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Sommario del 21/09/2016

Il Papa e la Santa Sede

Oggi in Primo Piano

Nella Chiesa e nel mondo

Il Papa e la Santa Sede



Papa: il mondo ha bisogno di misericordia, mai condannare l’altro

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Il cristiano deve sempre perdonare, “l’amore misericordioso” è “l’unica via da percorrere”. E’ quanto affermato da Francesco all’udienza generale in Piazza San Pietro, dopo aver salutato un gruppo di malati in Aula Paolo VI. Il Papa ha quindi avvertito che giudicare l’altro è sbagliato perché la condanna “disprezza la misericordia di Dio”. Il servizio di Alessandro Gisotti

"Siate Misericordiosi come il Padre”. Papa Francesco ha preso spunto dal motto del Giubileo per sottolineare che quando Gesù ci chiede di essere misericordiosi “come il Padre, non pensa alla quantità” ma chiede ai suoi discepoli di “diventare segno, canali, testimoni della sua misericordia”. La Chiesa, ha ribadito, “non può che essere sacramento della misericordia di Dio nel mondo, in ogni tempo e verso tutta l’umanità”.

Tutti abbiamo bisogno del perdono di Dio e tutti dobbiamo perdonare
Ma cosa significa dunque essere misericordiosi per un cristiano, si chiede il Papa? La misericordia, osserva Francesco, “si esprime anzitutto nel perdono”:

“Il cristiano deve perdonare! Ma perché? Perché è stato perdonato. Tutti noi che stiamo qui, oggi, in piazza, tutti noi, siamo stati perdonati. Nessuno di noi, nella sua vita, non ha avuto bisogno del perdono di Dio. E perché noi siamo stati perdonati, dobbiamo perdonare”.

Condannare il fratello è disprezzare la misericordia di Dio
Bisogna “perdonare le offese – ha ripreso – perdonare tante cose, perché noi siamo stati perdonati” per tanti peccati. “Se Dio ha perdonato me – si domanda il Papa – perché non devo perdonare gli altri? Sono più grande di Dio?”:

“Giudicare e condannare il fratello che pecca è sbagliato. Non perché non si voglia riconoscere il peccato, ma perché condannare il peccatore spezza il legame di fraternità con lui e disprezza la misericordia di Dio, che invece non vuole rinunciare a nessuno dei suoi figli. Non abbiamo il potere di condannare il nostro fratello che sbaglia, non siamo al di sopra di lui: abbiamo piuttosto il dovere di recuperarlo alla dignità di figlio del Padre e di accompagnarlo nel suo cammino di conversione.

L’amore misericordioso è l’unica via da percorrere
“Perdonare è il primo pilastro – ha detto – donare è il secondo pilastro”. Ed ha osservato che Dio dona “ben al di là dei nostri meriti, ma sarà ancora più generoso con quanti qui in terra saranno stati generosi”:

“L’amore misericordioso è perciò l’unica via da percorrere. Quanto bisogno abbiamo tutti di essere un po’ più misericordiosi, di non sparlare degli altri, di non giudicare, di non “spiumare” gli altri con le critiche, con le invidie, con le gelosie. No! Perdonare, essere misericordiosi, vivere la nostra vita nell’amore e donare”.

Abbiate un cuore pieno di amore, non un cuore di pietra
La carità, ha detto, “permette ai discepoli di Gesù di non perdere l’identità ricevuta da Lui, e di riconoscersi come figli dello stesso Padre”. E ancora, ha esortato i pellegrini a non dimenticarsi del binomio “perdono e dono” che alimenta la misericordia:

“Così il cuore si allarga, si allarga nell’amore. Invece l’egoismo, la rabbia, fa il cuore piccolo, piccolo, piccolo, piccolo e si indurisce come una pietra. Cosa preferite voi? Un cuore di pietra? Vi domando, rispondete: [rispondono: “No!”] Non sento bene… [rispondono: “No!”] Un cuore pieno di amore? [rispondono: “Sì!”] Se preferite un cuore pieno di amore, siate misericordiosi!”

Al momento dei saluti ai pellegrini, il Papa ha rivolto un pensiero speciale ai pellegrini turchi, presenti in Piazza San Pietro, e in particolare i fedeli della arcidiocesi di Smirne, guidati dal loro pastore mons. Lorenzo Piretto. “Cari fratelli e sorelle – ha detto il Papa – questa esperienza di grazia vi aiuti a rimanere sempre saldi nella fede e a testimoniare il vangelo della misericordia nella vita di tutti i giorni”.

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Papa ad Assisi: guerra non è mai santa, credenti siano artigiani di pace

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La preghiera e l’impegno sono cardini per la costruzione di una famiglia di popoli, la violenza e il terrorismo si oppongono al vero spirito religioso. Così in sintesi l’Appello per la Pace 2016 letto ad Assisi davanti ad oltre 500 leader religiosi provenienti da tutto il mondo. Il messaggio chiude la tre giorni organizzata dalla Comunità di Sant’Egidio, dalla diocesi della città umbra e dalle Famiglie Francescane sul tema: “Sete di Pace: religioni e culture in dialogo”. “Non ci stanchiamo di ripetere che mai il nome di Dio può giustificare la violenza”, ha ribadito Papa Francesco nel suo discorso, esortando tutti ad “essere costruttori” di pace, di “cui l’umanità è assetata”. Il nostro inviato Massimiliano Menichetti

"Chi invoca il nome di Dio per giustificare il terrorismo, la violenza e la guerra, non cammina nella Sua strada: la guerra in nome della religione diventa una guerra alla religione stessa. Con ferma convinzione, ribadiamo dunque che la violenza e il terrorismo si oppongono al vero spirito religioso".

E’ questo l’appello consegnato fisicamente ai bambini dai leader religiosi venuti da ogni parte del mondo in un’Assisi stracolma di pellegrini e fedeli. Un mandato al dialogo, all’incontro da portare a tutte le nazioni, affinché “si apra” “un nuovo tempo, in cui il mondo globalizzato diventi una famiglia di popoli”. Trent’anni dopo la storica iniziativa voluta da San Giovanni Paolo II, la terra di San Francesco illumina ancora una volta il globo intero con la “lampada della pace”. Tanti i momenti indimenticabili, come il sorriso del Papa ricambiato da Bartolomeo I, Patriarca Ecumenico di Costantinopoli, in un abbraccio tutto proiettato al futuro. Ripudio della violenza, dialogo, rispetto del Creato, centralità della preghiera sono stati i cardini di questi tre giorni intensissimi riassunti e declinati nel messaggio finale. E il Papa nel suo discorso, alla cerimonia conclusiva, riprendendo il tema dell’incontro internazionale dice che tutti “abbiamo sete di pace”:

“Abbiamo sete di pace, abbiamo il desiderio di testimoniare la pace, abbiamo soprattutto bisogno di pregare per la pace, perché la pace è dono di Dio e a noi spetta invocarla, accoglierla e costruirla ogni giorno con il suo aiuto”.

Francesco definisce poi l’indifferenza la “grande malattia del nostro tempo”:

"E' un virus che paralizza, rende inerti e insensibili, un morbo che intacca il centro stesso della religiosità, ingenerando un nuovo, tristissimo paganesimo: cioè, il paganesimo dell'indifferenza".

Il Papa, di fronte a un mondo dilaniato da guerre che generano “povertà”, e “sofferenza”, ricorda il recente viaggio sull’isola greca di Lesbo con Bartolomeo I. Evoca gli occhi dei “rifugiati”, dei “bambini”, degli “anziani” in cui è impressa la paura, “il dolore della guerra, l’angoscia di popoli assetati di pace”. “Non c’è nessun domani nella guerra”, dice, sottolineando l’impegno a voler dar voce a quanti soffrono e sono senza voce, senza ascolto:

“Noi non abbiamo armi. Crediamo però nella forza mite e umile della preghiera. In questa giornata, la sete di pace si è fatta invocazione a Dio, perché cessino guerre, terrorismo e violenze”.

Poi ribadisce le diversità delle tradizioni religiose e cita San Giovanni Paolo II nel dire che la pace invocata ad Assisi non è una semplice protesta contro la guerra e nemmeno è il risultato di negoziati, compromessi politici o di mercanteggiamenti economici, ma della preghiera. "Diverse sono le nostre tradizioni religiose - continua - ma la differenza non è per noi motivo di conflitto, di polemica o di freddo distacco":

"Oggi non abbiamo pregato gli uni contro gli altri, come talvolta è purtroppo accaduto nella storia. Senza sincretismo e senza relativismo, abbiamo invece pregato gli uni accanto agli altri, gli uni per gli altri".

"Chi utilizza la religione per fomentare la violenza ne contraddice l'ispirazione più autentica e profonda". "Ogni forma di violenza - prosegue - non rappresenta la vera natura della religione, è invece il suo travisamento e contribuisce alla sua distruzione":

“Non ci stanchiamo di ripetere che mai il nome di Dio può giustificare la violenza. Solo la pace è santa e non la guerra!”.

Il Papa parla ai leader delle religioni e ritorna sulla forza e concretezza della preghiera, che chiede mobilitazione delle "coscienze" per la difesa della "sacralità della vita umana", "la pace tra i popoli" e la "custodia del Creato". Preghiera, "volontà" e collaborazione per scongfiggere conflitti e "atteggiamenti ribelli" e costruire una pace vera:

"Non illusoria, non la quiete di chi schiva le difficoltà e si volta dall'altra parte, se i suoi interessi non sono toccati; non il cinismo di chi si lava le mani di problemi non suoi; non l'approccio virtuale di chi giudica tutto e tutti sulla tastiera di un computer senza aprire gli occhi alle necessità dei fratelli e sporcarsi le mani per chi ha bisogno".

Francesco chiede di immergersi nelle situazioni e “dare il primo posto a chi soffre; di assumere i conflitti e sanarli dal di dentro; di percorrere con coerenza vie di bene, respingendo le scorciatoie del male”:

“Pace, un filo di speranza che collega la terra al cielo, una parola tanto semplice e difficile al tempo stesso”.

Poi declina la pace in un percorso di quattro parole: “Perdono”, “Accoglienza”, “Collaborazione” ed “Educazione”. Per gettare ponti d'incontro, di conversione, dialogo, collaborazione ed acquisire la cultura dell'incontro. "Il nostro futuro è vivere insieme - incalza - per questo siamo chiamati a liberarci dai pesanti fardelli della diffidenza, dei fondamentalismi e dell'odio":

“I credenti siano artigiani di pace nell’invocazione a Dio e nell’azione per l’uomo! E noi, come Capi religiosi, siamo tenuti a essere solidi ponti di dialogo, mediatori creativi di pace”.

Ma l'appello è anche ai "Leader delle Nazioni perché non si stanchino di cercare e promuovere vie di pace, guardando al di là degli interessi di parte e del momento":

"Non rimangano inascoltati l'appello di Dio alle coscienze, il grido di pace dei poveri e le buone attese delle giovani generazioni".

Quindi, riprendendo l'esortazione che fece trent'anni fa San Giovanni Paolo II, ovvero che "la pace è un cantiere aperto a tutti", ha esortato a questa assunzione di responsabilità per essere "insieme costruttori della pace che Dio vuole e di l'umanità è assetata".

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Il Papa: i cristiani siano uniti nella compassione per i sofferenti

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Le vittime delle guerre implorano la pace. No al silenzio dell'indifferenza: dai fedeli sgorghi compassione. E’ questo, in sintesi, il forte richiamo espresso dal Papa nella meditazione della Preghiera ecumenica dei vari rappresentanti cristiani, tenutasi nella Basilica Inferiore di San Francesco, dove si trova la tomba del Poverello d’Assisi. I leader delle diverse religioni si sono riuniti a pregare in luoghi differenti per poi ritrovarsi insieme nell'incontro conclusivo di pace. Il servizio di Debora Donnini

“Ho sete”. Quella di Gesù sulla croce è una sete d’acqua ma soprattutto d’amore. Le sue parole riecheggiano nella Basilica Inferiore di San Francesco, così come nella drammatica attualità. "Ho sete". Parole che ci interpellano, dice il Papa, e domandano risposte concrete. Parole nelle quali “possiamo sentire la voce dei sofferenti”, “il grido nascosto dei piccoli innocenti cui è preclusa la luce di questo mondo”:

“Implorano pace le vittime delle guerre, che inquinano i popoli di odio e la Terra di armi, implorano pace i nostri fratelli e sorelle che vivono sotto la minaccia dei bombardamenti o sono costretti a lasciare casa e a migrare verso l’ignoto, spogliati di ogni cosa. Tutti costoro sono fratelli e sorelle del Crocifisso, piccoli del suo Regno, membra ferite e riarse della sua carne. Hanno sete. Ma a loro viene spesso dato, come a Gesù, l’aceto amaro del rifiuto".

Troppe volte essi incontrano “il silenzio assordante dell’indifferenza” o “la freddezza di chi spegne il loro grido di aiuto con la facilità con cui cambia un canale di televisione”.

Estinguere la sete d'amore di Gesù con l'amore per i poveri
“L’Amore non è amato”: secondo alcuni questa era la realtà che turbava San Francesco. Anche Madre Teresa, ricorda il Papa, ha voluto che nelle cappelle delle sue comunità vicino al Crocifisso ci fosse scritto: “Ho sete”:

“Estinguere la sete d’amore di Gesù sulla croce mediante il servizio ai più poveri tra i poveri è stata la sua risposta. Il Signore è infatti dissetato dal nostro amore compassionevole, è consolato quando, in nome Suo, ci chiniamo sulle miserie altrui”.

Francesco ricorda dunque che i cristiani di fronte a Cristo crocifisso sono chiamati a riversare misericordia sul mondo. Sulla croce, albero di vita, il male è stato trasformato in bene così anche i cristiani sono chiamati a essere “alberi di vita” che assorbono l’inquinamento dell’indifferenza e restituiscono “l’ossigeno dell’amore”. E come dal fianco di Cristo uscì acqua così, dice il Papa, “da noi suoi fedeli esca compassione”. Accostandoci a quanti vivono da crocifissi, sottolinea, “cresceranno ancora più l’armonia e la comunione fra noi”. “Egli infatti è la nostra pace”. Quindi l'auspicio conclusivo del Papa:

"Ci custodisca tutti nell’amore e ci raccolga nell’unità, nella quale siamo in cammino, perché diventiamo quello che Lui desidera: 'una sola cosa'". 

Sulla necessità di una “testimonianza di comunione”, si è soffermato, prima della meditazione del Papa, il Patriarca ecumenico di Costantinopoli Bartolomeo I. A intervenire all'inizio anche l'arcivescovo di Canterbury, Justin Welby. “Siamo chiamati ad essere la voce di Cristo per i senza speranza”, ha detto.

Le 27 candele: una per ogni paese segnato da conflitti
I rappresentanti delle confessioni cristiane si uniscono dunque al Papa nella preghiera per la pace. Un incontro suggellato da un momento toccante, accompagnato dal canto e dalla preghiera. E' stata accesa una candela per ciascun Paese che vive una situazione di guerra: dalla Siria al Gabon fino al Centroamerica. In tutto 27 candele per illuminare di speranza un mondo oscurato dalla guerra.

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I leader religiosi: lo spirito di Assisi è la risposta a tutte le guerre

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Nella cerimonia conclusiva dell’incontro di Assisi sono risuonate con forza le parole e le preghiere dei vari leader religiosi e di una vittima della guerra. Il servizio di Sergio Centofanti: 

Tra chi parla c'è una profuga siriana, Tamar Mikalli, cristiana di Aleppo, giunta in Italia con tutti i familiari grazie a degli "angeli", ai “Corridoi umanitari” di Sant’Egidio: ricorda commossa quando regnava la convivenza religiosa nel suo Paese prima di una guerra che ancora non ha capito perché sia scoppiata. La preghiera - afferma - era l'unico sostegno che avevano sotto le bombe. Ripetevano sempre le parole di Gesù: "Venite a me voi tutti che siete affaticati e oppressi". Poi Chiede di pregare per la Siria e per tutti i Paesi martoriati dai conflitti.

Il Patriarca ecumenico di Costantinopoli Bartolomeo ha invitato a “gesti coraggiosi” per aprire nuove vie al dialogo e alla collaborazione tra culture e religioni. “Non ci può essere pace senza rispetto e riconoscimento reciproco - ha detto - non ci può essere pace senza giustizia, non ci può essere pace senza una collaborazione proficua tra tutti i popoli del mondo”. Quindi, ha lanciato un appello alla difesa della vita, alla solidarietà con i poveri e alla salvaguardia del creato.

Il presidente del Consiglio degli Ulema indonesiani, Syamsuddin, ha detto che l'islam è una religione di pace e ha parlato dei frutti concreti nati dagli incontri di Assisi: la collaborazione tra musulmani e Comunità di Sant’Egidio da cui è scaturito, per esempio, il processo di pace nella regione filippina di Mindanao, a maggioranza islamica.

Il Rabbino israeliano David Brodman, sopravvissuto ai campi di concentramento nazisti, ha affermato che “lo spirito di Assisi” è la risposta alla tragedia della Shoah e di tutte le guerre, “perché qui noi diciamo al mondo che è possibile diventare amici e vivere insieme in pace anche se siamo differenti”.

Il Venerabile Morikawa Tendaizasu, 257° patriarca giapponese del buddismo Tendai, ha invocato un mondo senza odio e disprezzo. “La storia - ha spiegato - ci ha mostrato che la pace conseguita con la forza sarà rovesciata con la forza” e che “l’odio non è cancellato dall’odio; l’odio può essere cancellato soltanto abbandonando l’odio”.

Andrea Riccardi, fondatore della Comunità di Sant’Egidio, ha affermato che “con la forza debole della preghiera e del dialogo” si può sconfiggere la guerra, “follia di gente avida di potere e denaro”. “Dalle religioni, senza confusione ma senza separazione - ha aggiunto - può sgorgare un popolo di artigiani di pace”. Quindi l’appello: “Bisogna eliminare per sempre la guerra che è la madre di ogni povertà. Come è stato fatto con la schiavitù”.

Prima di questi interventi avevano rivolto il loro saluto il vescovo d’Assisi, mons. Domenico Sorrentino, vescovo di Assisi, e padre Mauro Gambetti, custode Generale del Sacro Convento di Assisi. Mons. Sorrentino ha parlato della profezia dello “spirito di Assisi”: “uno spirito di preghiera, di concordia e di pace, che vuole essere una risposta ad un mondo intristito da tante guerre che talvolta, impropriamente, anzi in modo blasfemo e satanico, agitano  vessilli religiosi. In questa Assisi in cui il giovane Francesco prese le distanze dallo spirito del mondo per essere tutto di Cristo e dei fratelli, divenendo uomo di pace, la nostra riflessione e la nostra preghiera hanno gridato ancora una volta un no alla cultura della guerra e un sì alla cultura della pace”.

Infine, padre Gambetti ha parlato della profezia dell’umiltà di San Francesco di Assisi che nel 1219 a  Damietta incontrò il sultano Malik al-Kamil: “L’umiltà consente di trasmettere e di percepire l’Infinito, l’Assoluto, l’Eterno, dinanzi al quale tutti siamo nulla, un soffio, di pari dignità. Gli umili si rispettano, si apprezzano, si valorizzano vicendevolmente”. E' dall'umiltà, dunque, che può nascere la vera pace.

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Mons. Sorrentino: costruiamo pace sulle orme di S. Francesco

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Non dobbiamo assuefarci al “paganesimo dell’indifferenza”, L’arcivescovo di Assisi, mons. Domenico Sorrentino, rimarca uno dei punti centrali del discorso di Papa Francesco durante la Giornata di preghiera interreligiosa per la pace. L’intervista è dell’inviato Massimiliano Menichetti

R. – Sono stati tre giorni in cui si sono accavallati tanti discorsi, ma sono stati tutti discorsi molto profondi. C’è stata tanta preghiera e alla fine la presenza di Papa Francesco ha dato veramente il sigillo a una iniziativa che da 30 anni costituisce veramente un filo di luce. E ce n’era bisogno in un momento in cui il mondo sembra così attanagliato da tanti motivi di conflittualità, tensione, guerra, terrorismo… C’era bisogno di dare una simile testimonianza così corale, bella e ad alto livello.

D. – Il Papa ha parlato di “paganesimo dell’indifferenza” come di una “piaga attuale”…

R. – Ha perfettamente ragione, perché, di fronte alle tante sofferenze e anche alle tante guerre, rischiamo tutti di assuefarci. Bisogna assolutamente convertirci dall’indifferenza: essere cristiani significa essere coinvolti. Come Dio lo è con noi, come Padre misericordioso, noi dobbiamo esserlo vicendevolmente con i nostri fratelli, e specialmente con quelli che soffrono.

D. – Il monito: “Non si strumentalizzi la religione per la violenza” e l’impegno a tutti affinché si lavori per la costruzione della pace…

R. – Credo sia la voce più forte che è risuonata in questa tre giorni e in modo particolare nell’ultimo giorno. Non è possibile pensare la violenza in nome di Dio: Dio è pace, Dio è amore, e non è possibile che qualcuno lo strumentalizzi per la guerra.

D. – Per lei che cosa esce da questa città che fa parte della sua diocesi?

R. – Questa giornata, dopo 30 anni, ci dà uno slancio in più e ci rende ancora più responsabili. Ci siamo resi conto di quanto la voce di Assisi – il suo messaggio spirituale – sia significativo nel mondo e bisogna che noi ne siamo responsabili, perché non serve soltanto che sia la città di San Francesco, ma bisogna che sia anche la città di cristiani che vivono sulle sue orme.

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Assisi, Sant'Egidio: bilancio positivo destinato a crescere

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Un bilancio fortemente positivo quello di questo Incontro di tre giorni ad Assisi per la pace. Così il presidente della Comunità di Sant’Egidio, Marco Impagliazzo. Il nostro inviato, Massimiliano Menichetti, l’ha intervistato: 

R. – Un bilancio fortemente positivo. Dopo 30 anni, questo movimento dello Spirito di Assisi ha camminato, è cresciuto, ha toccato tante città del mondo e ha anche provocato pace. Penso a tante cose che sono avvenute in Africa, ma anche in Asia e, soprattutto, all’inizio, il crollo del Muro di Berlino. Un bilancio, dunque, destinato, per fortuna, a crescere positivamente, soprattutto con la spinta che il Papa oggi ci ha dato, chiedendo a tutti noi di essere artigiani di pace.

D. – Tutti i leader religiosi del mondo, anche il Papa, hanno ribadito: “Non si può giustificare la violenza con la religione, questa è una deformazione della religione”…

R. – Questo ormai è un dato fortemente acquisito, che qui ad Assisi ha avuto una sottolineatura particolare. Ogni guerra di religione è una guerra alla religione. Alcune frasi chiave: “Solo la pace è santa” – ha detto il Papa – “non c’è guerra santa”. Allora noi dobbiamo partire da questo, da questa consapevolezza che ormai sta abbracciando, ha abbracciato tutte le religioni. I nostri amici musulmani su questo sono pienamente d’accordo, perché cominciano a essere le prime e più numerose vittime del terrorismo.

D. – E’ sembrato quasi un ponte straordinario quello tra 30 anni fa, oggi e il futuro, quando anche Papa Francesco ha ribadito l’impegno che deve nascere da ognuno, anche nelle piccole cose per poter cambiare poi la globalità. Anche Bartolomeo I ha ripreso questo spunto forte…

R. – Sì, perché noi lavoriamo in realtà nella quotidianità e molti esponenti religiosi, le comunità, i movimenti lavorano ogni giorno nelle periferie della città, negli snodi dove avviene oggi la convivenza. Penso in particolare alle città europee tra popolazioni che si incrociano, che si mischiano. E questa novità della globalizzazione ha creato la necessità ancora più forte oggi di lavorare ogni giorno per la pace laddove viviamo.

D. – Questo testimone dove arriva, cosa porta?

R. – E’ veramente una grande gioia avere tra le mani questo testimone. Il prossimo incontro – è stato annunciato – sarà nelle città tedesche di Münster e di Osnabrück, nella Westfalia, simbolo della regione e della prima grande pace dell’età moderna in Europa. Porta in tutto il mondo, perché qui si parla di spirito e lo spirito soffia dove vuole. E noi oggi affidiamo questo spirito a tutti i leader religiosi ovunque essi vadano. 

Ma sentiamo come le persone ad Assisi, in particolare i giovani, hanno accolto l’invito del Papa a costruire la pace. Alcune testimonianze raccolte da Massimiliano Menichetti

R. – Sicuramente, la cosa più difficile sarà appunto riportare il mandato a casa, perché qui in Assisi sembra tutto più semplice, più facile. Quindi, andare a concretizzare le parole di pace proprio negli ambienti più piccoli: sia in quelli parrocchiali che, soprattutto, a mio parere, in quelli lavorativi, nei rapporti semplici tra i colleghi e tra un insegnante e uno studente.

R. – Lo raccolgo, comunque, impegnandomi nel quotidiano. Sono un giovane e devo nel mio rapporto con gli altri ragazzi seminare pace tutti i giorni, cercando comunque di evitare occasioni di discordia.

R. – Questa sfida la dobbiamo raccogliere nel nostro quotidiano. Tornerò nella mia città e credo che la cosa più importante sarà quella di costruire ponti di pace con chi arriverà ben presto nella mia città come profugo o come persona bisognosa di aiuto.

R. – Possiamo come frati e anche come laici portare veramente la pace dappertutto.

D. – Come concretizzerai questa sfida?

R. – Penso e voglio portare la pace nelle famiglie, tra i ragazzi con cui lavoro ogni giorno e soprattutto portare il perdono.

D. – Tutti i leader religiosi riuniti, i bambini che prendono da loro il messaggio della pace, lo portano alle nazioni. Che cosa significa questo per te?

R. – Per me è un grande sogno di speranza per il futuro il fatto che già da bambini si può portare un messaggio di pace, soprattutto ai grandi delle nazioni. Bel segno, ci fa sperare bene per il futuro.

D. – La pace è possibile?

R. – La pace è possibile, sì.

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P. Fortunato: da Assisi la risposta ai fondamentalismi

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Il Sacro Convento di Assisi è stato il fulcro della Giornata di preghiera per la pace a 30 anni da quella convocata nello stesso luogo da Giovanni Paolo II. E il responsabile della sala stampa del convento, padre Enzo Fortunato, mette in risalto l’importanza delle ore trascorse in preghiera da Papa Francesco e dai leader religiosi nella città francescana: 

R. – Io direi una giornata memorabile, che dovremmo “sfogliare” continuamente, per il dialogo interreligioso, per la costruzione della pace nella nostra società e nel mondo. Di fronte ad una guerra a pezzi, come l’ha definita Papa Francesco, da Assisi parte una “pace a pezzi”, lenta, faticosa, inesorabile e che raggiungerà il suo obiettivo. E poi i tre cammini che dovremmo percorrere: bisogna avere il coraggio di denunciare le situazioni di sopruso e di violenza e questa è stata la prima parte del discorso del Papa. Bisogna avere il coraggio di denunciare anche la strumentalizzazione della fede sulla violenza e il Papa ha citato il nome e il cognome di quelle situazioni in cui Dio viene utilizzato impropriamente. E alla fine, la frase che ha concluso il discorso la pace è una responsabilità universale, appartiene cioè a tutti ed è una realtà artigianale e ci impegna quotidianamente. Se questo è sul versante cristiano, sul versante islamico io credo che l’Indonesia, con il suo più alto rappresentante – più di 4 milioni e mezzo di islamici sono stati rappresentanti su questo palco, ed era un rappresentante ma poi c’erano 26 delegazioni – ha avuto il coraggio di dire che nell’islam c’è un problema ed è il problema delle giovani generazioni, che strumentalizzano la fede per la violenza. Detto qui ad Assisi credo che sia un grande monito per l’islam, ma anche una grande responsabilità.

D. – San Giovanni Paolo II disse anche questo: “L’impegno parte da tutti per la pace”. Qui si è aggiunto anche: “nella tutela del Creato”…

R. – E’ evidente, quando c’è la guerra si distrugge l’uomo e la casa comune, che è chiamata a custodire l’uomo e cioè la terra. Quindi, le cose vanno insieme e i leader religiosi lo hanno richiamato in maniera molto chiara. Anche Bartolomeo I, quando ha detto: “Noi dobbiamo riandare nelle case, dobbiamo far sì che nelle case non manchi né acqua e né pane”, ecco sono affermazioni forti che ci dicono che l’ambiente viene ferito profondamente dalla guerra.

D. – Cosa parte da Assisi, dunque?

R. – Da Assisi parte l’impegno concreto di ogni giorno per la pace. E direi che Assisi è la risposta ai fondamentalismi, è la risposta alla violenza. Assisi è pace. Il nome di Dio è pace.

Entusiasmo e gratitudine per l’evento interreligioso si colgono anche nella prole del sindaco di Assisi, Stefania Proietti

R. – Il bilancio è assolutamente positivo! Assisi si è innalzata: credo sia stata questa la sensazione di tutti quelli che erano nelle piazze, che erano sopra a quel palco. Si è innalzata con questa preghiera potentissima per la pace, in tutti i posti che abbiamo sentito nel mondo, con la presenza di tutti questi leader religiosi e la presenza autorevolissima, riconosciuta da tutti, del Santo Padre. Credo che anche il cielo e il creato abbiano voluto sottolineare questo aspetto di luminosità, di sole. Adesso, noi amministratori di questa città ci sentiamo sulle spalle veramente la responsabilità grande – ma è un giogo leggero però – di tenere Assisi a questo livello, per farla diventare un richiamo per il mondo per la pace. Quella pace che non è solo portare pace e messaggi nei Paesi in guerra, ma pace che nasce dai cuori e dai gesti di ciascuno di noi.

D. – Concretamente come si fa?

R. – Lo ha detto il Papa: vincendo l’indifferenza! E’ il primo passo. Non cambiare canale quando vediamo bambini che muoiono, persone che rischiano la loro vita e quella dei loro figli per fuggire dalla miseria nera: a questo non si può rimanere indifferenti. Questo è il primo passo: questo schiaffo che dobbiamo dare a quella globalizzazione dell’indifferenza che un certo mondo ci vuole imporre. Da lì, poi, i passi vengono spontanei. Rinnovare la sobrietà dei percorsi di vita che vanno verso gli altri, verso la cura del Creato, verso la pace: lo hanno detto tutti i leader religiosi. Questo, però, è il primo passo concreto: vincere l’indifferenza e cominciare a camminare.

R. – Il bilancio è assolutamente positivo! Assisi si è innalzata: credo che sia stata questa la sensazione di tutti quelli che erano nelle piazze, che erano sopra a quel palco. Si è innalzata con questa preghiera potentissima per la pace, in tutti i posti che abbiamo sentito nel mondo, con la presenza di tutti questi leader religiosi e la presenza autorevolissima - riconosciuta da tutti – del Santo Padre. Credo che anche il cielo e il creato abbiano voluto sottolineare questo aspetto di luminosità, di sole. Adesso noi amministratori di questa città ci sentiamo sulle spalle veramente la responsabilità grande – ma è un giogo leggero però - di tenere Assisi a questo livello, per farla diventare un richiamo per il mondo per la pace, quella pace che non è solo portare pace e messaggi nei Paesi in guerra, ma pace che nasce dai cuori e dai gesti di ciascuno di noi.

D. – Concretamente come si fa?

R. – Lo ha detto il Papa: vincendo l’indifferenza. E’ il primo passo. Non cambiare canale quando vediamo bambini che muoiono, persone che rischiano la loro vita e quella dei loro figli per fuggire dalla miseria nera: a questo non si può rimanere indifferenti. Questo è il primo passo: questo schiaffo che dobbiamo dare a quella globalizzazione dell’indifferenza che un certo mondo ci vuole imporre. Da lì, poi, i passi vengono spontanei. Rinnovare la sobrietà dei percorsi di vita che vanno verso gli altri, verso la cura del Creato, verso la pace: lo hanno detto tutti i leader religiosi. Questo, però, è il primo passo concreto: vincere l’indifferenza e cominciare a camminare.

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Nomine di Francesco in Argentina, Usa, Isole Salomone

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In Argentina, Francesco ha accettato la rinuncia al governo pastorale della diocesi di San Nicolás de los Arroyos, presentata da mons. Héctor Sabatino Cardelli. Il Papa ha nominato Vescovo della diocesi San Nicolás de los Arroyos mons. Hugo Norberto Santiago, trasferendolo dalla sede di Santo Tomé.

Negli Stati Uniti, Francesco ha nominato Vescovo Coadiutore di Alexandria mons. David Prescott Talley, finora Vescovo Ausiliare di Atlanta.

Il Papa ha nominato Nunzio Apostolico nelle Isole Salomone mons. Kurian Mathew Vayalunkal, Arcivescovo titolare di Raziaria, Nunzio Apostolico in Papua Nuova Guinea.

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Tweet Papa: il dialogo riconosca che l'altro è un dono di Dio

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"Il dialogo nasce quando sono capace di riconoscere che l’altro è un dono di Dio e ha qualcosa da dirmi". E' il tweet di Papa Francesco pubblicato oggi sul suo account Twitter @Pontifex in 9 lingue.

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Card. Parolin all’Onu: 48 milioni di bambini sono migranti forzati

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“48 milioni di bambini sono costretti a lasciare le loro case, e migliaia di bambini migranti non accompagnati sono dispersi e divengono preda di abusanti e sfruttatori”. Il card. Pietro Parolin, Segretario di Stato vaticano, ha scelto l’Onu per lanciare il grido d’allarme. Intervenendo al summit in corso a New York sulla questione dei migranti e dei rifugiati, il porporato ha ribadito che “tutti gli individui hanno il diritto di rimanere in pace e sicurezza nella loro terra e nei loro Paesi d’origine”. Invece, ci sono milioni di persone che “rischiano tutto, vivono in misere condizioni” e migliaia che “hanno perso la vita mentre cercavano di scappare dai conflitti, dalla violenza, dalla povertà estrema, dall’esclusione sociale, dalle persecuzioni e da varie forme di discriminazione”.  

Appello della Santa Sede per sradicare le cause delle migrazioni forzate
Di qui l’appello “urgente” della Santa Sede a favore di “sforzi politici e multilaterali per sradicare le cause profonde dei vasti movimenti e dello spostamento forzato delle popolazioni”: “conflitti e violenza, innumerevoli violazioni dei diritti umani, degrado ambientale, estrema povertà, commercio e traffico di armi, corruzione ed oscuri piani commerciali e finanziari”. Nello stesso tempo, ha detto Parolin, “è necessario assicurare che i fondi allo sviluppo siano assegnati equamente e con trasparenza, consegnati ed usati appropriatamente”. No, quindi, alla “globalizzazione dell’indifferenza” denunciata dal Papa, sì invece al “rinnovato impegno per proteggere ogni persona dalla violenza e dalla discriminazione, per garantire una qualità di assistenza sanitaria appropriata e per proteggere coloro che sono più vulnerabili, particolarmente le donne e i bambini”.

I muri non sono mai la soluzione per i problemi sociali
“I muri e le barriere tra le persone e i popoli – sia fisiche che legislative – non sono mai una soluzione accettabile per i problemi sociali", ha detto il card. Parolin. “Tali barriere dividono le persone e i popoli, causano tensioni tra di loro ed indeboliscono e impediscono lo sviluppo”. Perciò, “nonostante le difficoltà, gli interessi elettorali e le legittime preoccupazioni, le nostre responsabilità richiedono di superare le paure e gli ostacoli e di lavorare per un mondo dove gli individui e i popoli possano vivere in libertà e dignità”. 

Non perdere di vista nomi e volti che stanno dietro alle statistiche
“Mentre cerchiamo di trovare i modi più efficaci per rispondere alle sfide poste dai movimenti senza precedenti di rifugiati e di migranti – il monito del cardinale – non dovremmo mai perdere di vista la gente reale, con i nomi e volti che stanno dietro alle statistiche”. Un “approccio”, questo, ha precisato il Segretario di Stato citando il Papa, che “richiede il pieno impegno per un’umanità che prima di tutto riconosca gli altri come fratelli e sorelle, che vuole costruire punti e rifugge dall’idea di edificare muri per renderci più sicuri”. 

Nell'emergenza umanitaria ruolo decisivo di organizzazioni religiose e cristiane
​“L’enorme e complessa sfida che l’immenso movimento di rifugiati e migranti pone può essere risolta solo se lavoriamo insieme”, l’appello del card. Parolin, che ha invitato al dialogo e alla collaborazione “tra nazioni, organismi internazionali e agenzie umanitarie” e ha menzionato il ruolo decisivo svolto dalle organizzazioni religiose e dalle comunità cristiane, le quali spesso sono le prime a rispondere alle emergenze umanitarie. (R.P.)

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Card. Turkson: per lo sviluppo ascoltare le voci di tutti

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Per il progresso, è necessario un integrale sviluppo umano. Così in sintesi il card. PeterTurkson, presidente del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, in un messaggio letto stamani presso la Radio Vaticana in occasione della presentazione del Rapporto 2016 dell’Unctad, la Conferenza delle Nazioni Unite sul Commercio e lo Sviluppo. Sulla scia degli insegnamenti deigli ultimi Pontefici, il porporato sottolinea la necessità di uno sviluppo umano integrale. Il servizio di Debora Donnini

“Lo sviluppo è il nuovo nome della pace”. Le parole del beato Paolo VI nella Popolorum Progressio suonano di straordinaria attualità. Dal 1964, quando fu fondata l’Unctad, le nuove tecnologie hanno rotto i confini tradizionali tra le nazioni e aperto nuove aree di opportunità economiche. Resta comunque una domanda di fondo su quale tipo di sviluppo sia necessario. Per Paolo VI, lo sviluppo deve coinvolgere ogni persona e tutta la persona. Nel suo messaggio, letto da padre Michael Czerny, dello stesso Pontificio Consiglio, il card. Turkson si richiama all'insegnamento anche di Giovanni Paolo II e di Papa Francesco. Papa Francesco ha infatti esteso alle generazioni future questa definizione, ricorda nel messaggio il porporato:

“We can no longer speak of sustainable development apart from intergenerational solidarity….
Non si può parlare di sviluppo sostenibile senza una solidarietà fra le generazioni. Quando pensiamo alla situazione in cui si lascia il pianeta alle future generazioni, entriamo in un’altra logica”, cioè  quella del dono gratuito che riceviamo e comunichiamo.

Non dimenticare i poveri. Necessarie politiche integrate
Centrale è poi la situazione dei poveri tanto che San Giovanni Paolo II sottolineò come essi possono diventare i principali costruttori di un nuovo e più umano futuro per tutti.

Da non dimenticare la lunga crisi finanziaria che si trascina dal 2008. Bisogna fare di più. Esercitare una maggiore responsabilità. Sono necessarie politiche integrate:

“Integrated policies will require persistence and generosity…
Politiche integrate richiedono costanza e generosità, e che si ascoltino diverse voci”: non solo bancarie, politiche, commerciali ma anche quella dei lavoratori, dei disoccupati di giovani e anziani e dell’ambiente. In conclusione, l’auspicio è che il Rapporto sia di aiuto all’Unctad e ad altre istituzioni per affrontare le sfide dei prossimi decenni.

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Oggi su "L'Osservatore Romano"

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In prima pagina, un editoriale del direttore sull'incontro di Assisi.

Il dialogo globale unica risposta alle sfide dell'immigrazione: intervento del cardinale segretario di Stato al summit dell'Onu sui migranti.

Un articolo di Charles de Pechpeyrou dal titolo "Alla ricerca di nuovi approcci": il dibattito sull'immigrazione dopo il voto a Berlino.

Obama auspica una soluzione politica per la Siria.

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Oggi in Primo Piano



Siria: tregua fallita. Accuse reciproche Russia-Usa

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Nonostante gli appelli alla tregua in Siria la guerra è ripresa senza esclusione di colpi anzi con particolare violenza contro i convogli umanitari e le postazioni mediche: l’ultimo ad essere stato bombardato è un ospedale vicino ad Aleppo in cui sono morte 13 persone . E tra le superpotenze è scambio di accuse mentre l’Onu ha chiaramente puntato il dito contro Assad. Il servizio di Gabriella Ceraso:

“Nessuno ha ucciso più civili del governo siriano che continua a bombardare quartieri e torturare migliaia di detenuti”. Risuonano ancora forti le accuse dirette ad Assad dal segretario Onu Ban Ki-moon, ieri: 300 mila i morti sulla sua coscienza. A far traboccare il vaso la notizia, del convoglio umanitario colpito lunedì notte alle porte di Aleppo dal cielo: pochi dubbi per l’Onu sulle responsabilità mentre tra Russia e Stati Uniti è tuttora scambio di accuse e Assad, dal canto suo, dice che Washington aggredisce il suo esercito per aiutare l’Is. Impossibile parlare di tregua: dopo altri 13 morti nel bombardamento ieri sera di un ospedale fuori Aleppo. In una settimana la situazione è precipitata. Proprio ieri sarebbe dovuta scattare la fase dei raid congiunti Usa-Russia in vista di una soluzione politica per la Siria. Ma perché? Lo abbiamo chiesto a Massimo Campanini, docente di Storia islamica all’Università di Trento: 

R. – Il problema fondamentale è quello di sciogliere il nodo del futuro di Bashar al Assad. Bashar ha resistito: è riuscito a tenere sotto controllo una situazione che sembrava assolutamente pregiudicata; ha tenuto sotto controllo una parte cospicua del territorio e quindi alza la posta del suo futuro e chiaramente è in grado di trovare ascolto presso la Russia.

D. – Ma questa immissione diretta dell’Onu proprio in materia di Bashar al Assad – nel senso che sostanzialmente se ne deve andare – questa entrata a gamba tesa di Ban Ki-moon può avere un ruolo in questo che lei dice è il nodo fondamentale?

R. – L’entrata a gamba tesa di Ban Ki-moon – che comunque è un’entrata schierata, mentre in teoria l’Onu dovrebbe essere super partes  sembra più una presa di posizione personale, un grido di rabbia quasi impotente... Perché poi, considerati i limiti di movimento e anche il funzionamento dell’Onu dal punto di vista operativo, non mi pare che si possa andare molto avanti.

D. – Comunque c’è il gelo confermato, almeno apparentemente, tra Stati Uniti e Russia. La fiducia che sembrava essere scattata è sicuramente calata in una settimana…

R. – Certamente sì. Però, purtroppo, siamo in una situazione molto delicata ed esclusiva. Obama, avendo davanti a sé soltanto un mese di presidenza, non ha nessun reale potere decisionale. Dobbiamo aspettare di vedere se il prossimo presidente sarà Hillary Clinton o Donald Trump. Ed è ovvio che in questa situazione Putin e soprattutto Bashar al Assad cercano di guadagnare terreno il più possibile per poi poter trattare da posizioni di forza.

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Obama: 360 mila rifugiati in 50 Paesi. Centro Astalli, numeri irrisori

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In 50 Paesi raddoppierà il numero dei profughi accolti: 360 mila il prossimo anno. Le parole di Barack Obama ancora risuonano all’Onu, dove il presidente Usa ieri, parlando in apertura dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, ha parlato della drammatica realtà delle vittime dei conflitti, annunciando che i Paesi partecipanti al parallelo Summit sui rifugiati apriranno le porte ad un maggior numero di profughi. Cifre che però hanno suscitato perplessità tra le organizzazioni che di rifugiati si occupano quotidianamente, come il Centro Astalli il servizio dei gesuiti per i rifugiati in Italia. Francesca Sabatinelli ha intervistato il presidente, padre Camillo Ripamonti: 

R. – L’intervento di Barack Obama ha focalizzato un po’ l’attenzione sui rifugiati, però, come al solito, quando si tratta di tirare le somme e vedere quante persone si accolgono e quanti soldi si investono sul versante dei rifugiati, lì non ci si trova più, perché i numeri sono irrisori rispetto alla questione migratoria, soprattutto per quanto riguarda le persone sfollate che nel mondo sono 65 milioni, e 360 mila su 50 Paesi vuol dire meno di 10 mila persone per Paese. E questa è una cifra, se considerati, appunto, i 65 milioni di persone coinvolte, veramente irrisoria.

D. – Allora come mai un annuncio davanti ad un’Assemblea così importante, quando poi basta fare una divisione per capire la poca sostanza di quanto detto?

R. – Perché quando si tratta di numeri e li si gestisce tutti insieme fanno una certa impressione. Così come anche i 3 miliardi di dollari, di cui si è parlato, da investire in più sul fronte umanitario, però se pensiamo agli investimenti che vengono fatti in armi negli stessi Paesi nei quali ci sono i conflitti, da cui scappano queste persone allora, anche lì, i conti non tornano, perché gli investimenti sono irrisori rispetto ai danni che, invece, le armi e gli investimenti sulle armi fanno negli stessi Paesi. Barack Obama non poteva fare a meno di parlare di rifugiati, perché è una questione ormai strutturale e globale, da cui non si può prescindere. Però l’approccio, sia per l’Europa, che per il presidente degli Stati Uniti, purtroppo, è un approccio che non considera realmente l’entità del fenomeno. Il rischio è che se non lo consideriamo nell’entità del fenomeno rischiamo di non risolvere e di non affrontare adeguatamente la questione.

D. – Senza considerare che nei mesi trascorsi le organizzazioni per i diritti umani hanno stigmatizzato il fatto che gli Stati Uniti abbiano accolto pochissime migliaia di rifugiati siriani, di fronte ad un numero impressionante…

R. – Sì. Oltre al fatto che ultimamente stanno emergendo quegli interessi – diciamo – internazionali dei Paesi che sono un po’ alla base del conflitto siriano e dei conflitti in generale. Se pensiamo, appunto, alla diatriba, anche diplomatica, che sta interessando ultimamente la Russia e gli Stati Uniti, si evidenziano un po’ quelli che sono gli interessi che ci sono sotto alla questione siriana e che alla fine non portano alla vera soluzione del conflitto che, non dimentichiamolo, se fosse stato fatto cinque anni fa non avrebbe portato a quel numero così impressionante di rifugiati a cui attualmente assistiamo e di cui gli Stati non si stanno occupando direttamente, perché, e anche questo non dobbiamo dimenticarlo, l’accordo con la Turchia non ha fatto altro che bloccare queste persone che scappano dalla guerra, senza però affrontare e risolvere il loro problema, che è quello di arrivare in sicurezza in un altro Paese in cui la guerra non c’è e quindi la possibilità di ricominciare una vita nuova, diversa.

D. – Questo ci riporta al fatto che proprio la Turchia, assieme al Libano e assieme alla Giordania, per quanto riguarda i profughi che fuggono dalla Siria, ma ci sono anche altri Paesi come il Kenya, l’Etiopia, che sono tra i Paesi poveri che accolgono però il maggior numero di profughi in generale rispetto ai Paesi più ricchi, che in realtà non ne accolgono che un 14 per cento, cifre di Ong…

R. – Sì, esattamente! Però, ancora una volta, si fa leva sull’elemento della paura, dell’invasione, dicendo che 65 milioni di persone si stanno riversando nei Paesi occidentali o in Europa, quando in realtà sappiamo benissimo che questo flusso è un flusso che riguarda soltanto una minima parte, che è uno o due milioni di persone e quindi non quei numeri che si riversano nei Paesi limitrofi, che invece dimostrano, rispetto ai Paesi ricchi dell’Occidente, una capacità di solidarietà che noi ci sogniamo.

Più possibilista, ma sempre preccupato il tono dell'Organizzazione Internazionale per le Migrazioni. Francesca Sabatinelli ha intervistato Federico Soda, direttore dell'Ufficio di Coordinamento per il Mediterraneo e rappresentante presso la Santa Sede dell'Oim: 

R. – La cifra dei 360 mila non possiamo dire che sia irrisoria, perché comunque ci saranno 360 mila persone che, fra qualche anno, saranno in una situazione stabile e sicura, con un futuro dignitoso. Certo che, quando la inquadriamo nel contesto attuale e globale, questo deve essere solo un inizio. Con 21 milioni di rifugiati al mondo, i Paesi devono assolutamente considerare questo un inizio e sforzarsi di più! Anche perché io penso che saranno i soliti 4-5-6 Paesi a prenderne la maggior parte.

D. – Secondo delle voci che arrivano dall’amministrazione americana, sarebbero sette Paesi europei – Romania, Portogallo, Spagna, Repubblica Ceca, Italia, Francia e Lussemburgo – che avrebbero promesso di accogliere almeno 10 volte più rifugiati rispetto a quello che hanno fatto nel 2015…

R. – Abbiamo un problema in questo momento ed è che i governi sovente fanno tante promesse e si impegnano a fare certe cose e poi, in realtà, siamo molto lenti ad attualizzare questi impegni e queste promesse. Quindi, anche a livello europeo, sono state fatte tante promesse per la distribuzione di rifugiati che arrivano in Italia e in Grecia, eppure questo programma va avanti in modo troppo lento. Le promesse sono una bella cosa e anche il fatto che il presidente Obama abbia convocato questo Summit è importantissimo, perché è la prima volta che c’è un Summit su questo tema. Quindi dobbiamo riconoscere questo gesto politico estremamente importante, riconoscere che tanti Paesi si stanno facendo avanti, però anche che le promesse non bastano e che dobbiamo impegnarci tutti più seriamente per arrivare veramente a dei numeri notevoli, che avranno un impatto significativo su tutti i rifugiati del mondo.

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Onaiyekan: convincere i giovani africani a non emigrare

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“Emigrare non è una soluzione ai problemi dei giovani africani; occorre piuttosto creare posti di lavoro, rilanciando le economie locali con provvedimenti efficaci”. Lo ha affermato il card. John Onaiyekan, arcivescovo di Abuja e presidente della Conferenza episcolale della Nigeria, nazione con oltre 175 milioni di abitanti, in gran parte giovani, durante la conferenza sulla "Tratta degli esseri umani", organizzata  da Caritas Internationalis e Pontificio Consiglio della Pastorale per Migranti e Itineranti ad Abujia dal 5 al 7 settembre . Marcello Storgato ha intervistato il porporato: 

R. – L’immigrazione come tale non è il problema! Il problema è la tratta degli esseri umani, perché la gente si trova in situazione di grande necessità e impotenza. Certo, sono tanti i nigeriani che adesso si trovano in Europea e in America, che hanno un lavoro, che sono ben istruiti e che contribuiscono alla vita del Paese in cui vivono; ma il problema è quello dei tanti giovani, che in Nigeria sono disoccupati, che non hanno nulla da fare e che credono che non sia possibile rimanere in una situazione senza un futuro e senza speranza. L’alternativa - secondo me -  è trovare il modo di dare loro la possibilità di vivere con un po’ di speranza e di decenza [dignità] a casa loro e cioè in Nigeria. Dobbiamo chiedere al governo di fare tutto ciò che è necessario.

D. – E, infatti, il governo nigeriano chiede ai giovani di tornare a coltivare la terra…

R. – Questo non è serio! Non è serio dire a un giovane che ha appena finito l’università e che non ha mai coltivato la terra, di andare a coltivare la terra! Non è che poi ci siano così tanti terreni vuoti per chi vuole cominciare a farlo. Secondo: per coltivare la terra, si deve sapere come farlo e loro non sanno come fare. Quindi ciò che si sarebbe potuto fare, sarebbe stato cercare di aiutarli ad avere la conoscenza per poter diventare agricoltori. Anche quelli che fra loro hanno conseguito un diploma in agricoltura non sono certo in grado di andare a lavorare la terra, perché hanno fatto soltanto corsi teorici e non hanno avuto la possibilità di avere una conoscenza pratica.

D. – Forse ci vorrebbero delle scuole professionali, più adatte…

R. – Scuole adatte, che però non hanno fatto! E non soltanto per l’agricoltura, ma anche per tutti gli altri studi scientifici. Le università danno soltanto delle conoscenze teoriche: chi ha una laurea come ingegnere meccanico, non ha mai visto una macchina… Devono ricominciare da capo e imparare.

D. – C’è qualche progetto portato avanti dalla Chiesa o dalla Caritas o da altre Ong?

R. - La Chiesa cerca di portare avanti queste scuole di tipo professionale. Ma sono piccoli gesti che facciamo e che non riescono certo a risolvere tutto il problema… Se posso tornare al discorso dell’immigrazione, c’è tanto da fare per quanto riguarda l’impostazione teorica dei giovani: bisogna far sapere loro che non è affatto vero che in Europa tutto è bello. Hanno questa idea, ormai fissata nella loro mente: basta che io mi trovo in Italia o in America e tutti i problemi saranno risolti. Questo non è vero! Non vogliono capire che sarebbe meglio sforzarsi di riuscire in qualche modo e con pazienza a casa; invece di intraprendere un viaggio di avventura in un Paese lontano e sconosciuto. Si deve trovare il modo di convincerli a stare a casa ed avere un po’ di pazienza. Posso dire che ci sono tanti che sono rimasti a casa: per ogni giovane che si trova a Lampedusa, migliaia sono rimasti a casa.

D. – La cooperazione internazionale su quali progetti dovrebbe investire per il benessere dei giovani africani?

R. – Credo si possa aiutare i giovani con delle competenze, con le quali possano diventare “padroni” [autonomi]. Questa è una cosa molto importante! Per quanto riguarda l’immigrazione vorrei anche menzionare il fatto che il sistema dei visti per gli immigrati in Europa è così difficile, che molto spesso non possono venire in Italia legalmente: devono entrare in modo illegale e questo facilita e promuove il lavoro dei trafficanti! Se fosse possibile per i giovani, che vogliono venire in Italia a lavorare, avere la possibilità di avere un visto per poterlo fare, senza dover passare per le mani dei trafficanti, forse questo potrebbe risolvere qualche problema… Penso, ad esempio, al fenomeno dei siriani che sono entrati in Europa, quasi come un’invasione di quasi un milione di persone: poiché lì la situazione è insostenibile, sono venuti senza che nessuno chiedesse loro il visto di ingresso o tutte quelle che sono le cose burocratiche. E questo allora vuol dire che quando la gente arriva a un certo punto di disperazione, tutte le regole non contano più!

D. – Un’ultima domanda: come è la situazione generale, oggi, in Nigeria?

R. – Posso dire che adesso la gente è delusa, perché dopo le elezioni dello scorso aprile c’è stato un governo che ci aveva promesso un cambiamento delle cose e abbiamo pensato che ci sarebbe stato anche un cambiamento nel modo di governare: dopo un anno, però, sembra che non siano riusciti a fare le cose che avevano promosso di fare! Non sappiamo se la ragione sia una cattiva volontà o perché i problemi sono molto più grossi di quando hanno fatto le loro promesse elettorali. Stiamo aspettando, intanto… Certamente ci sono stati degli sviluppi che erano fuori dal loro controllo, come, ad esempio, la caduta del prezzo del greggio: e questo non è colpa del nuovo governo. Anzi, questo vuol dire che l’entrata, la riscossione del governo è meno della metà rispetto a prima e il problema del nuovo governo è quello di avere un bilancio che sia solido. Malgrado questo, però, resta il fatto che il governo non sia riuscito a mettere tutte le forze - politiche, sociali, economiche - della Nigeria insieme per affrontare una situazione di quasi emergenza. Noi diciamo: “Siete il governo e dovete governare!”. Non si può continuare a dare la colpa a ciò che ha fatto il governo precedente. Speriamo che cominceremo ad avere una maggiore azione comune in tutto il Paese, senza dare l’impressione che il governo dia più favore ai musulmani, a scapito dei cristiani. Anche se questo non è vero, ma si ha l’impressione di questo. Lo abbiamo dato al governo come nostro consiglio sincero: deve fare attenzione e non lasciare spazio a queste accuse.

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Rapporto Ocse: allarme bassa crescita per l'economia mondiale

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L’economia mondiale rimane bloccata "in una trappola di bassa crescita": a dirlo è l’Ocse nel suo "Interim Economic Outlook", presentato oggi a Parigi. Il taglio delle stime sulla crescita è particolarmente pesante per l’Italia che passa da una previsione di aumento del Pil dell’1% nel 2016 e dell'1,4% nel 2017 allo 0.8% per entrambi i periodi. Tra i motivi principali della stagnazione mondiale, l'indebolimento dei flussi commerciali, mentre i tassi di interesse eccezionalmente bassi aumentano i rischi di instabilità finanziaria. Il servizio di Adriana Masotti:

L'Ocse taglia le stime sulla crescita di buona parte delle maggiori economie mondiali a partire dagli Usa, a causa dei deboli investimenti" e "nonostante i robusti consumi e la crescita dell'occupazione", ma a subire il taglio più duro è l'Italia, la cui crescita attesa per il 2017 passa dall'1,4% allo 0,8%. Revisione più moderata per la Francia, mentre le attese sulla Germania migliorano per l'anno in corso e peggiorano per il successivo. L'economia dell'Eurozona è invece stimata in espansione dell'1,5% nel 2016 e dell'1,4% nel 2017. Rispetto all'Economic Outlook di giugno, a livello planetario, l'unico Paese a essere interessato da una revisione al rialzo è il Brasile, la cui economia è prevista in calo del 3,3% quest'anno, mentre si attendeva una contrazione del 4,3%. Debole crescita per il Giappone, più rilevante per il Canada, ma sempre inferiore alla stime precedenti. Stabili le previsioni su Cina che cresce di oltre 6 punti e sull’India che supera i 7 punti di aumento.

II Pil mondiale, infine, è stimato in crescita del 2,9% quest'anno e del 3,2% l'anno prossimo, una crescita bassa bloccata soprattutto a causa dell'indebolimento dei flussi commerciali. Pesano poi, sottolinea l'organizzazione di Parigi, le continue delusioni sulla crescita che deprimono commercio, investimenti, produttività e salari, il che porta a sua volta a un ulteriore revisione al ribasso delle aspettative di crescita e a un infiacchimento della domanda". "La debolezza delle condizioni delle economie avanzate è controbilanciata, fa notare l’Ocse, da un graduale miglioramento" nei mercati emergenti", la cui crescita è comunque in calo rispetto agli anni precedenti e si riprenderà solo lentamente nel 2017, trainata dall'attenuarsi della recessione di Brasile, Russia e altri produttori di materie prime".

L’Ocse indica poi alcuni rischi dettati anche dai tassi di interesse eccezionalmente bassi in particolare per la sostenibilità delle istituzioni finanziarie. Inoltre, continua, occorre considerare che "molte economie emergenti soffrono del peso di debiti elevati e di distorsioni valutarie, rimanendo vulnerabili a fughe di capitali e a crescite più basse del previsto". Quello che occorre, suggerisce l’Ocse, è "una risposta politica più robusta", ad esempio "attraverso uno stimolo fiscale collettivo nelle economie avanzate". Nondimeno, "le difficoltà di accordarsi su risposte efficaci alle sfide politiche e alle crescenti tensioni politiche in molti paesi costituiscono significativi rischi al ribasso per l'economia globale". Infine il dopo Brexit: finora il risultato del referendum "ha avuto ripercussioni modeste sull'economia globale, in particolare sull'area euro, anche per quanto riguarda la fiducia e le valutazioni dei mercati finanziari sugli investimenti", riferisce l’Ocse, ma è "probabile" che nel 2017 "emergano maggiori effetti negativi sull'Eurozona". "Nel lungo periodo, conclude, il futuro accordo commerciale con la Ue e altri partner sarà cruciale".

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Alzheimer. Papa: "ricordarsi" dei malati e delle famiglie

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Oggi si celebra la XXIII Giornata Mondiale dell’Alzheimer con il tema “Ricordati di me” e il Santo Padre ha colto l’occasione, all’udienza generale di questa mattina, per chiedere a tutti, seguendo gli esempi di Gesù e Maria, di “ricordarsi” di chi soffre di questa malattia, dei loro familiari e di coloro che ne curano, con amore, i bisogni facendo sentire la propria vicinanza. Questa forma di demenza degenerativa colpisce il 5% delle persone con più di 60 anni e il numero degli italiani che ne soffre è in crescita: 600 mila rispetto ai 520 mila del 2006. Il decorso della malattia è lento e in media i pazienti vivono 8-10 anni dopo la diagnosi della malattia. Andrea Walton ha intervistato Gabriella Salvini Porro, presidente della Federazione Alzheimer Italia, iniziando col chiederle dell’importanza che hanno i familiari per i malati: 

R. – Il ruolo dei familiari è essenziale. Essenziale proprio in questo periodo in cui il welfare in Italia si è rimpicciolito. I familiari delle persone con demenza già prima venivano scarsamente considerati, ora è ancora più difficile. Il familiare, al di là di queste cose, è importante perché è la persona che conosce meglio il malato e la persona con demenza ha bisogno di un ambiente sereno e uniforme, lo stesso in cui ha sempre vissuto. Questo non toglie che ci siano altre persone che possano assistere questi malati: le badanti, delle persone che possono affiancare la famiglia oppure, quando la famiglia non ce la fa veramente più, la casa di riposo, la struttura protetta.

D. – Il Comune di Abbiategrasso ha intenzione di diventare il primo Comune a misura di persone affette da demenza: quanto conta il supporto sociale, anche a livello di comunità, per aiutare i familiari e i malati?

R. – Io dico che è importantissimo. Non è senz’altro la cura definitiva della malattia – non si pensa di guarire il malato – ma se noi riusciamo, se una comunità riesce a mettersi in gioco, ad accettare, capire e accogliere la persona con demenza, quest’ultima, e di conseguenza anche la sua famiglia, si sente più accettata e un po’ meglio. È un aiuto che si cerca di dare al malato e alla sua famiglia.

D. – Qual è la qualità della vita di un paziente trattato adeguatamente?

R. – “Trattato adeguatamente” significa che intorno a lui si crei un ambiente amichevole, come dicevo. E devono essere dati aiuto e supporto a tutte le persone che se ne prendono cura perché la cura, l’assistenza, a un malato di Alzheimer è stressante. Come la malattia di Alzheimer è devastante per il malato, lo è altrettanto per chi se ne prende cura. Infatti ci sono delle ricerche proprio su questo: i familiari dei malati di Alzheimer si ammalano più spesso e hanno anche malattie importanti. Quindi è molto, molto importante che siano seguiti e aiutati come purtroppo ora in Italia succede solo in alcune “oasi” – io le chiamo così – in cui ci sono servizi, la presa in carico del malato e della sua famiglia da qualcuno: una persona piuttosto che una struttura.

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Al via le norme anti cyberbullismo: reazioni contrastanti

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Molte le reazioni al via libera, ieri sera, da parte della Camera al testo contenente le norme per il contrasto del bullismo e del cyberbullismo che ora passa all’esame del Senato. Save the Children plaude alla scelta del parlamento di approvare una legge sul fenomeno sempre più diffuso, ma ritiene un errore la decisione di estendere il provvedimento agli adulti modificando profondamente il testo originario. Dello stesso parere Terres des Hommes, che teme un depotenziamento dello spirito della legge e cioè la reale protezione dei minorenni sull’web. Soddisfazione da parte di Telefono Azzurro, anche se per l’associazione permangono alcuni nodi da sciogliere. Benedetta Capelli ha sentito la senatrice Pd, Elena Ferrara, prima firmataria della legge sul cyberbullismo ed ex insegnante di musica di Carolina Picchio, la 14.enne che nel 2013 si è suicidata dopo la diffusione di un video sul web che la vedeva vittima di molestie: 

R. – Il disegno di legge naturalmente parte preoccupandosi della dimensione preventiva, che è poi quella che hanno suggerito tutti gli interlocutori con cui noi ci siamo messi in contatto e cioè chi aveva già da tempo affrontato l’argomento. Quindi, in questo confronto abbiamo capito: prima di tutto, prevenzione. Dove? Nelle scuole, dove riusciamo a trovare anche le famiglie. C’è voluta, però, una task force, incardinata nel Consiglio dei Ministri, perché il fenomeno è molto interdisciplinare. C’è, quindi, un problema di salute, di cura; c’è un problema di servizi minorili di giustizia; c’è un problema di forze dell’ordine, di Ministero dell’Istruzione e soprattutto ci sono le aziende…

D. – Tipo Twitter, Facebook, Google…

R. – Esatto. Sono stati tutti naturalmente a questo tavolo di lavoro. La misura della segnalazione, quindi, per le persone di minore età era stata con loro individuata come misura specifica di tutela dei minori. Così come con i professionisti del diritto si era, invece, immaginato di utilizzare la procedura di ammonimento anche per chi si fosse reso autore, responsabile di condotte riconducibili al cyberbullismo. Quindi abbiamo cercato di tutelare i ragazzi che si facevano del male sulla Rete. Questo era lo spirito della legge e credo che tutto si tenesse insieme a fronte di un’alleanza educativa.

D. – Tra l’altro, un disegno di legge, che voi tenete a specificare, non è contro la Rete, ma pone le basi per costruire un nuovo principio di cittadinanza digitale…

R. – Assolutamente. Questo è il senso. Non è lo strumento che deve essere demonizzato. Anzi lo strumento, l’ambiente digitale, ormai è l’ambiente in cui vivono, in cui vivranno i giovani e in cui viviamo anche noi. Ma quando il genitore regala lo smartphone al figlio di otto anni per la Prima Comunione, deve pensare che a quel punto c’è bisogno di un accompagnamento. Lo può fare sicuramente la scuola, ma bisogna che lo si faccia anche in famiglia, che si faccia cioè un percorso come quando si impara il codice della strada, per imparare pian piano anche ad evitare quelli che sono i rischi della rete, perché la pedopornografia è uno degli aspetti fondamentali. Quanti ragazzi mettono foto sessualmente esplicite sulla rete e quante ragazze, soprattutto, poi si pentono? Allora, noi immaginando che spesso, come succede, si sentano poi prese all’interno di un meccanismo perverso, perché da lì arriveranno le derisioni, i giudizi e quant’altro, abbiamo previsto possano anche non in prima battuta investire i genitori, ma segnalare direttamente al titolare del trattamento la richiesta di rimozione di quel contenuto.

D. – Chiedo, allora, a che punto siamo? Come sta procedendo questo disegno di legge?

R. – Alla Camera sono state fatte naturalmente anche delle modifiche in positivo. Dopo di che, è chiaro che se dal titolo sparisce la tutela per i minori, è perché si è presa un’altra strada. Ed io invece insistevo, ho insistito molto perché si facesse una legge per loro e che per una volta fossero i bambini e gli adolescenti, le bambine e le adolescenti, ad essere oggetto primario della nostra attenzione.

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Nella Chiesa e nel mondo



Congo: vescovi sospendono la partecipazione al dialogo nazionale

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I vescovi della Repubblica Democratica del Congo sospendono la loro partecipazione al dialogo nazionale a causa degli scontri che da due giorni si susseguono a Kinshasa e condizionano il loro ritorno al tavolo negoziale all’esclusione dell’attuale Presidente, Joseph Kabila, dalla prossime elezioni, “che dovranno essere organizzate al più presto”.

I vescovi condannano con forza la violenza da qualsiasi parte provenga
“Il sangue dei nostri fratelli e sorelle innocenti versato per il rispetto della Costituzione ci interpella. Costituisce per noi un segno dei tempi” afferma un comunicato della Conferenza Episcopale Nazionale del Congo (Cenco) ripreso dall’agenzia Fides. “Per rispetto nei loro confronti, in uno slancio di solidarietà con le famiglie provate e con l’intero popolo congolese, la Cenco ritiene saggio sospendere la sua partecipazione al dialogo nazionale in segno di lutto e per ricercare un consenso allargato”. I vescovi condannano con forza la violenza “da qualsiasi parte provenga” e ricordano a tutti i congolesi “che non sono nemici ma fratelli, compatrioti di uno Stato che devono costruire insieme e non distruggere”.

Il ritorno dei vescovi al dialogo nazionale solo se Kabila non si ricandiderà
La Cenco condiziona la ripresa della sua partecipazione al dialogo nazionale alla firma di un accordo politico preliminare che includa i seguenti punti: “dovrà essere chiaramente stabilito e stipulato che l’attuale Presidente della Repubblica non sarà candidato alla prossima elezione presidenziale da organizzare prima possibile”; “le date delle elezioni dovranno essere stabilite dall’accordo”.

Almeno 20 morti il bilancio di due giorni di scontri
​A causa delle violenze, il dialogo nazionale è stato sospeso per 48 ore. Oggi, Kinshasa vive una calma precaria. Un bilancio provvisorio dei due giorni di scontri è di almeno una ventina di morti, tra poliziotti e dimostranti. Diversi edifici sono stati saccheggiati. (L.M.)

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Iraq: appello mons. Warda per i cristiani in Medio Oriente

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Una drammatica richiesta d’aiuto per la sopravvivenza dei cristiani in Medio Oriente è stata rivolta al popolo tedesco dall’arcivescovo cattolico caldeo iracheno di Erbil, mons. Bashar Warda. “Si deve decidere entro il mese prossimo se, dopo 2000 anni di presenza in Iraq, il cristianesimo ha un futuro o si estinguerà, forse fatta eccezione per piccoli resti da museo”, ha detto l’arcivescovo del Kurdistan iracheno ieri a Fulda, ai partecipanti all’Assemblea plenaria della Conferenza episcopale tedesca. 

42 milioni di euro della Chiesa tedesca per i cristiani in Medio Oriente
Il numero dei cristiani in Iraq - riferisce l'agenzia Sir - è diminuito drasticamente da 1,4 milioni a neanche 300mila. Il presule caldeo ha ringraziato i cattolici tedeschi per il loro aiuto, che porta i cristiani in Iraq ad avere il maggiore sostegno finanziario tra tutti gli altri Paesi insieme. Il responsabile della commissione per la Chiesa mondiale e i migranti nella segreteria della Conferenza episcopale, Ulrich Pöner, ha detto che la Conferenza episcopale e le agenzie di carità e aiuto hanno stanziato per il 2015 circa 42 milioni di euro per gli interventi a favore dei cristiani in Medio oriente. 

Aiuti necessari per frenare l'emigrazione
Mons. Warda ha sottolineato che, grazie agli aiuti, si può cercare di dare nuove motivazioni ai cristiani in Iraq, affinché abbiano la forza di restare nelle loro case, invece di fuggire verso l’Europa: è necessario offrire sistemazioni dignitose, un’assistenza sanitaria di base e la costruzione di scuole per dare opportunità educative e di creazione di lavoro. (R.P.)

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India: un Pastore e due coniugi cristiani aggrediti da estremisti indù

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Aggressione contro un Pastore pentecostale e due coniugi cristiani a Kharghar, nel municipio di Navi Mumbai, nello stato indiano di Maharashtra. Come riferisce l'agenzia Fides, il 16 settembre il Pastore Prashant Bhatnagar, Sachin Shenge e sua moglie Manisha stavano distribuendo volantini, quando alcuni uomini appartenenti al gruppo militante “Shri Ram Pratishthan” hanno iniziato a protestare contro la distribuzione di quegli opuscoli, che invitavano i passanti ad una liturgia domenicale. I tre sono stati sequestrati e condotti con la forza in un luogo isolato dove sono stati minacciati, percossi e abusati verbalmente e fisicamente. Alcuni militanti hanno anche urinato sul pastore ferito e tramortito. Rilasciati privi di sensi e condotti in ospedale, i cristiani hanno presentato denuncia alla polizia di Kharghar, per sequestro di persona e violenza.

Gli estremisti accusano falsamente i pentecostali di proselitismo
​Sajan K. George, presidente del Consiglio globale dei cristiani indiani (Gcic) ha commentato a Fides: "Condanniamo fermamente l'attacco contro i cristiani pentecostali. L'India è un Paese laico e i cristiani non stavano facendo nulla di illegale. Gli estremisti accusano falsamente i pentecostali di attività di conversione, indulgono nella violenza e seminano diffidenza e sospetto verso i cittadini cristiani, creando danno alla società indiana". (P.A.)

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Vescovi Usa: soluzioni urgenti per i profughi del sud-est asiatico

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Non solo profughi siriani e ondate migratorie centroamericane. Esiste una realtà altrettanto drammatica e forse ancor più incredibilmente quasi ignorata dai grandi mezzi d’informazione e dunque sovente anche dalla politica internazionale. È la condizione dei profughi del Sudest asiatico, in particolare la popolazione rohingya (ma anche pakistani e montagnard), vittime di sistematiche violazioni dei diritti umani e dell’ignobile tratta delle persone. Su questa enorme emergenza umanitaria, proprio mentre è in corso a New York l’Assemblea generale delle Nazioni Unite dedicata proprio al tema dei rifugiati, accende i riflettori l’episcopato cattolico statunitense.

Delegazione Usa in missione nei Paesi coinvolti nel dramma dei profughi
Sul sito in rete dei vescovi americani - riporta l'Osservatore Romano - viene infatti pubblicato in queste ore un report realizzato dal Migration and Refugee Services in cui, appunto, si sollecitano i responsabili della comunità internazionale a ricercare quanto prima soluzioni umanitarie durevoli per i profughi di questa macroregione. Il rapporto, viene reso noto, è stato realizzato al termine di una visita sul campo che una delegazione dell’ufficio migrazioni e rifugiati dell’episcopato ha compiuto recentemente nei Paesi interessati: non solo in Myanmar ma anche in Thailandia, Malaysia, Indonesia e Australia. La delegazione, viene spiegato, ha avuto modo di incontrare bambini non accompagnati, rifugiati, vittime della tratta di esseri umani, governi locali, organizzazioni non governative, leader di comunità per meglio comprendere la situazione e contribuire così a trovare una soluzione alla crisi umanitaria.

Denunciata la grave condizione dei rohingya
In particolare, come accennato, i presuli statunitensi richiamano l’attenzione sulla condizione dei rohingya, una delle minoranze più perseguitate nel mondo, relegati in ghetti o in campi profughi in Bangladesh e sulla zona di confine tra Thailandia e Myanmar. Gravi episodi di persecuzione religiosa — i rohingya sono di fede musulmana — vengono continuamente registrati in Myanmar, dove nello Stato del Rakhine circa 120.000 individui vivono ammassati in più di ottanta campi profughi. Per loro però si spera che la situazione possa presto cambiare in meglio. 

Vescovi Usa aspettano dal governo birmano provvedimenti in favore dei rohingya
Dopo un lungo periodo di regime militare, adesso il Myanmar ha un Governo democraticamente eletto dal quale anche i presuli statunitensi si aspettano provvedimenti concreti in favore dei rohingya. «Mi unisco con i miei fratelli vescovi birmani nella preghiera per la pace, la continuazione delle riforme, la ricostruzione del Paese e per l’assistenza, la protezione, la ricerca di soluzioni definitive per tutti gli sfollati», ha detto mons. Eusebio L. Elizondo, vescovo ausiliare di Seattle e responsabile della Commissione episcopale sulle migrazioni. (I.P.)

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Brasile: rapporto sulla violenza contro i popoli indigeni

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In un rapporto di 172 pagine, il Consiglio Indigenista Missionario (Cimi) del Brasile, organo vincolato alla Conferenza episcopale del Brasile (Cnbb), ha pubblicato i dati relativi al 2015 sulla "Violenza contro i popoli indigeni in Brasile", che è il titolo del rapporto.

Aumento degli attacchi contro i campi delle comunità Guarani e Kaiowá
I dati mostrano che nel 2015 è rimasta invariata l’invasione costante e la devastazione delle terre delimitate. Il rapporto richiama l'attenzione sull'aumento degli attacchi contro i campi delle comunità Guarani e Kaiowá, nel Mato Grosso do Sul. Il Presidente del Cimi, l’arcivescovo di Porto Velho, mons. Roque Paloschi, nella presentazione del rapporto, domanda: "Perché si ripetono le stesse pratiche criminali, senza che vengano adottate misure effettive. Fino a quando dobbiamo presentare questo tipo di rapporti?".

Si è fatto poco per regolarizzare lo status delle terre indigene
L'agenzia Fides segnala alcuni dati dell’ampio documento. Il rapporto osserva che si è fatto poco per regolarizzare lo status delle terre indigene. Secondo la Costituzione federale, tutte le terre indigene tradizionali avrebbero dovuto essere delimitata già nel 1993, cinque anni dopo la promulgazione della Costituzione. Tuttavia, secondo l'indagine del Cimi, al 31 agosto 2016, 654 territori indigeni in Brasile erano ancora in attesa di atti amministrativi dello Stato per avviare i processi di demarcazione. Tale numero corrisponde al 58,7% del totale delle 1.113 terre indigene nel Paese.

137 omicidi di indigeni in tutto il Paese
Riguardo alla violenza, secondo i dati ufficiali della Segreteria Speciale di Sanità Indigena (Sesai) e del distretto sanitario indigeno del Mato Grosso do Sul(Dsei-Ms), ci sono stati 137 omicidi di indigeni in tutto il Paese, 36 dei quali registrati dal Dsei-Ms.

Tra il 2000 e il 2015 sono stati registrati 752 casi di suicidio
Degli 87 casi di suicidio in tutto il Paese, 45 si sono verificati nel Mato Grosso do Sul, soprattutto tra i Guarani e i Kaiowá. Tra il 2000 e il 2015 sono stati registrati 752 casi di suicidio solo in questo stato. Un recente studio condotto dal Fondo delle Nazioni Unite per l'Infanzia (Unicef) e dal Gruppo di lavoro internazionale per gli affari indigeni (Iwgia) sui gruppi di etnia Guarani e Kaiowá, afferma che questi giovani indios portano in sé un trauma originato dalle vicende raccontate dai loro genitori: storie di sfruttamento, violenza, morte e perdita della dignità umana. Il rapporto considera anche i dati parziali della mortalità infantile indigena: le tre principali cause di morte sono state polmonite (8,2%), diarrea e gastroenterite di origine infettiva (7%). (C.E.)

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Kenya: due nuove radio cattoliche a Maralal e Mombasa

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Radio Mchungaji e Radio Tumaini, ovvero Radio Pastore e Radio Speranza: si chiamano così le due nuove emittenti cattoliche stabilite dalla Conferenza episcopale del Kenya (Kccb) per le diocesi di Maralal e Mombasa. L’iniziativa, spiega l’agenzia africana Cisa, rientra nel piano pastorale 2016-2020 della Kccb che prevede di fornire in tutto il Paese venti stazioni radiofoniche cattoliche.

La radio, strumento di promozione della pace e dello sviluppo
Radio Mchungaji andrà in onda sulle frequenze di 95.4 fm nel raggio di 150 km ed in futuro avrà programmi anche in swahili. La nuova struttura informativa cercherà, così, di contribuire allo sviluppo della diocesi di Mararal, situata nella contea di Samburu, in cui si vive da tempo una lunga storia di emarginazione e di negligenze politiche, sociali ed economiche, tutte specchio di una grande carenza di servizi e infrastrutture, insieme ad alti tassi di analfabetismo e di diffusione di malattie. In quest’ottica, la nuova radio si pone l’obiettivo di “promuovere lo sviluppo umano, costruire la pace e rafforzare la comunità nella sua fede cattolica”.

Contrastare radicalismi ed estremismi
Lo stesso farà Radio Tumaini che, nella diocesi di Mombasa, opererà in favore di una cultura della pace e di uno sviluppo locale, fornendo anche una piattaforma condivisa per contrastare i radicalismi e gli estremismi dei giovani, purtroppo dilaganti nella regione. L’arcivescovo di Mombasa, mons. Martin Kivuva, ha espresso soddisfazione per l’iniziativa, definendola “tanto attesa”. Dal suo canto, mons. Emanuel Barbara, vescovo di Malindi – altra diocesi che sarà raggiunta dalle onde di Radio Tumaini – ha evidenziato come tale emittente possa contribuire ad accrescere “la partecipazione della popolazione locale alla vita della comunità e ad incentivare la promozione dell’unità e della riconciliazione”. (I.P.)

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Vescovo Uruguay: nessun vincolo con gruppo pseudo-religioso mariano

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La diocesi di Salto ha diffuso un comunicato che svincola la Chiesa cattolica da ogni riferimento con il “Centro Mariano de Aurora” o “Casa Redenciòn” che si trova nelle vicinanze della zona termale di Daymàn, nella provincia di Salto. Il testo, a firma del vescovo mons. Pablo Galimberti, precisa che il suddetto Centro di cura “non ha alcun vincolo con la Chiesa cattolica” e avverte sulla “confusa” dottrina del gruppo religioso nella quale si mescolano elementi della tradizione cattolica e di altre provenienze.

Trasparenza e verità
Il comunicato della diocesi ricorda il proprio obbligo di fare luce sull’origine e le pratiche del “Centro Mariano dI Aurora”, il quale afferma, sin dall’inizio, che “ha un carattere filosofico, religioso ed ecumenico e allo stesso tempo non segue alcuna religione”. Tuttavia, avverte mons. Galimberti, il gruppo pseudo religioso usa e mescola immagini e tradizioni centrali della dottrina cattolica, tra i quali Gesù, la Madonna, San Padre Pio,  la preghiera del Santo Rosario, ecc. Inoltre, la nota afferma che il termine “ecumenico” viene impiegato in modo equivoco visto che non fanno parte del movimento ecumenico, come inteso dalle Chiese cristiane del Uruguay e dal Consiglio Mondiale delle Chiese.

Fedeli vittime della confusione
​Il vescovo afferma che la società e i cittadini di Salto “meritano una informazione veritiera e attendibile”. Il comunicato denuncia che nei volantini e nei manifesti pubblicitari  della “Casa Redenciòn”, viene usata l’immagine di Gesù Misericordioso, come rivelato da suor Faustina, religiosa cattolica polacca dichiarata santa dal Papa San Giovanni Paolo II. Mons. Galimberti ha ricordato che a novembre del 2012, la Chiesa uruguaiana aveva già pubblicato un comunicato sulla “confusa dottrina” di questo gruppo,  per cui ribadisce ancora una volta l'estraneità di ogni riferimento alla Chiesa Cattolica. (A cura di Alina Tufani)

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Svizzera: Consiglio di cooperazione vescovi-Chiese cantonali

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“Si è aperto un nuovo capitolo”: così la Conferenza episcopale svizzera  (Ces) e la Conferenza centrale cattolica romana del medesimo Paese - ovvero l’associazione delle organizzazioni cantonali di diritto pubblico ecclesiastico (Rkz) – commentano la prima seduta del Consiglio di cooperazione, svoltasi in questi giorni.

Parlare con una sola voce
“Per la prima volta – si legge in una nota congiunta - la Chiesa cattolica in Svizzera dispone di un organismo a livello nazionale, responsabile della cooperazione su questioni strategiche”, “chiamato a creare le condizioni per consentire ai vescovi ed alle Chiese cantonali di sviluppare posizioni comuni su questioni di interesse comune, di parlare con una sola voce e rispondere prontamente ai cambiamenti” in corso.

La sfida comune dei migranti e la riflessione sui 500 anni della Riforma
Al centro dei lavori, prosegue la nota, l’assegnazione dei fondi disponibili: istituita nel 1971, infatti, la Rkz ha il compito di cofinanziare istituzioni ecclesiastiche intercantonali, interdiocesane e linguistiche. Ma non solo: sono state affrontate anche “le sfide comuni”, come “la cura pastorale dei migranti o l'impegno della Chiesa cattolica nel contesto del 500.mo anniversario della Riforma” che verrà celebrato nel 2017. E ancora: “Lo sviluppo della legge statale in materia di religione ed i dibattiti intorno al futuro del servizio pubblico nel settore dei media, che è di importanza cruciale per le Chiese, e non solo a causa di trasmissioni religiose radiofoniche e televisive”.

Spirito di collaborazione
L’incontro svoltosi in questi giorni è il risultato di un’intesa siglata da Ces e Rkz nel dicembre 2015: nello specifico, si è trattato della conclusione di due accordi: una convenzione sui principi che regolano la collaborazione tra i due organismi, ed un nuovo contratto di cofinanziamento che regola il coordinamento delle decisioni di natura pastorale e finanziaria nelle diverse regioni linguistiche della Svizzera”. In quest’ultimo ambito, è stata stabilita “l’azione congiunta di Ces e Rkz nell’attribuzione di mezzi finanziari alle istituzioni ecclesiastiche attive” in Svizzera, tra cui i centri formativi, gli organismo pastorali per i giovani ed i migranti e gli enti mediatici ecclesiali.

La struttura della Chiesa svizzera
​Da notare che la Chiesa svizzera ha una sua specifica struttura organizzativa legata alla organizzazione federale dello Stato elvetico che pone la regolamentazione dei rapporti con la religione sotto l'autorità sovrana dei cantoni. In pratica, oltre alle diocesi e alle parrocchie (le strutture tradizionali della Chiesa cattolica universale), in ogni cantone ci sono enti di diritto pubblico ecclesiastico create dallo Stato e ai quali è attribuito il potere di riscuotere dai fedeli le imposte ecclesiastiche, a condizione di attenersi ai principi democratici che governano organismi elettivi. (I.P.)

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Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LX no. 265

E' possibile ricevere gratuitamente, via posta elettronica, l'edizione quotidiana del Bollettino del Radiogiornale. La richiesta può essere effettuata sul sito http://it.radiovaticana.va

Segreteria di redazione: Gloria Fontana, Mara Gentili, Anna Poce e Beatrice Filibeck, con la collaborazione di Barbara Innocenti e Serena Marini.