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Sommario del 14/09/2016

Il Papa e la Santa Sede

Oggi in Primo Piano

Nella Chiesa e nel mondo

Il Papa e la Santa Sede



"Uccidere in nome di Dio è satanico": così il Papa alla Messa per p. Hamel

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Padre Jacques Hamel, il sacerdote francese ucciso a 84 anni, il 26 luglio scorso, “è un martire” e “i martiri sono beati”. Così stamattina Papa Francesco all' omelia della Messa celebrata a Casa Santa Marta, in segno di vicinanza ai familiari e a tutta la comunità di Rouen nel giorno in cui la Chiesa celebra la Festa dell’Esaltazione della Santa Croce. Una Messa di suffragio, dunque, per  il sacerdote che è stato sgozzato per mano di due giovani terroristi francesi di origini maghrebine, in un attentato rivendicato dal sedicente Stato Islamico, mentre celebrava la Messa nella chiesa di Saint-Etienne-du-Rouvray. Presenti alla Celebrazione Eucaristica circa 80 pellegrini della diocesi di Rouen, insieme al loro vescovo, mons. Dominique Lebrun. Ascoltiamo la voce del Papa nel servizio di Debora Donnini

“Quanto piacerebbe che tutte le confessioni religiose dicessero: 'Uccidere in nome di Dio è satanico'”.

Il Papa lo sottolinea più volte nella toccante omelia per padre Jacques Hamel. La vita e la morte di padre Hamel si inscrivono nella storia cristiana del martirio. E per comprenderla decisiva è l’odierna Festa dell’Esaltazione della Croce. Gesù, pur “essendo nella condizione di Dio”, divenne simile agli uomini e si fece obbediente fino alla morte in Croce. Lui è il primo martire, sottolinea il Papa, e “da questo mistero di Cristo, incomincia tutta la storia del martirio cristiano, dai primi secoli ad oggi”.

“C’è una cosa, in quest’uomo, che ha accettato il suo martirio lì, con il martirio di Cristo, all’altare, una cosa che mi fa pensare tanto: in mezzo al momento difficile che viveva…un uomo mite, un uomo buono, un uomo che faceva fratellanza, non ha perso la lucidità di accusare e dire chiaramente il nome dell’assassino. E ha detto chiaramente: ‘Vattene, Satana!’.

Oggi più martiri dei primi tempi
L’autore della persecuzione è dunque Satana. E il martirio testimonia la vita di Cristo. Il sacerdote francese, infatti, è stato sgozzato mentre celebrava la Messa,  come se fosse un criminale, dando “la sua vita per noi”, “per non rinnegare Gesù”.  Come i primi cristiani che hanno confessato Gesù pagando con la vita. A loro era proposta l’apostasia, ricorda il Papa: “Dite che il nostro dio è il vero, non il tuo. Fate un sacrificio al nostro dio o ai nostri dei”. E venivano uccisi quando la rifiutavano. Una storia che “si ripete fino ad oggi e oggi nella Chiesa ci sono più martiri cristiani dei primi tempi”, sottolinea Papa Francesco:

“Oggi ci sono cristiani assassinati, torturati, carcerati, sgozzati perché non rinnegano Gesù Cristo. In questa storia, arriviamo al nostro père Jacques: lui fa parte di questa catena di martiri. I cristiani che oggi soffrono – sia nel carcere, con la morte o con le torture – per non rinnegare Gesù Cristo, fanno vedere proprio la crudeltà di questa persecuzione. E questa crudeltà che chiede l’apostasia, diciamo la parola: è satanica”.

P. Hamel è un martire
Padre Hamel è stato dunque un esempio di coraggio. Un esempio che è un richiamo per tutti: svuotare se stessi per aiutare gli altri, andando avanti avanti senza paura:

“Dobbiamo pregarlo - è un martire! E i martiri sono beati – dobbiamo pregarlo, che ci dia la mitezza, la fratellanza, la pace, anche il coraggio di dire la verità: uccidere in nome di Dio è satanico”.

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Il Papa al vescovo di Rouen: padre Hamel è già beato

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Dopo la Messa a Santa Marta con il Papa in suffragio di padre Jacques Hamel, il vescovo di Rouen, mons. Dominique Lebrun, è intervenuto assieme ad una sorella del sacerdote francese al briefing presso la Sala Stampa vaticana. Il servizio di Debora Donnini

Il Papa ha voluto mettere la foto di padre Jacques Hamel stamani sull’altare. Così il vescovo di Rouen, mons. Dominique Lebrun. Il vescovo racconta, infatti, che le suore e la coppia che il 26 luglio erano presenti alla Messa quando è stato ucciso padre Hamel, non sono potuti venire a Roma per motivi di salute ma hanno potuto seguire la Celebrazione Eucaristica grazie ai media:

“Volevo portare loro qualche ricordo, quindi ho fatto vedere la foto e volevo chiedere che la firmasse per portarla poi alle suore. Il Papa invece subito mi ha detto: ‘La mettiamo sull’altare’. Questo mi ha colpito. Dopo ci ha salutato molto fraternamente. Alla fine della Messa, dopo avere salutato tutti, mentre stava firmando, mi ha detto: ‘Ma tu puoi mettere questa foto in Chiesa, perché lui è beato adesso. E se qualcuno ti dice che non hai il diritto, gli dici che il Papa ti ha dato il permesso’”.

In conferenza stampa, il vescovo, rispondendo ad una domanda, ha spiegato che c’è paura dopo gli attentati, ma più gente va a Messa:

“C’è paura, questo senz’altro. Una settimana fa ho avuto una riunione con i vicari della diocesi e mi hanno detto tutti che c’è stata sempre qualche telefonata: ‘C’è ancora la Messa? Possiamo andare? Non c’è rischio?'. Domande del genere. C’è però più gente a Messa! Questo mi fa riflettere molto sulle parole di Gesù, che Giovanni Paolo II ha ribadito spesso: ‘Non abbiate paura’”.

Ad intervenire anche una delle sorelle di padre Hamel, Rosine, che sulle parole di Papa Francesco all'omelia di oggi - "e' satanico uccidere in nome di
Dio" - ha detto: “I due assassini hanno ucciso in nome di un Dio che non è dell'Islam né del cristianesimo".

Domani, poi, presso la Chiesa di San Bartolomeo all’Isola Tiberina,  ci sarà una celebrazione in ricordo di padre Jacques. Vi parteciperanno anche rappresentanti della diocesi di Rouen, a partire dal vescovo. E il breviario del prete ucciso sarà donato e, quindi, conservato nella Basilica insieme alle altre reliquie dei martiri contemporanei.

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Papa: pastori non siano principi, ma vicini alla gente come Gesù

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I pastori della Chiesa non si allontanino dalla gente, ma seguano l’esempio di Cristo che stava in mezzo ai poveri per donare loro la salvezza di Dio. Così il Papa nella sua catechesi all’udienza generale in Piazza San Pietro. Il servizio di Giada Aquilino

Nella Chiesa nessun pastore dev'essere principe
Con Gesù la misericordia di Dio “si è fatta carica delle povertà degli uomini”, donando a tutti “la possibilità di salvezza”. Nel giorno della festa dell’Esaltazione della Santa Croce, Papa Francesco spiega infatti come Cristo si sia fatto “vicino a tutti”, in particolare “ai più poveri”:

“Era un pastore che era tra la gente, tra i poveri: lavorava tutto il giorno con loro. Gesù non era un principe. E’ brutto per la Chiesa quando i pastori diventano principi, lontani dalla gente, lontani dai più poveri: quello non è lo spirito di Gesù. Questi pastori Gesù rimproverava, e di loro Gesù diceva alla gente: ‘fate quello che loro dicono, ma non quello che fanno’”.

Tra i semplici
Commentando il passo del Vangelo di Matteo in cui il Signore chiama a seguirlo proprio persone semplici e “gravate da una vita difficile”, “che hanno tanti bisogni”, promettendo loro “che in Lui troveranno riposo e sollievo”, il Pontefice ricorda che quell’invito “è rivolto in forma imperativa”. Gesù dice: “Venite a me”, “prendete il mio giogo”, “imparate da me”:

“Magari tutti i leaders del mondo potessero dire questo!".

Il ristoro che solo Cristo può dare
Gli “sfiduciati della vita”, i poveri, i piccoli, spiega Francesco, “non possono contare su mezzi propri, né su amicizie importanti”, ma “solo confidare in Dio”. Consapevoli di una “umile e misera condizione”, sanno di “dipendere” dalla misericordia del Signore, “attendendo da Lui l’unico aiuto possibile”. Divengono così suoi discepoli, ricevendo la promessa “di trovare ristoro per tutta la vita”. Una promessa estesa poi “a tutte le genti”. E in particolare nell’Anno Santo, in cui “nelle cattedrali, nei santuari e in tante chiese nel mondo, negli ospedali, nelle carceri”, i pellegrini varcano la Porta della Misericordia per una ragione precisa:

“Per trovare Gesù, per trovare l’amicizia di Gesù, per trovare il ristoro che soltanto Gesù . Questo cammino esprime la conversione di ogni discepolo che si pone alla sequela di Gesù. E la conversione consiste sempre nello scoprire la misericordia del Signore. Essa è infinita e inesauribile: è grande la misericordia del Signore”.

Cristo, centro della relazione con Dio
Ricevendo inoltre il “giogo di Gesù”, prosegue il Papa, ogni discepolo entra “in comunione con Lui“, perché Cristo è “al centro della loro relazione con Dio”:

“Gesù pone sui suoi discepoli il suo giogo, nel quale la Legge trova il suo compimento. Vuole insegnare loro che scopriranno la volontà di Dio mediante la sua persona: mediante Gesù, non mediante leggi e prescrizioni fredde che lo stesso Gesù condanna.”

Spesso ci allontaniamo da ciò che vale
Francesco evidenzia come Cristo non sia “un maestro che con severità impone ad altri dei pesi che lui non porta”: Egli si rivolge agli umili, ai piccoli, ai poveri, ai bisognosi perché Lui stesso – nel suo cammino per salvare l’umanità – si è fatto “povero e provato dai dolori”, caricandosi “sulle spalle i dolori e i peccati dell’intera umanità”. Ci sono momenti, riflette ancora il Papa, “di stanchezza e di delusione”: è allora che dobbiamo “capire se stiamo mettendo le nostre forze al servizio del bene”, perché “a volte” tale stanchezza “è causata dall’aver posto fiducia in cose che non sono l’essenziale, perché ci siamo allontanati da ciò che vale realmente nella vita”. Il Signore ci insegna invece cosa significhi “vivere di misericordia per essere strumenti di misericordia”:

“Vivere di misericordia è sentirsi bisognoso della misericordia di Gesù e quando noi ci sentiamo bisognosi di perdono, di consolazione, impariamo a essere misericordiosi con gli altri”.

La gioia del perdono
L’invito è a non farci “togliere la gioia di essere discepoli del Signore”:

“Lasciati guardare dal Signore, apri il tuo cuore, senti su di te il suo sguardo, la sua misericordia, e il tuo cuore sarà riempito di gioia, della gioia del perdono, se tu ti avvicini a chiedere il perdono”.

I pellegrini di lingua francese
Un’esortazione ribadita nei saluti finali, in particolare ai fedeli di lingua francese, tra cui quelli dell’arcidiocesi di Rouen che poco prima avevano preso parte alla Messa del Pontefice a Casa Santa Marta in ricordo di padre Jacques Hamel:

“Nelle difficoltà della vita, prendiamo coraggiosamente la rotta con Gesù e non saremo mai soli. Non lasciamoci togliere la gioia di essere discepoli del Signore”.

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Francesco: la Croce di Gesù è la risposta di Dio al male

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All’udienza generale, durante i saluti ai pellegrini, il Papa ha più volte sottolineato che oggi la Chiesa celebra la Festa dell’Esaltazione della Santa Croce, auspicando “che tutti possano trovare vita nuova” proprio a partire dalla Croce di Gesù:

“Guardiamo ad essa, sulla quale il Figlio di Dio è morto per la nostra salvezza. Essa è la risposta di Dio al male e al peccato dell’uomo. È una risposta di amore, di misericordia e di perdono. Mostriamo questa Croce al mondo e glorifichiamola nei nostri cuori, nelle nostre famiglie e nelle nostre comunità”.

Infine, si è riferito a questa Festa rivolgendo il suo saluto ai giovani, ai malati e agli sposi novelli:

"Cari giovani, riprendendo dopo le vacanze le consuete attività, rafforzate anche il vostro dialogo con Dio, diffondendo la sua luce e la sua pace; cari ammalati, trovate conforto nella croce del Signore Gesù, che continua la sua opera di redenzione nella vita di ogni uomo; e voi, cari sposi novelli, sforzatevi di mantenere un costante rapporto con Cristo Crocifisso, affinché il vostro amore sia sempre più vero, fecondo e duraturo“.

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Tweet: perdono Chiesa ha stessa estensione di quello di Gesù sulla Croce

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Il Papa ha pubblicato oggi un nuovo tweet: "Il perdono della Chiesa non può che avere la stessa estensione di quello di Gesù sulla Croce, e di Maria unita a Lui".

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Burke: C9 su efficienza dicasteri e profilo di vescovi e nunzi

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Come migliorare il servizio reso dai vari dicasteri vaticani alla Chiesa universale: il tema al centro delle riunioni del Consiglio dei Nove Cardinali, istituito da Papa Francesco nel settembre 2013 con il compito di coadiuvarlo nel governo della Chiesa e nel progetto di riforma della Curia Romana. Sui lavori del C9 - che oggi conclude la sua XVI riunione - ha riferito Greg Burke, direttore della Sala Stampa vaticana. Il servizio di Roberta Gisotti

Riuniti con il Papa per tre giorni, i cardinali - assente per impegni pastorali il congolese Laurent Monsengwo Pasinya, arcivescovo di Kinshasa – hanno proseguito, ha riferito Greg Burke, le loro valutazioni su come la Curia Romana possa “meglio servire la missione della Chiesa”, concentrando la loro attenzione sulle Congregazioni per il Clero e per i Vescovi, chiedendosi a quale profilo debbano rispondere oggi presuli e nunzi. Ospite, il cardinale Marc Ouellet, prefetto della Congregazione per i Vescovi. Ai nostri microfoni Greg Burke:

R. – Sì, anche questo non è un tema nuovo. Il cardinale Ouellet è venuto, ha parlato di questo con i cardinali, della grande importanza del profilo spirituale e pastorale necessario per un vescovo, oggi.

D. – Ci sono altri aspetti o altre istituzioni su cui sta procedendo il lavoro del C9 per la riforma della Curia?

R. – Sì, una novità questa volta è stato uno studio sul tema del servizio diplomatico della Santa Sede e della formazione dei nunzi apostolici, in particolare l’attenzione alla loro responsabilità nella scelta dei candidati all’episcopato.

D. – Sappiamo che c’è stata anche una relazione di due cardinali membri del C9 – il cardinale Pell e il cardinale O’Malley – sulle novità che riguardano i nuovi dicasteri di cui loro sono responsabili …

R. – Sì, questi sono chiaramente due dei porporati più conosciuti del C9; tutti e due hanno fornito aggiornamenti sul loro lavoro: il cardinale Pell come prefetto della Segreteria per l’Economia e il cardinale O’Malley, arcivescovo di Boston, in quanto capo della Commissione per la tutela dei minori, un’istituzione molto importante.

D. – Queste riunioni del C9, dunque, sono un’occasione per andare avanti ma anche per riflettere su quello che già è stato fatto …

R. – Sì, infatti, credo che ci sia anche questo: ogni tanto valutano anche i risultati del loro lavoro e questa volta hanno potuto vedere cosa è accaduto nella Segreteria per la Comunicazione - che ha consegnato un dossier ai cardinali sull'andamento della riforma del settore e dei prossimi passi come da progetto - e anche nel nuovo dicastero per il Servizio dello Sviluppo umano integrale.

D. – Il Papa segue e interviene nei lavori...

R. – Il Papa ha seguito i lavori ed è intervenuto. L’unico momento in cui non è stato presente era questa mattina perché impegnato nell’udienza generale.

Parlando con i giornalisti, il direttore della Sala Stampa ha aggiunto che il C9 sta esaminando in questi giorni anche un ampio dossier sul ruolo del Pontificio Consiglio per la promozione dell’Unità dei cristiani e sta studiando il tema della diaconia e della giustizia. Prossima riunione dal 12 al 14 dicembre. 

Questi i cardinali membri del C9: Pietro Parolin, segretario di Stato (Italia), Andrés Rodríguez Maradiaga, arcivescovo di Tegucigalpa (Honduras), coordinatore del gruppo, Giuseppe Bertello, presidente del Governatorato, Francisco Javier Errázuriz Ossa, arcivescovo emerito di Santiago del Cile (Cile), Oswald Gracias, arcivescovo di Bombay (India), Reinhard Marx, arcivescovo di Monaco e Frisinga (Germania), Laurent Monsengwo Pasinya, arcivescovo di Kinshasa (Repubblica Democratica del Congo), Sean Patrick O’Malley, arcivescovo di Boston (Stati Uniti), George Pell, prefetto della Segreteria per l'Economia (Australia) .

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Oggi su "L'Osservatore Romano"

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È satanico uccidere in nome di Dio: Il Papa celebra la Messa in suffragio di don Jacques Hamel, il sacerdote francese barbaramente assassinato lo scorso 26 luglio

Quando i tifosi intonarono She Loves You: Gaetano Vallini sul film di Ron Howard sui Beatles

Lucetta Scaraffia sul libro di Antonella Lumini e Paolo Rodari: La via del silenzio

Leggere partecipando: Isabella Ducrot sul declino di un mondo culturale nel libro di Edoardo Albinati “La scuola cattolica”

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Oggi in Primo Piano



Tregua in Siria. P. Hibrahim: si sopravvive grazie a benefattori

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Fragile tregua in Siria dopo l’accordo tra Russia e Stati Uniti. Dall’inizio del cessate il fuoco, lunedì sera, c'è stata una significativa riduzione della violenza, ha detto l'inviato speciale dell'Onu Staffan de Mistura. Ma ora si attende l’arrivo dei convogli umanitari ad una popolazione stremata da oltre 5 anni di guerra. Ascoltiamo, al microfono di Emanuela Campanile, la testimonianza del padre francescano Ibrahim al Sabbagh, parroco nella zona ovest di Aleppo, controllata dai governativi: 

R. – Quello che noi facciamo è comprare cibo, medicine e distribuirli continuamente alla gente.

D. – Da chi arrivano questi pacchi?

R. – Li compriamo noi, con l’aiuto dei benefattori: non aspettiamo gli aiuti umanitari che arrivano o meno, perché non si riesce con questi aiuti a organizzare un aiuto mensile costante e fisso. La gente ha bisogno di un aiuto continuo e quindi dipendiamo più da quello che i nostri benefattori ci mandano in denaro e con questi soldi noi compriamo.

D. – Uno de problemi più gravi che voi patite è la mancanza di acqua …

R. – Sì, la mancanza di acqua, ma ultimamente la situazione è un po’ migliorata, nonostante continui a essere non potabile, con tanti batteri e con tanti problemi che causano anche malattie alle persone. Ma la nostra prima piaga, la nostra prima sfida è quella dei missili che cadono sulla testa della gente, sulle abitazioni e sulle strade ed è per questo che la gente, purtroppo, non ce la fa più. Tanti, anche nelle nostre famiglie, continuano a decidere di lasciare la città per emigrare, anche fuori dal Paese. La seconda piaga è quella della situazione generale della città: non avere lavoro significa che le famiglie non hanno entrate fisse, mensili, e questo significa che continua ad aumentare il numero delle famiglie povere e bisognose di tutto. E questo spinge poi alla depressione, a diversi problemi a livello psicologico e spinge la gente a disperarsi …

D. – Quanto dura la sua giornata di lavoro nel soccorrere i suoi parrocchiani e, ovviamente, la gente del luogo in generale?

R. – Inizia generalmente alle 8 del mattino fino alle 11 di notte, a volte: c’è l’accoglienza, il tentativo di risolvere i problemi, l’incontro con la gente, le visite … ma poi, c’è un altro lavoro, anche arduo, da continuare durante la notte ed è quello di rispondere ai messaggi, alle lettere degli amici, dei benefattori. E’ una giornata molto lunga, molto faticosa, la nostra: sono mesi e mesi in cui non abbiamo neanche una mezza giornata libera. C’è il servizio spirituale, pastorale che già di per sé è molto impegnativo, ma poi c’è anche il soccorso umanitario che noi abbiamo adottato come modo di essere con la gente. Oggi non possiamo mollare …

D. – In quanti l’aiutano in questa opera di soccorso alle famiglie?

R. – Qui ad Aleppo noi siamo cinque frati Francescani che aiutano nella parrocchia; però, abbiamo sempre i consacrati intorno a noi, dei Gesuiti, dei Salesiani … Abbiamo diverse congregazioni di suore che cercano anche di aiutare, nonostante il punto centrale sia sempre la parrocchia. Abbiamo centinaia e centinaia di famiglie di rito latino, ma noi tutti cristiani qui, nella parte ovest di Aleppo, siamo circa 40 mila persone. Bisogna dire che tanti di loro, tante persone sono anziane, abbandonate, da sole; ci sono tante vedove e tanti bambini piccoli senza padre o senza madre … E in qualsiasi momento può cadere un missile e allora bisogna intervenire subito, visitare, pregare con la gente per essere sempre accanto a quelli che soffrono …

D. – Ci sono solo cristiani nell’area nella quale si trova lei, con la sua parrocchia, oppure avete anche presenze di musulmani, di persone di altre religioni?

R. – In questa parte ovest della città, dove viviamo sotto il controllo dell’esercito regolare, viviamo sempre come prima della crisi: in tutte le zone, praticamente, c’era la presenza di tutti i riti e di tutte le religioni. Abbiamo vissuto così da sempre e noi, in questa parte ovest, oggi, continuiamo a vivere così. C’è grande rispetto e c’è grande collaborazione e noi cerchiamo sempre di tendere la mano per quanto riguarda gli aiuti umanitari: perché è Nostro Signore Gesù che ci spinge sempre con l’unico comandamento della carità, anche pensando di aiutare gli altri, cioè i musulmani. Noi continuiamo a dare la vita come abbiamo sentito e come abbiamo visto farlo dal nostro modello, Gesù Cristo: continuiamo ad amare fino a dare la vita per i fratelli.

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Juncker: l'Europa sia più sociale. Flessibilità intelligente

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Discorso sullo Stato dell'Unione di fronte al Parlamento di Strasburgo di Jean-Claude Juncker: “Il patto di stabilità non diventi patto di flessibilità” dice il presidente della Commissione Ue che invoca una forte assunzione di responsabilità e una Europa più “sociale”. La priorità è difendersi dal terrorismo, dice Juncker, annunciando da novembre la registrazione di chi entra nell'Unione. Il servizio di Gabriella Ceraso

Economia, migrazioni, terrorismo nel discorso di Juncker su una Europa nel pieno di una crisi esistenziale e con un livello di indebitamento ancora troppo alto. Per questo la ricetta è guardare alle ragioni e non applicare punizioni, anzi sostenere gli sforzi di riforme in corso. Bene il patto di stabilità, dice Juncker, purchè non diventi di flessibilità: servono buonsenso e intelligenza per non ostacolare la crescita. Capitolo Brexit, attenzione ai populismi ma l’Ue non ne è minacciata, sarebbe meglio comunque avvenisse al più presto. A negoziarla sarà una équipe apposita, il Gruppo di lavoro articolo 50, guidato dal francese Barnier.

Juncker sponsorizza il rafforzamento anche di una difesa comune europea, una sorta di quartier generale efficace per quella che resta la priorità, cioè la lotta al terrorismo. Entro novembre la Commissione proporrà un sistema europeo di registrazione dati sui viaggi, in modo da sapere chi è autorizzato a spostarsi nella Ue prima che vi arrivi .Sui migranti l’invito è ad un’azione immediata a tutela dei minori non accompagnati e ad una maggiore solidarietà in termini di ricollocamenti.

Sul capitolo spinoso della liberalizzazione dei visti con la Turchia: avverrà solo, spiega Juncker, quando Ankara avrà rispettato tutti i requisiti. Più responsabilità collettiva dunque e un’Europa più sociale che incrementi l’occupazione e l’equità, sono le raccomandazioni di fondo. In questa direzione va anche l’incremento chiesto al fondo di investimenti europeo. Abbiamo chiesto un commento a Flavio Felice, ordinario di Storia delle dottrine politiche all’Università del Molise:

R. – Quando si parla di un’Europa più sociale, non significa un’Europa più assistenziale. Quando Juncker invita ad una mobilitazione per il sociale, non significa invitare gli Stati membri ad assumere maggior debito pubblico per finanziare l’assistenza. Significa probabilmente tornare alle radici, all’origine del progetto europeo, cioè di fare dell’Europa la più ampia area concorrenziale del mondo; di rompere tutti quei vincoli monopolistici – lacci e lacciuoli – che non consentono alla concorrenza di realizzare quel progetto di diffusione possibile della ricchezza mediante il dinamismo dei mercati.

D. – Quando Juncker invoca anche buon senso e intelligenza nell’applicazione del patto di stabilità va in questa direzione?

R. – Sì, c’entra. Infatti cosa afferma Juncker? Un uso intelligente della stabilità è la condizione perché si abbiano mercati ordinati, dinamici, il taglio delle tasse, il taglio della spesa pubblica e la revisione della spesa. In questo modo, i mercati vengono riordinati e possono diventare uno strumento di solidarietà senza cadere nell’assistenzialismo.

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Ucraina: i ribelli filorussi annunciano una tregua unilaterale

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Il leader filorusso dell’autoproclamata repubblica popolare di Donetsk, Alexander Zakharchenko, ha dichiarato a Rossia 24, che, dalla mezzanotte tra il 14 e il 15 settembre, sospenderanno ogni azione bellica contro i territori ucraini. Nel dare l’annuncio, il leader richiede a Kiev di accettare la tregua, sospendendo a sua volta ogni attacco. Nel caso, l’Ucraina non rispetti il cessate il fuoco, i soldati filorussi saranno autorizzati ad intervenire. Conseguentemente, anche il leader dall'autoproclamata repubblica popolare di Luhansk, ha dichiarato di unirsi alla tregua. Sulla possibilità di una distensione nel conflitto, Maria Carnevali ha intervistato il professore Aldo Ferrari, esperto di Storia della Russia e di geopolitica dello spazio post-sovietico: 

R. – In tutti questi mesi le scaramucce, gli scontri, sono stati abbastanza continui. Certo, una dichiarazione di questo genere – la doppia dichiarazione – implicherebbe che almeno da una parte ci sia la volontà di porre fine agli scontri. Bisogna vedere come risponderà la controparte ucraina.

D. – Com’è la situazione socio-politica di Kiev e com’è quella delle Repubbliche popolari autoproclamate?

R. – Le Repubbliche autoproclamate sono in una situazione politica, economica ed umana difficilissima, perché hanno subito durante la guerra violentissimi bombardamenti da parte ucraina e hanno subito una forte emigrazione e moltissimi si sono rifugiati sia in Ucraina sia in Russia. Al potere ci sono dei personaggi che si possono definire in maniera diversa, ma forse il termine che più corrisponde alla nostra mentalità è “avventurieri nazionalisti”. Si tratta di situazioni poi molto difficili, perché l’indipendenza di queste Repubbliche non è riconosciuta da nessuno: vivono in un limbo molto, molto precario. D’altra parte, anche l’Ucraina è in una situazione assai difficile, molto di più di quanto normalmente i media occidentali tendano a dire. La situazione economica è in netto peggioramento, perché questo Paese era prevalentemente integrato economicamente con la Russia e difficilmente potrà trovare una propria via differente. L’emigrazione continua. Le spese militari, seppure supportate dall’Occidente, incidono pesantemente. Insomma, anche Kiev si trova più che sull’orlo di una crisi. Si trovava già in una crisi non ancora apertamente dichiarata per il sostegno politico ed economico di cui ancora gode in Occidente. Quindi una situazione da una parte all’altra assai poco brillante.

D. – Quali sono le dinamiche politiche tra Russia ed Ucraina? La Russia ha interessi nel lasciare in una condizione di congelamento il conflitto?

R. – Purtroppo sì. La Russia ha interesse, perché questi conflitti congelati, nonché l’occupazione della Crimea, sono una sorta di spada di Damocle, che continua a tenere Mosca sull’Ucraina, in particolare impedendone l’ingresso nella Nato, perché nella Nato non possono entrare Paesi che abbiano problemi territoriali nel corpo interno e l’Ucraina ne ha diversi. Il problema, però, è che da anni l’Ucraina, che già è un Paese dilaniato al suo interno, eterogeneo per storia e composizione, è diventato una sorta di campo di battaglia tra le pressioni di Mosca e quelle dell’Occidente, e il Paese ne è lacerato. La soluzione del problema ucraino deve avvenire attraverso una concertazione equilibrata - che sinora non c’è stata - degli interessi di tutte le parti in causa.

D. – Quali potrebbero essere le basi per un accordo che funzioni?

R. – Le opinioni su questo punto sono molto diverse. Esistono già gli accordi di Minsk, che se venissero applicati porterebbero sicuramente seri passi in avanti, ma che non vengono applicati da nessuna delle due parti.

D. – Come sta lavorando l’Osce per una tregua che sia reale?

R. – La questione della tregua, se la prendiamo soltanto dal punto di vista tecnico, non è così complessa. Ma il problema è che le tregue non si rispettano se non c’è forte volontà politica da parte di tutti i contendenti - sia quelli direttamente coinvolti sul terreno che i loro sponsor - di arrivare ad un accordo più ampio. Per ora, l’accordo, è soltanto tra i separatisti e il governo di Kiev e in primo luogo tra Kiev e Mosca e ancora di più tra Mosca, Bruxelles e Washington. Il nodo è questo.

D. – Quali sono quindi i diversi interessi in gioco?

R. – La Russia desidera ricreare attorno a sé una unione economica e tendenzialmente anche politica di buona parte dei territori post sovietici. L’Occidente preferisce invece che i Paesi dell’Europa orientale entrino nell’Unione Europea con quei trattati di associazione, che alcuni hanno già firmato, che sono una sorta di rapporto privilegiato con l’Europa.

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Bangladesh: rogo in una fabbrica. Un missionario: manca la sicurezza

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36 morti, 50 feriti anche gravi, vari dispersi: questo è il bilancio attuale dell’incendio scoppiato nei giorni scorsi alla Tampako Foils di Tongi, una fabbrica di cosmetici a 20 chilometri da Dhaka, capitale del Bangladesh. Padre Giovanni Gargano, missionario saveriano a Tongi, dirige un “Centro per la vita”. Era lì la mattina di sabato scorso. Padre Marcello Storgato lo ha raggiunto telefonicamente: 

R. – In questa fabbrica di cosmetici c’è stato lo scoppio di un boiler verso le sei meno un quarto del mattino. La gente che viveva negli slum vicini ha sentito un grande boato e tutti quanti sono scappati via dalla paura. Allo scoppio sono morte 26, 27 persone, tra cui anche una che guidava un risciò con due passeggeri.

D. – E tu eri lì, dunque, quella mattina?

R. – Io ho raggiunto Tongi verso le 08.30 del mattino. A Tongi, con Maria Cristina Palumbo abbiamo aperto un Day Care Centre per i bambini della ferrovia. La ragazza che lavora nell’asilo dei bambini mi ha avvisato di questo disastro e io sono andato subito a vedere la situazione. Ho trovato sotto il nostro Centro tutte le mamme con i bambini, sotto shock e impauriti. Li abbiamo fatti salire su nel nostro Centro e li abbiamo accolti per due giorni.

D. – Attorno a quella fabbrica ci sono anche delle baracche, c’è uno slum dove vivono le famiglie…

R. – Sì, vicino alla fabbrica ci sono delle baracche. Lo slum non è stato colpito, non è andato in fiamme, grazie a Dio. E’ morto soltanto un bambino di otto anni, che al momento dello scoppio è uscito fuori ed è stato colpito alla testa da un oggetto in fiamme. Quindi il bambino è morto all’istante.

D. – Qui si diceva che è un’azienda di imballaggio tessile…

R. – No, no. E’ una fabbrica di cosmetici, dove facevano lo smalto per le unghie, il rossetto e altri prodotti cosmetici.

D. – Ma l’incendio è durato a lungo?

R. – L’incendio è durato a lungo. I vigili del fuoco, per due giorni sono stati lì a domare il fuoco. Il fumo nero era altissimo - una cosa incredibile – perché dentro c’era tutta roba chimica, e quindi non è stato facile spegnere il fuoco.

D. – C’erano le ambulanze? Sono state rapide nei soccorsi?

R. – Devo dire la verità, i soccorsi sono stati rapidissimi. Quando io sono arrivato c’erano già 25 unità di Vigili del fuoco a lavoro dal mattino presto e c’erano anche le ambulanze. Tutti pronti. Devo dire è stato un servizio veloce e anche fatto bene, considerando che siamo in Bangladesh. E poi adesso hanno preso in mano la situazione i militari e stanno scavando fra le macerie. Siamo arrivati a 33 morti, ma ce ne sono altri che sono rimasti sotto le macerie.

D. – Feriti quanti?

R. – Si parla di 50 feriti. Adesso il ministro della salute ha detto che darà un aiuto – mille o duemila euro - a quelli che sono stati colpiti e feriti.

D. – A ciascuna delle vittime?

R.- Alle persone che sono state colpite da questo disastro.

D. – Tu hai incontrato anche delle mamme…

R. – Sì, l’altro ieri, l’11, sono andato a vedere cos’era successo fino all’ingresso principale e ho incontrato una mamma con due bambine, che ha perso il marito in questa fabbrica, e ho incontrato un’altra mamma che stava cercando il corpo del figlio ed era disperata, non avendolo trovato. Una cosa straziante! Mi ha fatto veramente pena. Ancora c’è gente con la foto del fratello o del marito che aspetta.

D. – Quindi ci sono ancora vari dispersi?

R. – Sì, ci sono ancora vari dispersi.

D. – Ti risulta che i feriti siano in gravi condizioni o se la caveranno?

R. – Qualcuno ha perso una gamba, qualcuno un braccio e quindi resterà disabile per tutta la vita. 

D. – Hanno ustioni gravi?

R. – Ustioni gravi anche, sì.

D. – Una nuova grave tragedia in Bangladesh…

R. – Sì, una nuova grande tragedia. Una tragedia sulla tragedia. Queste sono le cose che ci fanno pensare.

D. – E la gente come…

R. – Prima di tutto preghiamo per le vittime. Seconda cosa, bisogna insistere, secondo me, sulla sicurezza delle fabbriche. E’ la cosa più importante. Qualcuno mi ha detto che i cancelli della fabbrica erano chiusi, che al momento dello scoppio la Security lì davanti è morta all’istante. Quindi se i cancelli erano chiusi, questa povera gente ha fatto la morte dei topi. Non posso dire niente di più. La cosa deve essere accertata.

D. – Tu lì a Tongi hai un Day Care Centre: che attività svolge, e per chi?

R. – Al momento il Day Care Centre accoglie i bambini degli slum della ferrovia e anche i bambini delle donne che lavorano nel tessile. Abbiamo lì una ragazza che porta avanti il Centro, una cuoca e un’aiutante. Al mattino i bambini vengono dalle 8.00 fino alle 17.00 del pomeriggio. Giocano, vanno a scuola, viene loro data la merenda e mangiano lì. Ci interessiamo anche alle loro cure mediche, se hanno bisogno, e facciamo degli incontri con le mamme. Quando abbiamo aperto, due anni fa, erano appena 13-14; adesso siamo arrivati a 25. Poi quando raggiungono l’età, li mandiamo a scuola, alla Primary.

D. – Il giorno dell’incendio, il 10 settembre, avete accolto mamme e bambini in questo vostro Centro…

R. – Sì, esatto. Le mamme sono venute lì e la notte le mamme con i loro bambini hanno dormito nel Centro. C’era anche la mamma di quel bambino che è morto al mattino, che piangeva in modo disperato per la perdita del figlio. Sono rimaste lì tutta la notte. Il problema poi è che hanno chiuso l’erogazione del gas e abbiamo provveduto a comprare un po’ di banane, un po’ di pane, un po’ di frittatine, in modo che potessero mangiare qualcosa a pranzo e a cena.

D. – Le TV locali sono venute a visitare queste mamme e questi bambini, a parlare con loro?

R. – L’11, quando siamo andati, abbiamo cercato di contattare due TV, alle quali abbiamo raccontato la situazione e abbiamo chiesto di venire al nostro Centro. Loro, però, hanno detto: “No, no, questa cosa non fa notizia”. Veniva il ministro della Cultura ed erano tutti impegnati con lui.

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Ifad: lo sviluppo rurale necessario per eliminare la povertà

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Entro il 2050 il mondo avrà bisogno del 60% di cibo in più. E’ una proiezione del Rapporto sulllo Sviluppo Rurale, presentato oggi a Roma dal Fondo Internazionale per lo Sviluppo Agricolo (Ifad). Nel testo si indica che tre quarti degli 800 milioni di persone che vivono in povertà nel mondo si trovano in aree rurali. Di qui quindi la convinzione dell’Ifad che sia necessaria una trasformazione dell’agricoltura nei Paesi in via di sviluppo. Francesca Sabatinelli: 

Se si vuole eliminare la povertà, i governi devono “puntare su politiche e investimenti mirati a trasformare le aree rurali dei Paesi in via di sviluppo”, e quindi creare posti di lavoro, perché “la crescita economica non è sufficiente a salvare quanti rischiano ogni giorno di morire di fame”.  Il Rapporto spiega che “la trasformazione rurale è parte integrante dello sviluppo economico di un paese” di qui la necessità, sempre secondo l’Ifad, di investire in industrie agroalimentare moderne. I redditi di 2,5 miliardi di persone nel mondo, si legge ancora, “dipendono direttamente da piccole aziende agricole che producono l'80% del cibo consumato in Asia e nell'Africa subsahariana”. Il Fondo ritiene in sostanza che i Paesi che hanno “diversificato la loro economia e potenziato il proprio settore agricolo”, hanno registrato un processo rapido di transizione verso l'eliminazione della povertà.

La mappa presentata dall’Ifad spiega che sono Bolivia, Colombia, Ecuador, Messico e Uruguay ad aver ridotto la disparità di reddito di chi vive nelle aree rurali; in Cina, India. Filippine e Vietnam, “riforma agraria, investimenti di base nelle aree rurali e altre politiche settoriali si sono rivelati fattori decisivi per promuovere la trasformazione rurale”. Mentre “la maggior parte dei Paesi africani continua a fare i conti con una popolazione giovanile in crescita, settori manifatturieri di dimensioni ridotte e in declino, e ostacoli allo sviluppo profondamente radicati”. Investire sullo sviluppo agricolo e rurale significa investire sull’economia nel suo complesso, ha detto il presidente dell’Ifad Kanayo F.Nwanze, ma ciò dipende dalle scelte dei governi, e in generale di chi si occupa di sviluppo, che “hanno un impatto enorme sulla vita delle persone e delle nazioni”.

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Nasce Esodi, mappa interattiva con le rotte migratorie

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Una mappa interattiva, in italiano e inglese, basata sulle testimonianze dei migranti dai paesi sub-sahariani e che disegna le rotte terresti principali dall’Africa occidentale e dal Corno d’Africa. Si chiama Esodi, ed è stata preparata dall’organizzazione Medici per i Diritti Umani che l’ha presentata ieri a Roma. Francesca Sabatinelli

Sono centinaia le voci di migranti che negli ultimi tre anni Medu ha raccolto grazie ai suoi operatori e volontari, in particolare in Sicilia, nei Centri accoglienza straordinaria di Ragusa e nel Cara di Mineo, oltre che a Roma, anche presso il Centro per la riabilitazione delle vittime di tortura. I loro racconti, le loro storie, sono divenuti una mappa interattiva, che prende in esame il contesto dei Paesi di partenza, di quelli di transito e anche dei luoghi di arrivo, come gli hotspot italiani. Attraverso poi le testimonianze, la mappa narra l’orrore, le violenze subite, i ricatti, ma anche la speranza che spinge le persone a partire. Di ogni luogo toccato dai migranti si dà ampia descrizione, come della città libica di Sabha, punto di arrivo della cosiddetta “via dell’inferno”, senza dimenticare di aggiornare il drammatico numero degli sbarchi e delle vittime nel Canale di Sicilia. Ibrahim è arrivato in Italia dal Niger sette anni fa, lavora come mediatore per Medu, ha ottenuto il permesso umanitario, ma non senza fatica:

R. - Nella prima audizione davanti alla commissione, a Crotone, mi sono trovato di fronte a un diniego, e questo perché loro la tua storia non la ascoltano, non la capiscono, perché noi siamo africani, e l’80% di noi è riservato sui problemi che ha vissuto: la vergogna, la cultura, non ti fanno parlare, dire ciò che uno vive dentro di sé. Ma grazie ai mediatori, piano piano, si fa amicizia e poi le persone riescono a raccontare ciò che hanno vissuto, e ti dicono se sono stati violentate, se sono state carcerate o vittime di ricatti.

D. - Queste persone oggi ti raccontano questo? Le loro storie sono queste?

R. - Sì, la maggior parte delle persone che intervistiamo, con le quali parliamo, raccontano le torture che hanno vissuto. Io ho visto con i miei propri occhi le cicatrici delle torture sui corpi delle persone, e pure io ho sulla mia testa sei centimetri della tortura che ho vissuto, adesso ho lasciato che i miei capelli lo nascondessero. Mi ricordo quando ero a Pozzallo, durante uno sbarco, una donna arrivata col gruppo mi ha chiesto di dove fossi, le ho risposto che non potevo dirglielo, lei ha insistito, alla fine le ho detto di arrivare dal Niger, a quel punto lei mi ha risposto: “Lì siete cattivi”. E lei aveva ragione, veniva dal Gambia, e ricordava quello che aveva vissuto in Niger, ecco perché pensava fossimo tutti cattivi. E a quel punto le ho detto: “E’ vero, so che siamo cattivi, perché per quello ho lasciato il mio Paese”. E poi lei, alla fine, su di me ha cambiato idea, e io l’ho ringraziata. La realtà è che abbiamo bisogno di un cambiamento, lì noi rischiamo la vita: il deserto, il mare, affrontiamo la morte, perché? Per il cambiamento, se noi fossimo stati bene saremmo rimasti nella nostra terra. Ma la maggior parte dei migranti arriva qua senza dire le tragedie che ha vissuto.

D. - Che succede alle donne?

R. - La maggior parte delle donne che ho incontrato sono state violentate, la maggior parte. Ma prima che una donna africana ti spieghi ciò che ha vissuto ci vuole molto tempo, se lei ha fiducia allora racconta tutto ciò che ha vissuto, ma ci vuole tempo o amicizia o fratellanza.

D. - Dopo tutto questo non si ha paura di affrontare il mare…

R. - No, io ho affrontato due volte la morte, ho attraversato il deserto e ho attraversato  il mare ma, seguendo la nostra ‘stupidaggine ‘ africana, noi diciamo che la morte in mare è più facile che nel deserto, dove uno soffre la sete, dove l’agonia dura, invece il mare è più rapido, cinque minuti e uno è andato via. Ma io sono vivo, e sono contento di essere vivo. Io non ho nemici, ma se li avessi non gli augurerei  l’esperienza che ho vissuto, davvero il mio passato non lo augurerei neanche al mio nemico.

Nove testimoni su dieci – raccontano gli operatori di Medu – hanno subito violenza intenzionale, tortura, trattamenti inumani e degradanti, nel Paese di origine così come nei Paesi di transito della rotta migratoria. Peppe Cannella è psichiatra e psicoterapeuta del team Medu in Sicilia:

R. - “Di solito chi è vittima di trauma ha attraversato l’inferno della partenza da un Paese ingiusto – Sub-Sahara, Corno d’Africa – ha attraversato l’inferno delle rotte del deserto, l’inferno libico dei maltrattamenti, delle crudeltà, della tortura; l’inferno del mare, nero, del Canale di Sicilia, in cui in tanti ancora perdono la vita, chi arriva vivo e sopravvive non è più lui! Ha perso il dono della speranza per il dopo. E’ una esistenza che è bloccata, mancata. Ciò che vedi, nella relazione terapeutica, è questa vita spenta, questa energia che non c’è più. E quindi inneschi un ripartire. Le ferite invisibili della mente non si toccano, non si vedono, ma si sentono. C’è la grande omissione. Una nuova generazione di migranti africani, che sopravvive e arriva viva, ha bisogno di cure, pratiche, materiali, ma molto anche immateriali: il prendersi cura, lo stare con l’altro. C’è bisogno di interventi dal basso, ma anche di interventi sanitari e piscologici. Chi è vittima di trauma ha disturbi psicologici importanti e tantissime persone in Italia sono bisognose di queste cure psicologiche e mediche per il trauma subito. Stiamo scoprendo che c’è tanto da fare! Tra il dire e il fare non c’è di mezzo il mare, ma l’iniziare, e vorrei che domani si iniziasse ad intervenire”.

“Quando Shiva disegna il mare lo colora sempre nero”: Shiva è una ragazzina di 10 anni che viene dalla Liberia, sopravvissuta ad un naufragio, e per la quale il Mediterraneo “rappresenta solo morte e dolore”. E’ una delle tante storie di cui è testimone Medu che indirizza “Esodi” a chiunque voglia “comprendere e approfondire la vicenda umana che più sta segnando il nostro tempo”. Alberto Barbieri è il coordinatore di Medici per i Diritti Umani:

R. – Vogliamo che la mappa sia una mappa viva, dinamica, che nel tempo si arricchisca delle testimonianze che noi acquisiamo. L’idea è di aggiornarla continuamente, perché alcune cose rimangono uguali, ma altre cose cambiano, anche drammaticamente e anche molto rapidamente. Il nostro obiettivo, la nostra ambizione, è di riuscire a raccontare come cambiano le rotte, come cambiano questi esodi in tempo reale. L’altra grande sfida è quella di raggiungere un pubblico ampio, poter cioè presentare una mappa che sia compresa – per esempio – nelle scuole, che sia compresa da un pubblico che non si occupa specificatamente di questo e che visivamente si renda conto di quello che succede. Molti dati sono nostri, ovviamente, sono dati acquisiti da noi. Poi, però, abbiamo cercato di dare un contesto anche più globale, per esempio abbiamo cercato di descrivere che cosa succede in ognuno dei Paesi da cui queste persone vengono e abbiamo utilizzato i rapporti di Amnesty per descriverne il contesto, che è una fonte molto autorevole. Abbiamo voluto pubblicare anche dei dati del Ministero dell’Interno o di altri ricercatori - come quelli di “Fortress Europe” - per dare l’idea del fenomeno nel tempo a livello più globale, e quindi che cosa è successo con gli sbarchi negli ultimi 15 anni; che cosa è successo con le persone che sono morte in mare negli ultimi 15 anni. Si comprende che in 15 anni, in Italia, sono sbarcate 720 mila persone.

D. – Si parla delle ricadute fisiche, delle ricadute psicologiche e delle patologie che queste persone sviluppano. Però fate anche un’ analisi politica, come quella sui dinieghi ad esempio?

R. – Sì. La mappa cerca di descrivere i dati con la massima obiettività. Ovviamente abbiamo fatto anche delle considerazioni, come – appunto – il problema dei dinieghi: qual è lo stato di salute del diritto di asilo in Europa? E’ vigente, come era stato concepito, oppure implicitamente lo si sta, in qualche modo accantonando, perché si ritiene di non essere più in grado di gestire questo fenomeno? L’altra questione su cui noi vogliamo sollevare l’attenzione è la questione delle vittime della violenza. Queste sono persone, migranti, che hanno subito molteplici traumi, non solo un trauma, ma molteplici: le violenze, l’attraversamento del deserto, l’attraversamento del mare… Arrivano qui profondamente segnati. Tantissimi hanno una capacità di resistenza e di risposta importante, ma tanti accusano questa sofferenza, sia nel fisico, sia nel disagio psichico, sia nei disturbi mentali, che possono essere – per esempio – il disturbo da stress post-traumatico. Vogliamo sollevare l’attenzione su questo non per dire “Ah, questi sono tutti matti!”: non sono matti! Sono persone che hanno sofferto delle esperienze limite, che noi non riusciamo neanche a comprendere, né emotivamente, né cognitivamente, perché per noi sono cose impensabili, e a cui bisogna dare delle risposte adeguate a livello di medici, a livello di psicologi, ma anche a livello sociale e culturale. Questo è un tema che, secondo noi, va affrontato.

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Da domani a Genova il Congresso eucaristico nazionale

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Si apre domani a Genova il 26.mo Congresso eucaristico nazionale. “Nella tua Misericordia a tutti sei venuto incontro” il tema scelto. Fino a domenica, delegazioni provenienti da tutte le diocesi vivranno insieme intensi momenti di riflessione e gesti di carità. A celebrare la Messa di apertura e quella conclusiva del Congresso, l’arcivescovo di Genova e presidente della Cei, card. Angelo Bagnasco, in qualità di inviato speciale di Papa Francesco. Ma qual è il significato di questo evento nella vita della Chiesa? Adriana Masotti lo ha chiesto a mons. Marco Doldi, vicario generale della diocesi ligure: 

R. – Un Congresso eucaristico è fondamentalmente una manifestazione di popolo, che vede riuniti vescovi, sacerdoti, religiosi, diaconi, fedeli laici. Centrale naturalmente è la preghiera, la catechesi, ma anche la carità, che è un po’ una novità di questo XXVI Congresso eucaristico nazionale.

D. – E' un momento per andare al cuore della Chiesa, che è l’Eucaristia…

R. – Al cuore della Chiesa, perché la Chiesa nasce proprio dall’Eucaristia, viene convocata nell’Eucaristia, si ritrova nell’Eucaristia; e all’interno di questo cuore vive proprio la comunione fraterna tra tutti i suoi membri. Quindi fondamentalmente è un' esperienza di Chiesa.

D. – Siamo nell’Anno del Giubileo della Misericordia e il tema non poteva che essere questo: “Nella tua Misericordia a tutti sei venuto incontro”…

R. – Sì, a dire il vero inizialmente i vescovi italiani avevano scelto il titolo: “L'Eucaristia sorgente della missione”. Poi, quando abbiamo avuto la lieta notizia del Giubileo Straordinario, si è pensato di aggiungere la seconda parte: “Nella tua Misericordia a tutti sei venuto incontro”. Così abbiamo avuto la sorpresa – per così dire – di trovare evidenziate le tre parole centrali: la parola “Misericordia”, la parola “Eucaristia” e la parola “missione”.

D. – Non solo celebrazioni, preghiera, riflessioni spirituali, ma anche opere: di tutto questo si compone il Congresso. Questo in particolare…

R. – Sì, proprio il venerdì abbiamo pensato di dedicare la giornata alla misericordia. Sarà caratterizzata dalla composizione di 46 delegazioni, le quali riceveranno, al termine della messa del mattino, il mandato per andare a compiere opere di misericordia là dove quotidianamente si compiono: dalle opere di misericordia corporali a quelle spirituali. Quindi abbiamo, ad esempio, organizzato dei servizi nelle mense o nelle carceri, ma anche nei conventi di clausura o nei consultori dove si consigliano le persone, e così via.

D. – Genova è una città di mare, e ci sarà anche un riferimento al mare e a quello che succede in questi nostri tempi…

R. – Genova è davvero il suo porto. E allora il mare sarà un po’ il protagonista della giornata di sabato. Un’imbarcazione messa a disposizione dalla Marina Militare, che ha partecipato ai salvataggi di Lampedusa, recherà in processione il Santissimo Sacramento, e poi sosterà nello specchio di mare del porto antico da dove tutti i fedeli potranno partecipare alla preghiera.

D. – Recentemente c’è stato il terremoto in Italia, e si è deciso proprio di approfittare, o meglio, di far coincidere la data del Congresso con una colletta che si terrà in tutte le chiese italiane…

R. – Sì, è vero: i vescovi italiani hanno deciso che la domenica del Congresso eucaristico sia anche la domenica della carità per i terremotati. A Genova saranno predisposte sei cassette agli ingressi e alle uscite di piazzale Kennedy e l’arcivescovo inviterà a fare un gesto di carità a favore delle zone colpite.

D. –  Sarà appunto l’arcivescovo, il cardinale Bagnasco, a celebrare la Messa conclusiva in piazzale Kennedy…

R. – Sì, a dire il vero l’arcivescovo comincerà il Congresso eucaristico, lo seguirà nei suoi diversi momenti e poi lo concluderà con la Santa Messa di domenica. E lo farà nella veste di inviato speciale del Santo Padre.

D. – Quindi la presenza del Papa, anche se non fisica, si sentirà…

R. – Sì, certamente, la sentiremo doppiamente: attraverso la persona del nostro arcivescovo, ma anche collegandoci, al termine della celebrazione di domenica mattina, con Piazza San Pietro da dove ascolteremo le parole dell’Angelus.

D. – E sicuramente il Papa vi saluterà…

R. – Lo speriamo davvero, sì!

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Nella Chiesa e nel mondo



Appello Chiesa di Seoul alle due Coree e Usa: basta armi nucleari

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Un appello a Pyongyang, affinché abbandoni lo sviluppo dell’arsenale atomico, ma anche a Seoul, Washington e alle “altre potenze della regione. Smettetela di usare i test nucleari della Corea del Nord per disseminare l’Asia di bombe. La pace si costruisce con il dialogo e la pazienza, non con un’escalation di tensione e di sanzioni”. È quanto scrive la Commissione episcopale sudcoreana Giustizia e pace in un comunicato intitolato “Appello per la pace”, ripreso dall'agenzia AsiaNews.

Non si può separare la pace dal non avere armi nucleari
Il presidente della Commissione, mons. Lazzaro You Heung-sik, firma il testo che si snoda in tre punti. Dopo aver ricordato la “Pacem in Terris” di Giovanni XXIII, il presule si rivolge a Pyongyang: “Abbandonate lo sviluppo delle armi atomiche. L’esperienza nucleare della Corea del Nord è contraria allo sforzo comune per la pace della Corea e per il disarmo atomico della penisola. Non si può separare la pace dal non avere armi nucleari. Le armi nucleari non possono mai essere sviluppate per ‘la protezione della pace’ o ‘la sicurezza del proprio Paese’. Le armi nucleari provocano soltanto dispute, e portano un grande pericolo spirituale e corporale di distruzione e morte”.

Non inasprire le sanzioni contro il regime di Pyongyang
Il secondo punto è dedicato a Seoul: “Continuando a inasprire le sanzioni contro il regime del Nord, non farete altro che aumentare la tensione. Lo scopo vero di ogni sanzione dovrebbe essere quello di aprire la porta al dialogo e al negoziato. Non è giusto che attraverso le sanzioni debbano soffrire i popoli, e in modo particolare i più deboli. Colpire l’economia è una misura che dovrebbe essere applicata con prudenza, seguendo sempre un criterio di legittimità e di morale. Ricordate che appesantire le sanzioni aumenterà soltanto il pericolo di uno scontro diretto. Non abbandonate il dialogo!”.

I testi nucleari nord-coreani non sia pretesto per nuclearizzare i Paese dell’Asia
Il terzo e ultimo punto tocca invece “le nazioni che circondano la penisola. I test nucleari nordcoreani non devono diventare il pretesto per mettere bombe nucleari in ogni Paese dell’Asia. Noi auspichiamo il disarmo della penisola, così come quello del continente. Speriamo per questo che vogliate davvero aiutare la pace fra le due Coree, affinché questa pace possa diventare il seme per la vera pace nel mondo. Solo l’equilibrio della pace, non l’equilibrio del potere, può risolvere la tensione della Corea e la minaccia della pace del mondo”.

Mons. You ricorda il 15.mo anniversario della strage delle Torri Gemelle
“Speriamo e preghiamo che l’uomo non dimentichi mai che i frutti dell’odio e della violenza stanno ancora fiorendo nel mondo. L’odio crea odio più grande, la violenza crea violenza più grande. La pace non viene attraverso la logica del potente (cfr. Gaudium et Spes, 78). La pace è completa quando i disaccordi e la miseria, che portano la guerra, diminuiscono e quando il desiderio per l’ordine e per la pace cresce in tutti gli uomini”. (R.P.)

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Vescovi del Gabon: appello del Papa accolto con gioia nel Paese

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“L’appello del Santo Padre per il Gabon è stato accolto con grande gioia dalla popolazione” dice all’agenzia Fides mons. Euzébius Chinekezy Ogbonna Managwu, vescovo di Port Gentil, a Roma per il Seminario di Studio per i vescovi di recente nomina nei territori di missione promosso dalla Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli.

Popolo del Gabon: il Papa non ci ha fatto sentire abbandonati 
“Ho ricevuto diverse chiamate dal Gabon di persone entusiaste per l’intervento di Papa Francesco. Dicono “il Papa prega per noi, non ci sentiamo abbandonati”. È un forte incoraggiamento per tutti noi a continuare a pregare per il nostro Paese e per non perdere la speranza in un futuro migliore” dichiara il vescovo. Dopo l’Angelus di domenica scorsa, Papa Francesco aveva affermato: “Cari fratelli e sorelle, vorrei invitare ad una speciale preghiera per il Gabon, che sta attraversando un momento di grave crisi politica. Affido al Signore le vittime degli scontri e i loro familiari. Mi associo ai vescovi di quel caro Paese africano per invitare le parti a rifiutare ogni violenza e ad avere sempre come obiettivo il bene comune. Incoraggio tutti, in particolare i cattolici, ad essere costruttori di pace nel rispetto della legalità, nel dialogo e nella fraternità”.

Nuovo appello dei vescovi alla calma e alla preghiera
I vescovi dopo il messaggio del 2 settembre a firma di mons. Basile Mve Engone, arcivescovo di Libreville, il 10 settembre hanno lanciato un nuovo appello alla calma e alla preghiera, ma allo stesso tempo chiedono a tutti i responsabili politici di “fare di tutto perché la verità uscita dalle urne, e obiettivamente verificabile, sia rispettato da tutti. Si eviterà così lo scatenarsi della violenza con perdite di vite umane e distruzioni di beni pubblici e privati. Senza questo rispetto, a cosa serve organizzare delle elezioni e parteciparvi?”. 

Nel Paese è tornata la calma
“Al momento la situazione è calma ma si vive nella tensione in attesa della decisione della Corte Costituzionale sulla conferma o meno della vittoria del Presidente uscente Ali Bongo Ondimba sullo sfidante Jean Ping nelle elezioni del 27 agosto” dice a Fides mons. Managwu. A livello economico il Gabon, uno dei maggiori produttori di petrolio africani, soffre le conseguenze del forte calo del prezzo del greggio.

Buona parte della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà
“La mia diocesi, Port Gentil è la capitale economica del Paese” dice mons. Managwu. “Eppure buona parte della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà. Lo Stato sta effettuando tagli nell’amministrazione pubblica a causa della riduzione delle entrate petrolifere. Io dico ai giovani: tornate alla terra, almeno avremo da mangiare. Infatti il Gabon ha tanta terra fertile abbandonata perché si è preferito importare le derrate alimentari, quando il prezzo del petrolio era alto. Ora invece dobbiamo imparare a diventare autosufficienti nella produzione di cibo” conclude il vescovo. (L.M.)

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Accordo di cooperazione ospedali Bambino Gesù e S. Famiglia di Betlemme

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L’Ospedale pediatrico Bambino Gesù della Santa Sede e l’Ospedale della Sacra Famiglia del Sovrano Ordine di Malta a Betlemme, hanno firmato stamani a Roma un accordo di cooperazione nell’ambito della formazione medica. In base all’accordo, l’Ospedale pediatrico fornirà sostegno professionale al personale dell’Ospedale della Sacra Famiglia, ospedale di riferimento per la maternità situato in Palestina, dove ogni anno nascono più di 3.500 bambini. Con questa intesa medici e infermieri dell’Ospedale di Betlemme parteciperanno a corsi di formazione nell’ambito di missioni organizzate a Betlemme dal Bambino Gesù.

L'Accordo privilegia il campo della neonatologia
L’accordo, che ha una durata di due anni al termine dei quali potrà essere rinnovato, si svilupperà in particolar modo nel campo della neonatologia.  L’Ospedale della Sacra Famiglia, che dal 1990 è gestito dall’Ordine di Malta, dispone infatti di una unità neonatale intensiva con 18 incubatrici per assistere bimbi prematuri o nati con gravi patologie.

L'Accordo migliorerà il livello professionale di medici e infermieri a Betlemme
“Siamo molto felici di questo importante accordo” ha detto il Grande Ospedaliere, Dominique de La Rochefoucauld-Montbel. “L’eccellenza medica dell’Ospedale pediatrico Bambino Gesù, rinomata in tutto il mondo, non potrà che accrescere la reputazione professionale dei nostri medici e infermieri che assistono migliaia di donne in Terrasanta, oggi martoriata e senza pace”.

L'Ospedale Bambino Gesù aperto al mondo
“È un onore per noi poter collaborare con l’Ospedale della Sacra Famiglia e mettere a disposizione le nostre competenze a vantaggio dei bambini e delle famiglie di Betlemme e della Terrasanta”. Lo ha affermato la presidente del Bambino Gesù Mariella Enoc. “Il nostro Ospedale è sempre più aperto al mondo, non solo per la crescente disponibilità ad accogliere e curare bambini provenienti dai diversi continenti, ma soprattutto per la volontà di sviluppare progetti di collaborazione specifici basati sulla formazione dei medici locali, come la recente iniziativa a Bangui, nella Repubblica Centrafricana, e come questo importantissimo accordo con l’Ospedale di Betlemme dell’Ordine di Malta”. (R.P.)

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Terra Santa. Il primate d'Irlanda: la pace è possibile

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“La risoluzione e la riconciliazione sono possibili” e “la violenza e il conflitto possono essere superati e sostituiti da pace e sicurezza”. Lo ha detto al sindaco di Betlemme, Vera Baboun, l’arcivescovo di Armagh e primate di tutta l’Irlanda Eamon Martin,  che sta guidando un pellegrinaggio di solidarietà di otto giorni in Terra Santa. All’iniziativa - riporta l'agenzia Sir - partecipano 177 fedeli irlandesi, con l’obiettivo di  “esprimere solidarietà ai cristiani di questa terra, discendenti di coloro che per primi udirono la gioia del Vangelo nel canto degli angeli”.

Portare la speranza a tutti i cristiani della regione
“Mentre camminiamo in questi giorni tra gli scavi di antiche fondamenta da Nazaret a Gerico e Gerusalemme – afferma mons. Martin, citato dall’agenzia Sir - siamo consapevoli che i cristiani in questa regione sono le ‘pietre vive’ che hanno fedelmente testimoniato Cristo trasmettendo il Vangelo per più di venti secoli”. Con riferimento alle lotte sperimentate dalle comunità locali “stanche del conflitto, della violenza e dell’ingiustizia”, l’arcivescovo di Armagh assicura di conoscere, “attraverso le nostre esperienze in Irlanda, la frustrazione causata da un ciclo di conflitti apparentemente senza fine e la tentazione sempre presente della disperazione” e aggiunge: “Vogliamo portare la speranza”.

Pace e sicurezza possono vincere su violenze e conflitti
Esercito nelle strade, posti di blocco, muri di sicurezza, bombe e sparatorie, “settarismo, odio e fanatismo che possono trasformare i vicini in nemici e in sospetti, la cultura e persino la religione in differenza e divisione” sono esperienze comuni. Tuttavia, assicura il Primate d’Irlanda, “sappiamo anche che la risoluzione e la riconciliazione sono possibili e che la violenza e il conflitto possono essere superati e sostituiti da pace e sicurezza”. Per questo occorre” non sottovalutare il potere trasformante della leadership coraggiosa, sostenuta dalla cooperazione e solidarietà internazionale”.

Preghiera e solidarietà
“Noi non veniamo a offrire soluzioni semplicistiche a un conflitto complesso – conclude mons. Martin - “ma veniamo con le uniche cose che abbiamo: la preghiera e la solidarietà” intensificando “la nostra richiesta di comprensione reciproca e di una pace giusta e duratura per questa terra che ha conosciuto troppo conflitto, troppo dolore e troppa divisione”. (I.P.)

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Iraq. Appello Patriarca Sako: aiutateci a sminare la Piana di Ninive

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In questi giorni i media evocano “i preparativi per la battaglia di Mosul” e ancora una volta, si comincia a prefigurare la necessità di avviare un “grande progetto umanitario” per far rinascere la città e l'intera regione, dopo l'annunciata sconfitta dei jihadisti del sedicente Stato Islamico. Ma “prima di tornare a far rivivere le nostre amate città della Piana di Ninive”, occorrerà superare ancora l 'ostacolo rappresentato da un nemico feroce, nascosto sotto il terreno e talvolta anche in oggetti di uso quotidiano. “Perchè i jihadisti del Daesh, anche quando si ritirano, continuano a seminare morte con le mine e gli ordigni esplosivi” che disseminano nei campi e nelle città prima di fuggire. E' questo l'allarme lanciato dal Patriarca caldeo Louis Raphael I Sako in un appello diffuso ieri. La possibile rinascita civile delle aree sottratte ai jihadisti – si legge nell'appello, ripreso dall'agenzia Fides - inizia dallo sminamento.

Organizzazione francese pronta a farsi carico dello sminamento
Il Primate della Chiesa caldea confida di aver chiesto già a luglio a Fraternitè en Irak – organizzazione francese impegnata nel sostegno alle minoranze religiose irachene – di farsi carico dello sminamento dei primi due villaggi della Piana di Ninive che erano stati liberati. La stessa organizzazione si è già impegnata per l'opera di bonifica di altri quatto villaggi, che prima di cadere in mano al sedicente Califfato erano abitati in maggioranza da cristiani e curdi kakai (comunità religiosa che pratica un culto sincretistico). 

La bonifica è necessaria per rientrare nelle proprie case
Solo uno sminamento realizzato da esperti e società competenti potrà davvero porre fine all'esilio dei rifugiati che vogliono tornare alle proprie case. “E' più piacevole costruire scuole o cliniche” riconosce il Patriarca, “ma nulla potrà essere ricostruito, se prima non viene realizzata la bonifica”. (G.V.)

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Kazakistan: Nazarbayev crea il Ministero per gli affari religiosi

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Il Presidente kazako Nursultan Nazarbayev ha firmato nei giorni scorsi il decreto che dispone l'istituzione di un Ministero per gli affari religiosi e civili. Il testo del decreto, pubblicato sul website della Presidenza kazaka, chiarisce che il nuovo dicastero avrà anche il compito di curare le relazioni con le comunità religiose e garantire i diritti dei cittadini alla libertà di coscienza.

Al neo Ministero anche iniziative rivolte ai giovani
Al nuovo organismo saranno affidate anche le competenze in precedenza esercitate dai Ministeri della cultura e dello sport, e la gestione di iniziative specifiche rivolte al mondo giovanile, prima affidate al Ministero dell'Istruzione e della Scienza. A capo del nuovo Ministero è stato posto l'ex Consigliere presidenziale Nurlan Yermekbayev.

I cattolici sono l'1,15% della popolazione kazaka
La popolazione kazaka (17 milioni e mezzo di abitanti) è costituita per il 70% da musulmani, per il 25% da cristiani (in larghissima parte russi ortodossi, con i cattolici pari all'1,15%) e per il 5% da buddisti. (G.V.) 

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Vescovi Argentina agli insegnanti: coltivate amore per la verità

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Coltivare l’amore per la verità: questo, in sintesi, l’incoraggiamenti rivolto da numerosi vescovi argentini ai docenti del Paese, in occasione della “Giornata degli insegnanti”, celebrata l’11 settembre, ed in vista del “Giubileo degli educatori” che verrà celebrato domani. “Dio ha messo nelle vostre mani un grande compito – ha detto, in particolare – mons. Carlos José Tissera, vescovo di Quilmes, nel suo  messaggio ai docenti – Il vostro è un servizio prezioso”. Di qui, l’invito a “coltivare l’amore per la verità, da trasmettere con uno stile semplice e di prossimità”, perché “il significato della parola autorità è quello di far crescere”.

Insegnare secondo i principi della misericordia
Sulla stessa linea anche il vescovo di Catamarca, mons. Luis Urbanc che ha esortato i docenti a “porre le azioni quotidiane in chiave di misericordia”. Le prime tre opere di misericordia spirituale, infatti – ha evidenziato il presule – ovvero consigliare i dubbiosi, insegnare agli ignoranti ed ammonire i peccatori, “rappresentano quasi un progetto didattico per ogni insegnante”. È stato dedicato, invece, alla collaborazione tra scuola e famiglia il messaggio diffuso da mons. Vicente Bokalic, vescovo di Santiago del Estero: “Una comunità educativa è una piccola Chiesa, più grande della famiglia e più piccola di una Chiesa diocesana – ha detto - In essa si vive e si convive, si cammina come pellegrini, figli e fratelli”.

Rafforzare la collaborazione tra scuola e famiglia
Lanciando, poi, l’allarme sulla scarsa partecipazione delle famiglie alla vita scolastica, il presule ha ricordato che “i primi responsabili dell’educazione dei bambini sono i genitori”. Si tratta di un onere importante, ma anche di un “diritto primario, essenziale ed insostituibile” che nessuno può togliere loro. In questo senso, “la scuola non si sostituisce ai genitori, ma ne è un complemento”. Di qui, il richiamo di mons. Bokalic a “recuperare, restaurare, ricostruire una nuova collaborazione tra scuola e famiglia”, anche attraverso “un dialogo aperto, fiducioso, maturo tra docenti e genitori”, così da “gettare le basi per una solida formazione dei giovani e per la loro integrazione nella società”.

Gesù, il Maestro per eccellenza
​Infine, mons. Jorge Lozano, arcivescovo coadiutore di San Juan de Cuyo, ha esortato gli insegnanti ad imitare un modello per eccellenza: “Per educare – ha detto - bisogna guardare all’altro come faceva Gesù, ossia puntando alle possibilità racchiuse in ogni cuore ed alla creatività”. “Gesù infatti – ha aggiunto mons. Lozano – è molto creativo: parla con la samaritana, mangia con i peccatori, compie i miracoli il sabato. Insomma: rompe gli schemi”. Di qui, l’invito a tutti i docenti ad esercitare la creatività, a puntare su “nuovi progetti, nuove strategie educative”, sempre lasciandosi “ispirare ed incoraggiare dallo Spirito Santo”.  (I.P.)

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Assemblea delle Comunità Ecclesiali di Base dell’America Latina

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“Continuando a camminare proclamando il Regno” è lo slogan che accompagna l’Assemblea che le Comunità Ecclesiali di Base (Ceb) dell’America Latina tengono fino a sabato 17 settembre a Luque, in Paraguay. Si tratta di un’assemblea importante – spiega l’agenzia Sir - poiché verranno ricordati i 50 anni di presenza delle Ceb in America Latina e, al tempo stesso, si getteranno le basi per una rifondazione e una ridefinizione degli obiettivi di tali realtà, in riferimento ai nuovi segni dei tempi.

Celebrazioni per il 50.mo anniversario e prospettive per il futuro
I lavori si svolgeranno secondo diverse sessioni che avranno, di volta in volta, un approccio biblico, teologico e sociologico. L’assemblea viene attuata in stretto rapporto con il Celam, il Consiglio degli episcopati dell’America Latina, rappresentato in questa occasione da mons. Sergio Gualberti, arcivescovo di Santa Cruz de la Sierra, in Bolivia. Non mancherà, all’interno di questo sguardo insieme celebrativo ed aperto al futuro, uno scambio di esperienza sull’attuale realtà delle Comunità di base, nella consapevolezza che la loro presenza segna profondamente la vita delle Chiese del continente. (I.P.)

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Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LX no. 258

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Segreteria di redazione: Gloria Fontana, Mara Gentili, Anna Poce e Beatrice Filibeck, con la collaborazione di Barbara Innocenti e Serena Marini.