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Sommario del 26/09/2016

Il Papa e la Santa Sede

Oggi in Primo Piano

Nella Chiesa e nel mondo

Il Papa e la Santa Sede



Greg Burke: Francesco nel Caucaso con un messaggio di pace

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Un viaggio di pace a dimensione ecumenica e interreligiosa. Così il direttore della Sala Stampa vaticana, Greg Burke, ha definito il viaggio di Papa Francesco in Georgia e Azerbaigian, che prende il via venerdì prossimo. Nel briefing con i giornalisti, Burke ha reso noto che il Papa pronuncerà i suoi discorsi in italiano e che è, come di consueto, terrà una conferenza stampa sul volo papale di ritorno da Baku, il 2 ottobre. Il servizio di Alessandro Gisotti

Il 16.mo viaggio internazionale di Papa Francesco avrà un forte valore di pace. E’ quanto sottolineato da Greg Burke che, nel briefing con i giornalisti in Sala Stampa, ha messo l’accento sulla dimensione ecumenica della tappa in Georgia e su quella interreligiosa in Azerbaigian:

“Chiaramente è un viaggio di pace: il Papa porta un messaggio di riconciliazione per tutte la regione. È la prima volta che una delegazione lì in Georgia parteciperà alla Messa del Santo Padre. E anche il Patriarca sarà all’aeroporto quando il Papa arriverà”.

Se dunque in Georgia spiccano gli incontri tra il Papa e la comunità ortodossa locale, in Azerbaigian la dimensione del dialogo interreligioso sarà quella predominante. Momento forte della visita a Baku sarà infatti la visita alla moschea e l’incontro con lo sceicco dei musulmani del Caucaso. Durante il viaggio – in cui il Papa pronuncerà 10 discorsi – non mancherà poi la vicinanza alle popolazioni siriane e irachene sconvolte dalla guerra. In particolare, il Papa pregherà per siriani e iracheni nella visita alla Chiesa cattolica caldea di San Simone Bar Sabbae.

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Mons. Minassian: Papa nel Caucaso, testimone di verità e libertà

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Sono molti i cristiani armeni presenti nella regione caucasica. A questo proposito Gabriella Ceraso ha sentito  mons. Raphael Minassian, ordinario per gli armeni cattolici dell’Europa orientale: 

R. – La nostra presenza in Georgia risale al IV-V secolo. Dirò a Sua Santità che il nostro primo martire per la fede cristiana, San Vardan, veniva dalla Georgia. Tiflis, come si chiamava allora, era la città culturale degli armeni. E gli armeni cattolici oggi in Georgia, soprattutto nei villaggi, sono soprattutto anziani. Non c’è tanta gioventù, i due terzi della gioventù è fuori a lavorare.

D. – Com’è il rapporto, il dialogo con la Chiesa ortodossa?

R. – Non ci sono troppi matrimoni misti e c’è anche un certo nazionalismo. Ma, in fondo in fondo, quello che dà gioia a tutte e due le confessioni è che la loro fede cristiana è profonda. Sono separati, ma vivono per Cristo, ciascuno a modo suo.

D. – Lei, in questo momento, è presidente di Caritas Georgia. Ci può dire quali sono i bisogni a cui rispondete e se c’è, anche sotto questo profilo, una collaborazione con gli ortodossi?

R. – Non hanno una loro Caritas, ma ci sono tanti ortodossi che lavorano nella nostra Caritas. Il nostro lavoro è rivolto soprattutto ai vecchi, agli orfani, alla gioventù o alle famiglie che vivono nella povertà assoluta e agli ammalati. Cerchiamo di assisterli tutti, creando nuovi progetti e dando l’opportunità alla gioventù di lavorare per garantirsi la vita presente e futura.

D. – In Armenia il Papa ha usato un linguaggio molto schietto. Ha anche fatto appello ad una memoria, una memoria positiva, dando e seminando speranza, anche sui temi più spinosi. Che cosa prevede per l’Azerbaigian? Cosa si augura anche per i rapporti reciproci?

R. – Io vedo nella persona di Papa Francesco l’uomo che ha preso la croce di Cristo sulle sue spalle. Lui, rappresentante di Cristo sulla terra, ha da percorrere tutte queste vie, per spiegare efficacemente il significato della verità, della libertà e della pace.

D. – Quindi anche in questa tappa – lei dice – il Papa sarà testimone di tutto questo…

R. – Lo è. Perciò prego che il Signore lo assista da vicino.

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Il Papa riceve il presidente Kabila: pace e dialogo in Congo

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Papa Francesco ha ricevuto in udienza, nel Palazzo Apostolico Vaticano, il Presidente della Repubblica Democratica del Congo, Joseph Kabila, che poi ha incontrato mons. Paul Richard Gallagher, segretario per i Rapporti con gli Stati.

“Durante i cordiali colloqui - riferisce la Sala Stampa vaticana - sono state evocate le buone relazioni esistenti tra la Santa Sede e la Repubblica Democratica del Congo, con particolare riferimento all'importante apporto della Chiesa cattolica alla vita della Nazione con le sue istituzioni di carattere educativo, sociale e sanitario, nonché per lo sviluppo e la riduzione della povertà. In tale contesto, è stata espressa reciproca soddisfazione per la firma dell'Accordo quadro tra la Santa Sede e lo Stato, avvenuta il 20 maggio scorso”.

“Particolare attenzione è stata prestata alle gravi sfide poste dall'attuale situazione politica e ai recenti scontri verificatisi nella capitale. È stata sottolineata l’importanza della collaborazione tra gli attori politici e i rappresentanti della società civile e delle comunità religiose, in favore del bene comune, attraverso un dialogo rispettoso e inclusivo per la stabilità e la pace nel Paese”.

“Infine, ci si è soffermati sulle persistenti violenze che subisce la popolazione nell'Est del Paese, e sull'urgenza di una cooperazione a livello nazionale e internazionale per prestare l'assistenza necessaria e ristabilire la convivenza civile”.

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Mons. Ladaria: Papa vuole valorizzare ruolo delle donne nella Chiesa

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Al via oggi il “Simposio sul ruolo delle donne nella Chiesa”, organizzato dalla Congregazione per la Dottrina della Fede presso l’Istituto di studi Superiori sulla Donna (Issd) dell’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum. Maria Carnevali ne ha parlato con mons. Luis Francisco Ladaria Ferrer, segretario del Dicastero, che oggi ha incontrato il Papa: 

R. – Questo Simposio viene dal desiderio del Santo Padre di approfondire lo studio sulle donne nella Chiesa, in modo che il ruolo delle donne sia sempre più valorizzato. La prima cosa che bisogna dire è che le relazioni in questo convegno per la grandissima maggioranza sono tenute da donne: dunque, qui c'è una presenza femminile anche dal punto di vista teologico. I temi principali sono i fondamenti teologici della vocazione della donna nella vita della Chiesa, la donna nella Scrittura, la donna nella Storia della Chiesa, poi la rivoluzione culturale – in un certo senso – che stiamo vivendo, la prospettiva filosofica e teologica della differenza sessuale, la presenza femminile in ambiti istituzionali della Chiesa, i grandi temi – la Chiesa Sacramento e sposa e madre, con tutte le implicazioni per le donne. Sono grandi temi che saranno trattati da una o due relatrici. Non ci sarà soltanto una visione su ciascuno di questi temi, ma sempre una varietà di punti di vista.

D. – Perché si è sentita la necessità di incontrarsi per dibattere questo tema?

R. – E' stata un’iniziativa del Santo Padre, perché le donne sono almeno la metà dei cristiani e hanno diritto ad avere voce; nella Chiesa cattolica il ministero ordinato è riservato agli uomini, però c’è un ruolo della donna che deve essere sempre più valorizzato. Dunque, questa è la ragione.

D. – Il Santo Padre ha dichiarato la necessità di una profonda teologia della donna: quali potrebbero essere le basi per costruirla?

R. – Bè, è ciò che noi abbiamo cercato di fare in questo simposio: dunque i fondamenti teologici, cosa è stato nella storia, come è stata valorizzata o non valorizzata la donna nella storia, vedere un po’ il passato per andare alle sfide del presente.

D. – Il Santo Padre ha detto ai vescovi brasiliani: “Non riduciamo l’impegno delle donne nella Chiesa, bensì promuoviamo il loro ruolo attivo nella comunità ecclesiale”. Come promuoverlo?

R. – Sempre con iniziative pastorali e con un po’ di immaginazione, sapendo che cambia il mondo e che noi dobbiamo anche cambiare e la Chiesa deve trovare il modo di farsi sempre più presente, in tutti gli ambiti, e qui, la presenza della donna può essere decisiva.

D. – Come è cambiato nel tempo il ruolo delle donne nella Chiesa?

R. – Parlo per la mia esperienza di professore di una facoltà di teologia: in tutte le facoltà di teologia oggi ci sono donne; cinquant’anni fa non capitava … Certo che in altri campi le donne sono sempre state molto presenti. Pensi al campo della sanità, nel campo dell’educazione: qui sono sempre state molto presenti. Ma adesso sono presenti anche in questo luogo della riflessione teologica ed è una questione non secondaria.

D. – Quando il Signore è risuscitato, le prime a cui è apparso sono state proprio le donne …

R. - … era Maria Maddalena ...

D. – Sono state le prime annunciatrici della sua Risurrezione… Qual è il rapporto tra donna e annuncio?

R. – Se noi prendiamo come punti di partenza questi elementi del Nuovo Testamento, vediamo che le donne hanno sempre annunciato il Vangelo e continueranno a farlo.

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Altre udienze di Papa Francesco

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Francesco ha ricevuto questa mattina in Udienza il card. Angelo Scola, Arcivescovo di Milano. Il Papa riceve questo pomeriggio a Casa Santa Marta i Membri del Consiglio Ebraico Mondiale.

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Oggi su "L'Osservatore Romano"

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La malattia dell'indifferenza: ai catechisti il Papa chiede di trovare vie nuove per incontrare e aiutare i poveri.

Giulia Mazza sulla fabbrica dei bambini del Gujarat: viaggio fra le madri surrogate di uno degli Stati più poveri dell'India.

Un articolo di Emilio Ranzato dal titolo "Scontro intrepido": delude il Ben Hur di Timur Bekmambetov.

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Oggi in Primo Piano



Siria: il nunzio Zenari invoca la protezione dei civili

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Dopo nuovi raid in Siria, anche l'ospedale Omar bin Abdelaziz di Aleppo non è al momento operativo. A denunciarlo l’opposizione al regime di Damasco, secondo cui a colpire nelle ultime ore sarebbero stati aerei russi. Proprio Mosca - col portavoce del Cremlino, Dmitri Peskov - ha intanto parlato di toni e dichiarazioni “inammissibili”, replicando alle accuse di “barbarie” e “crimini di guerra” lanciate alla Russia, in sede Onu, da Stati Uniti e Gran Bretagna, circa le operazioni nel Paese mediorientale. In particolare per Aleppo, l'inviato dell'Onu Staffan de Mistura ha denunciato “nuove vette di orrore”. E Save the Children ha rivelato che nella zona orientale della città circa la metà delle vittime che i propri operatori stanno estraendo dalle macerie o dei feriti che stanno curando negli ospedali, in seguito ai bombardamenti, è rappresentata da bambini. Giada Aquilino ha intervistato il nunzio apostolico a Damasco, l’arcivescovo Mario Zenari, in questi giorni in Italia: 

R. – Purtroppo qui non si è mai risolta la questione della protezione dei civili. A pagare le spese, le conseguenze più terribili di questo conflitto è l’inerme popolazione civile, tra cui un numero assai elevato di bambini. Occorre finirla con questa situazione. Purtroppo è un conflitto in cui non vengono rispettate le norme del diritto umanitario internazionale, quelle più elementari, come appunto la protezione dei civili.

D. – In particolare ad Aleppo, ha detto l’inviato dell’Onu de Mistura, ci sono 270 mila persone “sotto assedio”. Cosa si rischia?

R. – Ho detto già qualche settimana fa che la popolazione di Aleppo, soprattutto quella della parte est, rischia di essere messa “a fuoco e fame”. E’ una situazione inaccettabile. E’ una vergogna per la comunità internazionale che non si riesca a proteggere un numero così elevato di persone, questa inerme comunità, popolazione civile: questi 270 mila, o quanti sono, non sono tutti terroristi, la maggioranza è popolazione civile, cioè donne, bambini, anziani.

D. – Qual è l’appello alla comunità internazionale che in queste ore si è riunita a New York - e non solo - e sembra non riuscire raggiungere un accordo sulla tregua in Siria?

R. – Quello che sta succedendo è non solo sulla coscienza in gran parte di coloro che hanno la possibilità di fermare questo conflitto o di far rispettare il diritto umanitario internazionale, ma direi è una vergogna che pesa sulla coscienza di tutti.

D. – La popolazione cosa chiede?

R. – Chiede la fine della guerra e i diritti fondamentali: poter mangiare, avere l’acqua, non essere sotto assedio, sotto le bombe, sotto i tiri dei cannoni. Perché la gente è stanca di questo conflitto. Occorre che la comunità internazionale, che deve essere spinta anche dalla coscienza universale di noi tutti, aiuti a farla finita con la guerra e faccia rispettare una volta per tutte il diritto umanitario internazionale, quindi la protezione dei civili, di quelli che non c’entrano niente con questa guerra, l’accesso al cibo, all’acqua, alle cure sanitarie.

D. – Gli aiuti internazionali stanno arrivando?

R. – Gli aiuti internazionali - è qui il dramma - ci sono. Questi convogli sono alle porte e spesso sono bloccati o alle volte anche attaccati, come è successo il 19 di questo mese. Anche in questo caso, è una vergogna che pesa sulla coscienza di tutti.

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Colombia: governo e Farc firmano l'accordo di pace

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Dopo 52 anni di conflitto interno, la Colombia vive oggi una importante pagina di storia. Oggi comincia a Cartagena de Indias l’imponente cerimonia che prevede, nel corso della giornata - alle ore 17.00 locali - la firma dell’accordo di pace tra il governo colombiano Juan e le Forze armate rivoluzionarie della Colombia (Farc). Allo storico evento presenziano tra gli altri il cardinale segretario di Stato Pietro Parolin, in rappresentanza del Papa, e il Presidente cubano Raul Castro che ha sostenuto le trattative di pace tenutesi all’Avana. Il servizio di Amedeo Lomonaco

L’accordo di pace può rompere un altro muro in America Latina. Dopo il ripristino delle relazioni tra Stati Uniti e Cuba, avvenuto anche grazie alla mediazione della Santa Sede, in Colombia la via della pace può finalmente prevalere sulla strada della guerra, che ha seminato morte e odio. Ai negoziati, durati 4 anni, anche la Santa Sede ha dato un contributo decisivo. Per la Colombia quella odierna può rivelarsi una data spartiacque tra un passato di violenze e – si spera - un futuro di pace. In oltre 50 anni di guerra, sono morte più di 220 mila persone e quasi sette milioni di colombiani hanno perso le loro abitazioni. Per costruire un futuro nel segno della riconciliazione, l’accordo risponde a 6 nodi cruciali: giustizia per le vittime, accesso alla terra per i contadini poveri, partecipazione politica degli ex guerriglieri, lotta al traffico di droga, disarmo degli ex ribelli, attuazione e monitoraggio dell'intesa stessa. Ma la firma che oggi viene posta dal Presidente colombiano Juan Manuel Santos e dal comandante delle Farc Rodrigo Londoño, conosciuto con il nome di “Timochenko”, non è l’ultimo sigillo dell’accordo. L’intesa, che dovrà essere applicata con la supervisione dell’Onu, sarà infatti sottoposta il prossimo 2 ottobre a referendum popolare. L’ultima parola spetterà ai colombiani.

Per la Colombia è dunque una pagina importante ma non l’ultimo sigillo di pace. E’ quanto sottolinea, al microfono di Amedeo Lomonaco il sacerdote colombiano, padre Gonzalo Flórez

R. – E’ una pagina abbastanza importante perché, attraverso questo accordo, il Paese può raggiungere la pace. Diciamo che è l’inizio. Con questa firma si può pensare che la pace sia una possibilità vera per la nostra nazione.

D. - E’ un inizio perché l’ultima parola spetterà ai colombiani con un referendum il prossimo 2 ottobre …

R. – Sì,diciamo che è un po’ complesso: ci sono alcuni che credono che sia possibile trovare la pace, ma al contrario ci sono alcuni altri che non credono che la pace sia possibile. Pensano che manchino ancora alcune cose per trovare la soluzione vera. La nostra preoccupazione adesso deve essere soprattutto per le persone più deboli: i bambini, gli adolescenti. Così possiamo costruire la vera società, una società nella quale si possa riconoscere la pace. Questo è un inizio. La vera riconciliazione non si è fatta, manca tanto. Una vera riconciliazione ha bisogno di essere costruita ogni giorno, soprattutto nel cuore, che è ferito per tutta questa storia nella quale sono accadute tante cose brutte. Adesso bisogna riparare questa ferita del cuore che all’interno del nostro Paese è una ferita storica: questo è il problema. La vera riconciliazione è guarire la ferita che è stata inferta nel corso della storia. Questa sarà anche per me la vera riconciliazione.

D. – Una ferita che tocca tutto il popolo colombiano …

R. – E’ vero: tocca direttamente o indirrettamente ognuno di noi, perché questa storia, questa ferita ha toccato ognuno di noi. Tutti noi possiamo seguire i passi di Gesù che è l’uomo della pace. La pace non è un ideale lontano, la pace è una realtà che possiamo vivere adesso, non possiamo più aspettarla: e questo è il messaggio che la Chiesa può dare oggi, pensando sempre ai più poveri, ai più deboli, a coloro che hanno più bisogno e più necessità.

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Messico: ucciso il terzo sacerdote sequestrato

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Ancora un sacerdote ucciso in Messico. Si tratta di Jose Alfredo Lopez Guillen: era stato sequestrato e derubato lunedì scorso quando si trovava nella sua abitazione nello Stato di Michoacan. Si tratta del terzo caso nel Paese nell'ultima settimana. Sempre lunedì scorso infatti i corpi di altri due sacerdoti rapiti erano stati trovati sul ciglio di una strada di Veracruz, sulla costa orientale del Paese. Ieri all’Angelus la preghiera del Papa per il “caro popolo messicano”, “perché - ha detto Francesco - cessi la violenza che in questi giorni ha colpito anche alcuni sacerdoti”. Sulla situazione, Paolo Ondarza ha intervistato la collega messicana Mercedes De La Torre, collega spagnola della Radio Vaticana: 

R. – Ha fatto molto piacere ricevere questo messaggio dal Papa, direttamente dall’Angelus, perché sono tanti i messicani che lo seguono in diretta dall’altra parte del mondo. E’ interessante ricordare che il Papa aveva inviato un telegramma recentemente, in cui esprimeva le vive condoglianze e diceva di voler condannare questi attentati alla vita e alla dignità delle persone e chiedeva al Clero e agli agenti pastorali della diocesi di continuare con energia la loro missione ecclesiale, nonostante le difficoltà e seguendo l’esempio di Gesù, il Buon Pastore.

D. – Come vive la Chiesa questi momenti così drammatici? Come i vivono i sacerdoti?

R. – Fa sempre piacere sentire che il Papa è vicino, perché noi messicani amiamo tanto il Pontefice: sia Giovanni Paolo II, che è venuto cinque volte, sia Benedetto XVI e sia adesso Francesco, che è anche latinoamericano. Come lo vive il Messico? Lo vive con tristezza, con paura. Tutti i messicani sono “guadalupani” e quasi tutti si dicono cattolici. Il clero, la Conferenza episcopale sta rispondendo con molta unità a questo messaggio di preghiera, di condanna alla criminalità e allo stesso tempo di fiducia e di speranza. Il cardinale Alberto Suárez Inda, che è proprio l’arcivescovo di Michoacan e che è stato il pastore di padre Lopez Guillen, poco tempo fa in un videomessaggio chiedeva ai rapitori di rispettare l’integrità di questa vita, perché così potesse tornare presto all’esercizio del suo ministero; lui chiedeva a Dio la pace, il rispetto della vita e la conversione di chi fa queste cose.

D. – Questi sacerdoti sono, dunque, degli esempi molto forti per i fedeli e la Chiesa messicana. Si può cercare di capire perché sono stati colpiti alcuni sacerdoti e cosa c’è dietro questi sequestri?

R. – E’ molto difficile fare una panoramica di questa situazione. So che c’è una situazione molto complicata in tanti Paesi dell’America Latina e nel caso del Messico, purtroppo, ci sono diversi cartelli sia del narcotraffico che di altri tipi di criminalità organizzata. Allo stesso tempo, però, il popolo vive anche con fiducia, con speranza. Il popolo messicano è un popolo che non si arrende mai: prova anche a pregare, perché arrivi la pace dall’alto.

D. – Fatti così drammatici non tolgono la speranza al popolo e alla Chiesa messicana…

R. – Grazie a Dio, la Madonna di Guadalupe, che protegge il popolo messicano, dice che i messicani non sono mai da soli e che Lei, la Madonna, li proteggerà. Perciò penso che dietro a questo momento difficile, ci sia voglia di speranza, pace e, possiamo dire, anche di ottimismo.

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Giordania. Scrittore ucciso: cresce la radicalizzazione nel Paese

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L’uccisione, nella giornata di ieri, dello scrittore giordano Nahid Hattar per mano di un fondamentalista religioso, ripropone interrogativi sulla stabilità della Giordania e sul suo ruolo nello scacchiere mediorientale. Hattam era sotto processo per aver condiviso sul suo profilo Facebook una vignetta blasfema sull’Islam ed è stato colpito, fuori dal tribunale. Andrea Walton ha affrontato il tema della situazione politica giordana con Stefania Azzolina, analista per il Medio Oriente e Nord Africa del Ce.S.I.  di Roma: 

R. - Per quanto riguarda l’attuale situazione politica del regno giordano, in questo momento possono aiutarci i risultati delle consultazioni elettorali della scorsa settimana, che di fatto hanno reso noti due elementi fondamentali. Il primo è proprio il rafforzamento di quella Fratellanza musulmana che di fatto aveva subito negli ultimi mesi un forte giro di vite da parte sia dell’intelligence sia delle forze di sicurezza giordane; ovviamente, questo non rappresenta un dato importante – ricordiamo che il potere esecutivo è comunque in mano al re – ma dà il sentore, appunto, di una maggiore radicalizzazione di alcuni strati della popolazione.

D. – Qual è il ruolo della Giordania nello scacchiere mediorientale?

R. – La Giordania in questo momento è impegnata all’interno della coalizione internazionale, nella lotta al sedicente Stato islamico sia in Siria sia in Iraq, quindi in questo momento svolge un ruolo fondamentale anche di offerta di supporto logistico alla coalizione internazionale. Più in generale, la Giordania ha sempre rappresentato uno degli alleati fondamentali degli Stati Uniti in Medio Oriente.

D. – C’è il rischio di infiltrazioni dell’Isis?

R. – Purtroppo, la Giordania rischia molto; rischia soprattutto da due punti di vista: quello securitario, sia per quanto riguarda il flusso di emigrati che scappano dai Paesi confinanti in guerra, soprattutto appunto dalla Siria, e che rischiano di creare delle forti tensioni; sul piano, invece, securitario  proprio questi territori a Nord del Paese, queste regioni a Nord del Paese hanno visto moltiplicarsi una serie di attentati nei confronti delle forze di sicurezza giordane 

D. – Qual è il livello di stabilità del governo giordano?

R. – La Giordania rappresenta uno dei Paesi più stabili dello scacchiere mediorientale: sul piano interno, infatti, al momento ancora non si sono avute grandi manifestazioni nei confronti della monarchia.

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Rapporto Oxfam: 2,5 miliardi depredati dalle loro terre

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“Custodi della terra, difensori del nostro futuro”, così titola il Rapporto dell’associazione umanitaria Oxfam pubblicato oggi per denunciare il grave e crescente fenomeno dell’accaparramento terriero, ai danni delle popolazioni indigene o autoctone, che vedono negato ogni loro diritto alla proprietà terriera, a favore di soggetti economicamente forti. Roberta Gisotti ha intervistato Giorgia Ceccarelli, responsabile del settore giustizia alimentare di Oxfam-Italia: 

R. – E’ un fenomeno globale che investe più di 2,5 miliardi di persone, ovvero uomini e donne appartenenti a popoli indigeni e comunità locali, che abitano una vastità di terra pari a più della metà delle terre emerse nel nostro pianeta. Il problema principale è che di tutta questa terra - effettivamente abitata, coltivata da queste persone – solo il 10% risulta di loro proprietà.

D. – Dott.ssa Ceccarelli, questo fenomeno sta creando problemi di violenze…

R. – E’ vero, si è contato che solo nel 2015, tra gli attivisti a favore della terra e i difensori dell’ambiente, siano state uccise due persone a settimana. E, se pensiamo che la maggior parte dei contratti sulle acquisizioni di terra su larga scala diventeranno operativi nei prossimi mesi ed anni, ciò vuol dire che nel prossimo periodo moltissime persone in più verranno cacciate dalla loro terra, per far posto a grandi investimenti, per far posto allo sviluppo del settore turistico, per far posto allo sviluppo del settore energetico e allo sfruttamento del territorio.

D. – Ecco, lei ha detto “per far posto allo sviluppo”, quindi detto così sembra un fatto positivo, ma c’è un risvolto della medaglia in questo sviluppo…

R. – Esattamente. Si conta che in Africa circa l’80% delle terre siano terre non documentate. E questo che cosa vuol dire? Che effettivamente sono abitate da qualcuno, ovvero da questi popoli indigeni, che però non hanno la possibilità di dimostrare l’effettiva proprietà di quelle terre, che vengono essenzialmente concepite come terra libera, terra governativa, terra che può essere utilizzata per qualsiasi piano industriale e per lo sviluppo di qualsiasi altro settore economico. Solo nel 14% dei casi viene instaurato un dialogo con queste comunità, che vengono dunque informate e rese consapevoli di ciò che succederà nelle loro terre, e a cui vengono accordati anche degli incentivi e delle misure compensatorie per la terra che perdono. Questo, purtroppo, però, succede in rarissimi casi.

D. – E, di questo sviluppo di cui si parla non vanno, in genere, a beneficiare queste popolazioni …

R. – No, la maggior parte no. La disuguaglianza è crescente in tutte le parti del mondo. E’ molto raro che effettivamente queste persone possano beneficiare di alcuni di questi grandi progetti. A volte possono essere sicuramente impiegate in questi progetti e in queste strutture, ma non è sempre così. Comunque, vengono costrette ad affrontare una vita diversa da quella che facevano e vorrebbero continuare a fare.

D. – L’Oxfam lancia una campagna “Diritto alla terra ora”. Come sarà portata avanti?

R. – “Land Rights Now” in realtà è una campagna globale, cui partecipa Oxfam, insieme ad altre 300 organizzazioni. Cercheremo di attivare il più possibile i cittadini su petizioni specifiche. In particolare, parte in questi giorni una petizione per le zone della comunità di Paanama nello Sri Lanka, una comunità che dal 2010 è stata sfrattata - in modo molto violento e nel giro di una sola notte - dalle proprie terre. Si tratta di 350 famiglie che stanno lottando da sei anni per rientrare nelle loro terre, che sono state utilizzate dal governo per costruire una nuova base militare e per sviluppare il settore del turismo. Va ricordato, inoltre, che un governo neoeletto l’anno scorso ha effettivamente decretato che quelle terre sono degli indigeni e che vanno restituite, ma purtroppo per questioni burocratiche e di corruzione a livello locale, a distanza di più di un anno, ancora non si è fatto nulla per restituire neanche un ettaro di terra usurpata.

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Nella Chiesa e nel mondo



Giordania. Mons. Lahham: omicidio Hattar è politico e non religioso

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Il brutale assassinio dell'intellettuale e attivista politico giordano Nahed Hattar, ucciso ieri a Amman davanti all'ingresso del tribunale, provoca lo sdegno e il cordoglio anche dei cattolici giordani. L'arcivescovo Maroun Lahham, vicario patriarcale per la Giordania del Patriarcato latino di Gerusalemme, esprime la riprovazione di tutta la comunità per l'efferato delitto, che comunque a suo giudizio non va presentato come un crimine causato da un movente di natura religiosa. “Il fattore scatenante” riferisce all'agenzia Fides l'arcivescovo Lahham, “è politico-ideologico. E non religioso”. Un concetto espresso anche in un comunicato diffuso dal vicariato patriarcale, dove si rimarca che “le differenze politico-ideologiche devono essere trattate e affrontate con gli strumenti del dialogo e del confronto, e non devono mai portare alla morte e allo spargimento di sangue”.

Non compromettere l'unità nazionale
Il comunicato del vicariato contiene anche un'invocazione all'Onnipotente affinchè “protegga la nostra cara Giordania da ogni intendimento che punta a compromettere l'unità nazionale, e il Paese si rafforzi sotto la guida di Sua Maestà il Re Abdallah II Ibn al Hussein”. Il messaggio esprime anche le condoglianze a tutti i familiari dell'intellettuale assassinato. Nahed Hattar apparteneva a una famiglia cattolica di rito latino, ma non era credente. Già da studente era conosciuto per la sua adesione militante a posizioni politiche ipercritiche di sinistra. In passato aveva in più occasioni dovuto difendere in tribunale le sue opinioni, anche dall'accusa di aver denigrato la Monarchia Hascemita.

Hattar aveva risposto alle accuse autodefinendosi non credente
Ad agosto, l'intellettuale 56enne era stato chiamato a giudizio per aver condiviso su facebok una vignetta intitolata “il dio di Daesh”, in cui si ritraeva un noto jihadista dell'auto-proclamato Stato Islamico (Daesh) e recentemente ucciso da un raid americano, mentre nella sua tenda in paradiso, a letto con due donne, ordinava a Dio in maniera sprezzante di portargli un bicchiere di vino. Il rilancio della vignetta da parte del noto intellettuale aveva suscitato reazioni risentite sui social media, con attacchi feroci che colpivano Hattar anche in quanto “cristiano”. Lui aveva risposto alle accuse autodefinendosi “non credente”, mentre i gruppi islamisti facevano appello alle autorità civili chiedendo che fossero perseguiti per legge quanti diffondono materiale che mina l'unità nazionale. Contro Hattar era stato spiccato un mandato d'arresto il 12 agosto. L'intellettuale era stato rinviato a giudizio, anche con l'accusa di aver diffuso “materiale teso a colpire il sentimento e il credo religioso”.

Mons. Lahham si augura che i parlamentari islamisti entrino nella dialettica politica
​I risultati delle elezioni legislative giordane svoltesi la scorsa settimana hanno confermato che il blocco guidato dal Fronte d'Azione Islamico, braccio politico dei Fratelli Musulmani nel Regno Hascemita, è tornato in Parlamento, ottenendo 15 seggi su 130, dopo che le forze islamiste avevano boicottato le elezioni legislative nel 2010 e nel 2013. Si tratta del blocco politico più compatto e organizzato, visto che gli altri candidati eletti sono in buona parte rappresentanti di gruppi clanici o tribali uniti tra loro soltanto dal condiviso lealismo nei confronti della Monarchia Hascemita. “In ogni caso” ha riferito a Fides l'arcivescovo Lahham “non è detto che i parlamentari islamisti si porranno in una posizione di opposizione frontale nei confronti dell'attuale assetto politico della Giordania: gli elementi più fanatici non sono stati eletti, e quelli tra loro che sono entrati in Parlamento rappresentano l'ala politica più competente, in grado di trattare con gli altri parlamentari e con il governo secondo le logiche proprie della dialettica politica”. (G.V.)

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Aleppo: preghiera dei bambini per implorare la fine delle stragi

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Centinaia di bambini e bambine di Aleppo, cristiani e musulmani, si incontreranno il 6 ottobre, per chiedere con le loro preghiere che nella città martoriata in cui vivono, e in tutta la Siria, si fermi la spirale di morte scatenatasi in questi ultimi giorni con particolare crudeltà proprio sui più piccoli e inermi. Lo riferisce all'agenzia Fides l'arcivescovo Boutros Marayati, alla guida dell'arcieparchia armena cattolica di Aleppo. 

L'evento coinvolgerà in primo luogo gli alunni delle scuole
L'iniziativa, partita su impulso dei Padri Francescani, coinvolgerà in primo luogo gli alunni delle scuole. Metteranno anche le loro firme e le loro impronte su un appello per chiedere ai potenti del mondo di porre fine alle stragi che si accaniscono con particolare crudeltà sui bambini, che in tutte le guerre sono i più vulnerabili. “Ma soprattutto pregheranno. Pregheranno per tutti i loro coetanei. E confidiamo nel fatto che la preghiera dei bambini è più potente della nostra”, aggiunge l'arcivescovo Marayati.

Molte persone sono intrappolate ad Aleppo
​I bombardamenti e le stragi di civili hanno manifestato proprio a Aleppo in maniera devastante il naufragio della tregua fragile e parziale proclamata meno di due settimane fa. A questo riguardo, l'arcivescovo Marayati è in grado di fornire notizie di prima mano su ciò che sta avvenendo nella metropoli siriana: “Mercoledì scorso - riferisce l'arcivescovo armeno cattolico – i rappresentanti del governo e dell'esercito siriani hanno convocato una riunione per spiegare che di lì a poco avrebbero diffuso un appello alla popolazione civile insediata nei quartieri sotto il controllo dei ribelli. L'appello, diffuso con la televisione e coi social network, avvertiva che sarebbero stati lasciati aperti dei varchi per permettere alla popolazione di lasciare quei quartieri, e dirigersi in aree indicate come sicure, senza timore di subire rappresaglie. In effetti, molte famiglie di civili hanno lasciato quei quartieri e sono state accolte nella zona controllata dall'esercito governativo, a conferma che l'appello era in qualche modo arrivato a destinazione. Per i gruppi che arrivavano, sono state predisposte anche strutture abitative per l'accoglienza. Ma non è stata un'evacuazione di massa. Forse molti non possono uscire". (G.V.)

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Vescovi Venezuela: si violano i diritti fondamentali dei detenuti

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La Conferenza episcopale venezuelana (Cec) ha espresso la sua preoccupazione per la situazione carceraria nel Paese e ha esortato le autorità a garantire i diritti dei prigionieri, come stabilito dalla Costituzione e dal Codice penale. Lo ha fatto con un comunicato pubblicato nella festa della Madonna delle Mercede, firmato dall'arcivescovo di Coro, mons. Roberto Luckert, presidente della Commissione Giustizia e Pace della Cev. 

Rispetto dei diritti e delle garanzie dei detenuti e delle loro famiglie
Esortiamo "il governo, attraverso i suoi organi competenti, a rispettare e a far rispettare i diritti e le garanzie di cui godono i detenuti e le loro famiglie" si legge nel comunicato ripreso dall'agenzia Fides. Il testo sottolinea: "chiediamo ai funzionari di ricercare la giustizia, il senso di equità e la tempestività nel loro lavoro", perché nelle carceri venezuelane si stanno violando i diritti fondamentali dei detenuti.

Elencate tutte le carenze delle carceri
A tale proposito vengono citati il sovraffollamento delle carceri, la "totale mancanza” di strutture e di regole sanitarie, "l'uso eccessivo della forza da parte delle autorità", il ritardo nei processi giudiziari, l'esistenza di gruppi di detenuti con il permesso di commettere attività criminali all'interno del carcere. Inoltre le famiglie dei prigionieri subiscono trattamenti "inumani e degradanti".

I prigionieri politici subiscono un trattamento duro
Questa situazione è stata segnalata anche dall'opposizione politica in Parlamento, in modo particolare i prigionieri politici subiscono un trattamento duro, con l'isolamento. Il 4 settembre Tarek William Saab, Defensor del Pueblo (organismo per la difesa dei diritti dei cittadini), ha denunciato il sovraffollamento delle carceri del Paese, definendolo "inaudito", in quanto viene superata fino a dieci volte la capacità delle strutture penitenziarie, con più di 30.000 detenuti in tutto il territorio. In particolare sono coinvolti quelli in attesa di processo e quanti aspettano di essere trasferiti nei Centri di detenzione e sono ancora nelle caserme della polizia o della guardia nazionale. (C.E.)

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Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LX no. 270

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