un aumento che varia tra il 10 e il 15%, a seconda delle diverse regioni. Credo che anche quella via sia un modo di riavvicinare formazione, lavoro, scuola e impresa.

D. – Serve anche una nuova alleanza con il sistema imprese?

R. – Assolutamente sì, perché il governo può creare le condizioni favorevoli perché le imprese investano. Ma se le imprese non investono, i posti di lavoro non arrivano dal cielo. La nostra responsabilità, quindi, è di creare il più possibile attraverso la leva fiscale, attraverso la decontribuzione, attraverso dei servizi di politiche attive del lavoro, un ambiente favorevole perché le imprese tornino a investire. Se gli investimenti crescono, crescerà anche l’occupazione.

Sul fronte dei prezzi, a settembre l'Italia esce dalla deflazione con un aumento dello 0,1% rispetto a settembre 2015.

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Grande imam al-Tayyeb in visita al Consiglio Mondiale delle Chiese

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Il Grande imam della moschea e Università del Cairo Al-Azhar, Ahmad al-Tayyeb, è ospite in questi giorni del Consiglio Mondiale delle Chiese (Wcc) a Ginevra dove domani all’istituto ecumenico di Bossey terrà una conferenza pubblica dal titolo “La responsabilità dei leader religiosi per la pace mondiale” e parteciperà a un dialogo ad alto livello sulla pace interreligiosa. “Siamo onorati di dare il benvenuto – dice il rev. Olav Fykse, segretario generale del Wcc – a uno dei più alti e influenti leader musulmani del mondo a Ginevra, e sono molto desideroso di ascoltare la sua lezione e condividere opinioni con lui sulle sfide che noi, come persone e leader religiosi, siamo chiamati ad affrontare insieme”. 

Camminare insieme sulla via che conduce alla pace giusta
La visita del Grande imam coincide con il 70° anniversario dell’Istituto ecumenico di Bossey dove centinaia di uomini e donne di tutto il mondo hanno completato i loro studi accademici e partecipato a seminari e conferenze fin dalla sua fondazione nel 1946. “Conosciamo – dice il pastore Tveit – l’impegno del professor al-Tayyeb a rafforzare l’importanza del ruolo dei leader religiosi nel lavoro della pace nel nostro mondo e questo sarà l’obiettivo principale delle nostre discussioni nel corso di questi due giorni. Siamo pertanto lieti di dare il benvenuto a lui e ai suoi compagni per camminare insieme sulla via che conduce alla pace giusta”.

Al-Tayyeb è “un sostenitore” del dialogo religioso e della pace
Il Wcc ricorda a questo proposito che al-Tayyeb è stato scelto come Grande imam della moschea di Al Azhar del Cairo nel 2010 ed è “un sostenitore” del dialogo religioso e della pace, così come “una voce di forte critica dell’estremismo religioso”. Nei primi mesi del 2016 ha compiuto una storica visita, in Vaticano, per incontrare Papa Francesco e a Parigi sei mesi dopo gli attacchi terroristici. (R.P.)

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Chiesa Brasile: violenze contro gli indigeni a Minas Gerais

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Il Consiglio Indigenista Missionario (Cimi) denuncia e condanna l’attentato del 23 settembre da parte degli agricoltori (fazendeiros) e di uomini armati contro la comunità indigena Xakriabá di Vargem Grande, nel comune di Itacarambi nel nord dello stato di Minas Gerais. In quell’episodio di violenza un giovane indigeno è stato ferito con pietre e pezzi di legno, i funzionari della Segreteria Speciale della Salute Indigena sono stati minacciati e il missionario del Cimi, il laico Nilton Santos Seixas, è stato aggredito, ma è riuscito a fuggire. Per motivi di sicurezza, Nilton è stato costretto a trasferirsi con la sua famiglia, lasciando la residenza nella città di Itacarambi.

In aumento gli attaccchi contro i popoli indigeni
​"Ci sono forti indicazioni che questi attacchi paramilitari contro i popoli indigeni siano in aumento e si stanno intensificando all'interno del Paese, come sta accadendo nel Mato Grosso do Sul" si legge nella nota del Cimi ripresa dall'agenzia Fides. La situazione nella zona rimane tesa. "Riteniamo estremamente importante che i responsabili dell'attacco alla comunità Xakriabá siano immediatamente identificati, al fine di rispondere dinanzi alla legge del reato commesso". 

Solidarietà al popolo Xakriabá
"Ogni omissione del governo brasiliano al riguardo può servire come combustibile per nuovi attacchi, forse ancor più gravi, contro gli Indigeni e i loro alleati in questa e in altre regioni del Paese". Il comunicato si conclude così: "Il Cimi esprime solidarietà al popolo Xakriabá, ai funzionari e al missionario Nilton Santos Seixas e alla sua famiglia per il fatto verificatosi e le conseguenze che ne derivano". (C.E.)

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Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LX no. 274

E' possibile ricevere gratuitamente, via posta elettronica, l'edizione quotidiana del Bollettino del Radiogiornale. La richiesta può essere effettuata sul sito http://it.radiovaticana.va

Segreteria di redazione: Gloria Fontana, Mara Gentili, Anna Poce e Beatrice Filibeck, con la collaborazione di Barbara Innocenti e Serena Marini.