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Sommario del 19/10/2016

Il Papa e la Santa Sede

Oggi in Primo Piano

Il Papa e la Santa Sede



Papa: non la povertà in astratto ma il povero ci interpella

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Di fronte a “modelli di vita effimeri”, la povertà nella “carne” di un uomo, di una donna, di un bambino, “ci interpella”, ci provoca e ci coinvolge direttamente, spingendoci a “dare da mangiare agli affamati” e “da bere agli assetati”. Così il Papa all’udienza generale in Piazza San Pietro, esortando a scoprire il “volto di misericordia” di Cristo. Il servizio di Giada Aquilino

Nella società “del cosiddetto benessere”, in cui le persone sono portate a “chiudersi”, ad essere “insensibili alle esigenze degli altri”, spinte da “modelli di vita effimeri” che scompaiono dopo qualche anno, come una “moda”, risuona forte il richiamo a dare da mangiare agli affamati e da bere agli assetati, perché in fondo oggi “ce ne sono tanti”. Ad un mese dalla conclusione del Giubileo della Misericordia, questa è la riflessione di Papa Francesco, che all’udienza generale ricorda le “popolazioni che soffrono la mancanza di cibo e di acqua, con gravi conseguenze specialmente per i bambini”, di cui sempre più spesso i media ci ripropongono le immagini:

“La povertà in astratto non ci interpella, ma ci fa pensare, ci fa lamentare; ma quando vediamo la povertà nella carne di un uomo, di una donna, di un bambino, questo sì che ci interpella!".

Il Pontefice ricorda le “campagne di aiuto per stimolare la solidarietà” e le donazioni che servono a “contribuire ad alleviare la sofferenza di tanti”: è una forma di carità “importante”, ma - dice - forse “non ci coinvolge direttamente”. Invece è per strada o anche alla porta di casa nostra che possiamo incrociare chi ha bisogno, perché “veniamo coinvolti in prima persona”:

“E perciò, quell’abitudine che noi abbiamo di sfuggire ai bisognosi, di non avvicinarci a loro, truccando un po’ la realtà dei bisognosi con le abitudini alla moda per allontanarci da essa. Non c’è più alcuna distanza tra me e il povero quando lo incrocio”.

Siamo portati allora a girare lo sguardo e passare oltre o – si domanda il Papa – a fermarci e parlare con queste persone, nonostante qualcuno possa dire:

“Questo è pazzo a parlare con un povero!".

L’esperienza della fame, costata il Pontefice, “è dura”:

“Ne sa qualcosa chi ha vissuto periodi di guerra o di carestia. Eppure questa esperienza si ripete ogni giorno e convive accanto all’abbondanza e allo spreco”.

Chi è “in necessità”, riflette, chiede “solo il necessario: qualcosa da mangiare e da bere”. Ricorda le parole dell’apostolo Giacomo e spiega che anche la fede, se non è seguita dalle opere, “in sé stessa è morta”, è incapace “di fare carità, di fare amore”:

“C’è sempre qualcuno che ha fame e sete e ha bisogno di me. Non posso delegare nessun altro. Questo povero ha bisogno di me, del mio aiuto, della mia parola, del mio impegno. Siamo tutti coinvolti in questo”.

Gesù, prosegue il Papa, ci assicura che “il poco che abbiamo”, se lo affidiamo alle sue mani e lo “condividiamo con fede”, diventa una “ricchezza sovrabbondante”. Cristo ci dice: “Io sono il pane della vita”, “Chi ha sete venga a me”:

“Sono per tutti noi credenti una provocazione queste parole, una provocazione a riconoscere che, attraverso il dare da mangiare agli affamati e il dare da bere agli assetati, passa il nostro rapporto con Dio, un Dio che ha rivelato in Gesù il suo volto di misericordia”.

Quindi, nei saluti finali, rivolgendosi ai pellegrini slovacchi, Francesco ricorda che domenica prossima si celebra la Giornata Missionaria Mondiale, “occasione preziosa per riflettere sull’urgenza dell’impegno missionario della Chiesa e di ciascun cristiano”:

“Anche noi siamo chiamati ad evangelizzare nell’ambiente in cui viviamo e lavoriamo”.

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Il Papa ricorda Popiełuszko, martire sotto il regime comunista polacco

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Al termine dell’udienza generale, il Papa salutando i pellegrini polacchi presenti in Piazza San Pietro ha ricordato che oggi la liturgia commemora il beato martire Don Jerzy Popiełuszko. Il sacerdote polacco fu ucciso dal regime comunista del suo Paese nel 1984. Queste le parole di Papa Francesco

“Egli si espose in prima persona a favore degli operai e delle loro famiglie, chiedendo giustizia e degne condizioni di vita, la libertà civile e religiosa della Patria. Le parole di san Paolo: 'Non lasciarti vincere dal male, ma vinci il male con il bene' (Rm 12,21) sono state il motto della sua pastorale. Tali parole siano oggi anche per voi, per tutte le famiglie e il popolo polacco una sfida per costruire il giusto ordine sociale nella quotidianità alla ricerca del bene evangelico”.

Don Jerzy Popiełuszko nasce il 14 settembre 1947 a Okopy, nella provincia di Bialystok. Ordinato sacerdote dal cardinale Wyszynsky il 28 maggio 1972 a Varsavia, viene destinato alla parrocchia di S. Stanislao Kostka: oltre al lavoro parrocchiale, svolge il suo ministero tra gli operai, organizzando conferenze e incontri di preghiera. Il 19 ottobre 1984 viene rapito da tre funzionari del Ministero dell’Interno e barbaramente assassinato. La sua tomba, che si trova accanto alla Chiesa di S. Stanislao Kostka, è meta continua di pellegrinaggi. Il cardinale Angelo Amato, prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi, presiede il 6 giugno 2010 la Messa di Beatificazione a Varsavia. In una intervista alla Radio Vaticana afferma:

“Vorrei insistere sul messaggio universale del Servo di Dio Jerzy Popiełuszko, che è quello della fraternità tra gli uomini; del rispetto della dignità di ogni persona umana, anche piccola, indifesa, inerme; della libertà di coscienza, che nessun regime e nessuna ideologia deve violare. L’esperienza tragica del secolo scorso insegna: i regimi e le ideologie passano come tempeste violente, lasciando macerie fisiche e spirituali, mentre la fede cristiana, radicata sul Vangelo, rimane e porta gioia, pace e concordia. Visitando più volte il museo dei suoi ricordi, mi ha commosso fino alle lacrime la foto del suo volto sfigurato e insanguinato. Era il volto di Gesù crocifisso, senza più forma né decoro. I suoi carnefici non solo l’hanno ucciso ma lo hanno profanato. I pianti di mille mamme non basterebbero a lavare questo orrendo misfatto. Eppure egli predicava la carità fraterna e invitava alla preghiera per i suoi persecutori”.

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Nomina episcopale in Brasile

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Il Santo Padre Francesco ha accettato la rinuncia al governo pastorale della diocesi di Itapeva (Brasile) presentata da S.E. Mons. José Moreira de Melo.

Gli succede S.E. Mons. Arnaldo Carvalheiro Neto, finora Vescovo Coadiutore della medesima diocesi.

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Turkson: microcredito non diventi speculazione a danno dei poveri

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Il futuro dell’umanità si gioca sul “protagonismo dei poveri”, così il cardinale Peter Turkson, presidente del Pontificio Consiglio Giustizia e Pace, nel suo intervento, stamane a Roma, al III Forum europeo della Microfinanza, sul tema “Economia sociale di mercato, accesso al credito e lotta alla povertà”. Il servizio di Roberta Gisotti: 

Un progresso “più salutare, più umano, più sociale, più integrale”, che tenga in primo piano i principi fondanti della Dottrina sociale della Chiesa: “il bene comune, la solidarietà e la sussidiarietà”. Riprendendo le parole di Papa Francesco, il cardinale Tukson ha auspicato una “moderna economia sociale di mercato” per fronteggiare “disoccupazione generalizzata”, “crescita delle disuguaglianze e “degrado ambientale”. Essenziale è che “la persona umana” sia il “fulcro” di un  sistema”, dove “tutti siano inclusi nella vita economico-sociale” e dove “la creatività sia apprezzata e protetta”.

Da qui l’”importanza cruciale” di strumenti come la microfinanza e il microcredito, che hanno “un impatto economico ma anche sociale e culturale”. Qui infatti – ha sottolineato il porporato - “è la solidarietà a prendere il posto” di “garanzie personali o reali”, richieste dal credito ordinario, favorendo “una cultura della sussidiarietà”, accordando ai più poveri la fiducia di poter “onorare gli impegni presi”, sperimentando la propria dignità, al pari di tutti gli altri cittadini, partecipi di un progresso sociale. I poveri possono dunque giocare un ruolo protagonista nei cambiamenti nazionali, regionali e globali. “Non sminuitevi!”, li ha incoraggiati Papa Francesco, nell’incontro mondiale con i Movimenti popolari, nel luglio 2015 in Bolivia.

Quindi un forte monito del cardinale Turkson: “sarebbe moralmente inaccettabile se questi strumenti, che si sono rivelati così importanti per la promozione della dignità dei più poveri, venissero ricondotti all’interno della logica della massimizzazione del profitto che caratterizza il settore del credito nel suo insieme. Sarebbe drammatico - ha denunciato il porporato - se, a fronte della crisi che in molti Paesi devono affrontare gli istituti di credito tradizionali, il microcredito finisse per diventare una ghiotta opportunità per allargare il perimetro del business della finanza a scopo speculativo”.

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Oggi in Primo Piano



Iraq, rallenta offensiva a Mosul. Onu: 200mila in fuga

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Continua a rallentare l’offensiva dell’esercito iracheno a Mosul, in Iraq, dopo i successi ottenuti nella prima giornata di operazioni. Prosegue anche la difesa delle proprie postazioni da parte del sedicente Stato Islamico, che questa mattina ha fatto esplodere due autobomba nei pressi delle linee dei governativi a Hamdaniya. Intanto, per esprimere la propria opposizione, alcuni abitanti della città scrivono sui muri la parola “muqawamah”, “resistenza”, ma chi è scoperto viene immediatamente condannato a morte. Le milizie sciite, infine, hanno fatto sapere che anche loro entreranno a Mosul, nonostante il no del premier al Abadi. Roberta Barbi

Sono circa seimila, secondo l’esercito iracheno, i jihadisti dello Stato Islamico che resistono asserragliati all’interno di Mosul. A loro i governativi hanno lanciato un appello affinché depongano le armi, ma senza ricevere risposta. Intanto prosegue con qualche battuta d’arresto l’offensiva della coalizione per conquistare la roccaforte irachena dell’Is: i governativi combattono intorno alla città – secondo al Jazeera invece si sarebbero ritirati in un piccolo centro cristiano a metà strada tra Mosul ed Erbil – e sarebbe imminente l’attacco contro il villaggio di Rudaw. Intanto i miliziani hanno lanciato due autobomba contro la linea dell’esercito a Hamdaniya e diffuso un video che mostrerebbe la fuga di un convoglio di peshmerga curdi per sfuggire a un attentato kamikaze. Le Nazioni Unite, nel frattempo, iniziano a considerare l’aspetto umanitario dell’operazione: circa 200mila persone che si stima siano costrette a fuggire dall’area solo nelle prime settimane; un milione gli sfollati e 700mila i bisognosi di un alloggio di emergenza, secondo le stime più pessimistiche. Intanto anche il Presidente Usa Obama aveva parlato di possibile crisi umanitaria, per fronteggiare la quale, però, ha assicurato di avere un piano, mentre la conquista di Mosul rappresenterà “una pietra miliare nella lotta contro l’Is”.    

Su quanto sta accadendo nel Paese, abbiamo sentito lo scrittore e intellettuale iracheno, Younis Tawfik, originario proprio di Mosul: 

R. – Da intellettuale, ma anche da persona che ha i suoi familiari a Mosul:  parecchi dei miei amici intellettuali e scrittori cristiani sono stati cacciati dalle loro case, e tutto questo è accaduto due anni fa sotto gli occhi del mondo …. E adesso, dopo due anni, il mondo si muove e ha deciso di muoversi per far uscire l’Isis dalla città di Mosul: mi chiedo che cosa stessero facendo, da allora, fino adesso? Perché non si sono mossi prima, quando la tragedia si era prospettata? Ormai, in questi due anni, l’Is si è radicato all’interno della città e diventa, quindi, molto più difficile farli uscire adesso, che non se lo avessero fatto subito…

D. – Quella intrapresa oggi dalla comunità internazionale è la strategia migliore per porre fine all’estremismo?

R. – Diciamo che è un primo passo. Non è certo così facile porre fine all’estremismo, proprio perché si è radicato ancora di più sul territorio. Non dimentichiamo che l’Is è nato dalla costola di al Qaeda. Sicuramente dopo la fine di questo fenomeno, ne salterà fuori un altro, perché le motivazioni che avevano dato la possibilità all’Is di crescere sul territorio non sono ancora finite.

D. – In un rapporto appena pubblicato Amnesty International denuncia, in particolare, la discriminazione nei confronti dei sunniti, accusati di complicità con l’Is…

R. – Il governo iracheno è di matrice sciita, guidato direttamente dall’Iran. Le sue milizie accusano i sunniti di complicità con l’Is, ma ignorano - oppure non vogliono sapere o fanno finta di non sapere - che i primi danneggiati dall’Is sono proprio gli stessi sunniti. La città di Mosul ha due milioni di abitanti che sono sunniti - come Falluja ed altre città – e che hanno subito la criminalità e la società dell’Is.

D. – Lei ha ancora familiari a Mosul. Cosa le raccontano?

R. – In questo momento non  riesco a sentirli… Però fino a poco tempo fa mi parlavano di questa associazione a delinquere, di questi estremisti che discriminano chiunque non è con loro. Mia sorella - ad esempio - che abita nel quartiere cristiano, mi racconta che le case dalle quali sono stati cacciati via i cristiani, sono state prese dalle famiglie dell’Is, vi abitano e ora vi si parla in tutte le lingue meno che in arabo. Mia sorella mi dice: “Mi piange il cuore, quando vedo le case delle mie amiche e dei miei vicini, lasciate con tutto il loro arredamento… E questi, invece, ci abitano!”.

D. – Del suo meraviglioso Paese, che ha alle spalle una storia millenaria, ormai si parla solo ed esclusivamente per la guerra. Che effetto le fa?

R. – Sono afflitto! Sono ferito! Anche perché la terra tra i due fiumi, l’antica Ninive e soprattutto Mosul, tutto il patrimonio che io avevo vissuto da giovane e che vedevo tutti i giorni, adesso lo vedo distrutto! Dalle moschee alle chiese, ai monumenti… E questo fa più male che altro.

D. – Ha voglia di regalarci un ricordo personale legato alla sua città?

R. – Quello del primo impatto con la Divina Commedia. Il mio professore di liceo mi diede alcuni versi tradotti; dopo averli letti, chiesi dove potevo trovare i tre volumi: lui mi indicò la Chiesa dell’Orologio, nel nostro quartiere, dove io abitavo, e dove andai da padre Youssef Habbi, che poi divenne un mio caro amico, che mi diede i tre volumi da leggere, e questo mi ha aperto la strada per arrivare in Italia.

D. – Quale futuro vede per Mosul e per l’Iraq?

R. – Adesso non vedo un futuro né tranquillo né prospero: vedo ancora più scontri. Sicuramente, dopo la cacciata dell’Is, ci saranno altri scontri tra curdi e governo centrale, tra l’Iran da una parte e la Turchia dall’altra… Non vedo una fine tranquilla per l’Iraq, almeno per i prossimi anni.

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Iraq: appello del Patriarca Sako alla pace e all'unità

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È un accorato appello alla pace e all’unità nazionale dell’Iraq quello lanciato dal Patriarca caldeo, Louis Raphael Sako, mentre è in atto una dura offensiva internazionale, sotto il comando degli Stati Uniti, per liberare Mosul e la piana di Ninive dai militanti del così detto Stato Islamico. “Vorrei rivolgermi, con parole che giungono dal profondo del mio cuore, a tutte le nostre famiglie irakene come fossero una sola – scrive il Patriarca Sako nel suo appello, riportato dall’agenzia AsiaNews - Credo fermamente che tutti noi, in quanto iracheni, siamo un’unica famiglia, a dispetto delle nostre diverse affiliazioni”.

Il bene del Paese e della popolazione siano al di sopra di tutto
Di qui, l’esortazione ad “evitare scambi reciproci di accuse e di colpe”, così da “mettere la parola fine a tutte le dispute e porre un freno agli egoismi e agli interessi personali e di parte”. Il tutto in nome del bene comune del Paese e di tutta la popolazione che vanno posti “prima e al di sopra di ogni altra cosa”. L’auspicio del Patriarca Sako è, inoltre, che tale atteggiamento permetta di “spianare il cammino verso una reale riconciliazione comunitaria, all’insegna dell’amore, della pace e della liberazione di tutte le terre occupate”.

Occorre democrazia rispettosa di tutti
È con “fiducia e speranza”, quindi, che il Patriarca caldeo  chiede “una soluzione rapida” alla situazione nazionale che porti all’istituzione di “una democrazia genuina, rispettosa di tutti in modo pacifico e civile”, perché “questo è il solo e unico modo per una piena ripresa del Paese”.

Appello alla comunità internazionale
Mons. Sako chiama in causa anche la comunità internazionale, alla quale rivolge “un pressante appello” perché “intraprenda iniziative concrete affinché l’Iraq e l’intera regione mediorientale possano ritrovare la loro sicurezza e la loro pace”. Infine, il Patriarca implora la protezione divina sull’intero Paese e la sua popolazione. (I.P.)

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Somalia: i terroristi di al-Shabaab continuano a mietere vittime

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Il gruppo terroristico al-Shabaab, vicino ad Al-Quaeda, continua a mietere vittime in Somalia. Ieri l’ennesimo episodio: militanti del gruppo hanno attaccato la strategica città di Afgoye, a 30 km a sud di Mogadiscio. Dopo una lunga battaglia con le forze dell’Amisom, la missione di peacekeeping dell’Onu incaricata di combatterli, si sono ritirati. Il governo somalo e il gruppo terroristico continuano a contendersi il controllo del territorio. Andrea Walton ha chiesto a Marco Di Liddo, analista per l’Africa del Centro Studi Internazionali di Roma, se l'attacco dimostra che al-Shabaab sia ancora pericoloso: 

R. – Assolutamente sì, quello che al Shabaab ha perpetrato nelle scorse ore non è un evento raro, ma in tutto il Paese il gruppo terroristico affiliato ad al Qaeda, continua ininterrottamente i suoi attacchi contro la popolazione civile, le forze armate somale e le truppe della missione dell’Unione Africana Amisom. Non è un livello di intensità paragonabile a quello di quattro anni fa, ma il gruppo terroristico somalo è ancora pienamente attivo e lungi dall’essere sconfitto.

D. - Qual è la situazione sul campo in questo momento? Quanti territori controlla il governo somalo?

R. - Il governo somalo grazie all’aiuto della missione Amisom ha ripreso il controllo di Mogadiscio, di Baidoa e delle principali città del centro e del sud del Paese. Diciamo che al Shabaab in questo momento si rifugia nelle zone rurali e nei villaggi dove l’accesso è più complesso e in una larga fascia del sud del Paese lungo il confine con il Kenya. Naturalmente il termine “controllo” non deve trarre in inganno perché si tratta comunque di una forma di autorità molto diluita e che ha necessariamente bisogno dei potentati locali per essere esercitata ma che cambia e può essere messa in difficoltà in maniera estremamente semplice.

D. - Come sta agendo la Amisom, la missione di peacekeeping dell’Onu che si trova in Somalia per contrastare al Shabaab?

R. - Il bilancio è contraddittorio. Diciamo che dal punto di vista militare i risultati ottenuti sul campo sono indubbi perché Amisom è riuscita ad aiutare il governo a liberare gran parte del Paese. Tuttavia in molti casi la popolazione civile si è lamentata dell’atteggiamento di Amisom che in alcuni casi ha perpetrato abusi di potere, corruzione e violenza fisica sulla popolazione civile. Quindi per quanto l’impegno sia stato importante, ci sono diversi coni d’ombra sull’azione della missione.

D. - Come potrebbe evolvere il conflitto?

R. - È molto difficile fare una previsione a lungo periodo anche perché il Paese purtroppo non conosce una forma di stabilità accettabile ormai da oltre 25 anni. Per sconfiggere al Shabaab servirebbe un’azione sociale di rilancio economico e di costruzione della fiducia tra le istituzioni e la popolazione che in questo momento il governo somalo, purtroppo, non può garantire nonostante i tanti aiuti internazionali di cui usufruisce. La chiave di volta è proprio questa, dimostrare alla popolazione somala che il governo sta agendo bene e che il futuro sotto la bandiera di una nuova Somalia pacificata è migliore rispetto a quello di al Shabaab. Il problema è che al Shabaab alterna l’uso della violenza ad un’azione politica e sociale molto importante, anche di sostegno in alcuni casi alla popolazione civile tramite aiuti umanitari e beni di prima necessità e soprattutto tramite l’esercizio del potere politico, della giustizia. Basti pensare che in alcuni casi è la stessa popolazione locale che si rivolge ad al Shabaab per la risoluzione di controversie per esempio sui terreni agricoli o sui pozzi d’acqua. Quindi proprio grazie a questa funzione di garante dell’ordine purtroppo al Shabaab riesce ancora ad avere un discreto sostegno. Se non si interviene in questi casi, purtroppo, il conflitto somalo potrebbe durare ancora a lungo. 

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Sud Sudan: Centro per la pace nel Paese sconvolto dalla guerra

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“Centro per la pace Buon Pastore” (Good Shepherd Peace Centre). Un nome ben augurante per un Paese dilaniato dalla guerra civile come il Sud Sudan. Il Centro è stato inaugurato il 15 ottobre a Kit, nell’arcidiocesi di Juba, da mons. Charles Daniel Balvo, nunzio apostolico in Sud Sudan, insieme a mons. Paolino Lukudu Loro, arcivescovo di Juba, da altri tre vescovi, dall’amministratore apostolico di Torit e da diversi sacerdoti, religiosi alla presenza di numerosi fedeli e di personale del corpo diplomatico, per un totale di circa 800 persone. “Il Centro sarà una forza positiva per la ricerca della pace in questo Paese giovane” ha detto padre Daniele Moschetti, presidente dell’Associazione dei Superiori Religiosi in Sud Sudan.

La struttura dispone di 40 stanze ed un ostello
A servire nella nuova struttura sono stati chiamati un padre comboniano sud-sudanese, un padre vincenziano filippino, una suora americana del Cuore Immacolato di Maria, più un padre gesuita rwandese e un padre ugandese dei St Martin De Porres Brother. La struttura dispone di quaranta stanze con due letti ciascuna, più un ostello della gioventù capace di accogliere sessanta ragazzi, oltre a spazi per conferenze, convivio e una cappella.

Il Centro è un dono di speranza per il popolo del Sud Sudan
“Che il Centro esiste dimostra che molto si può fare nonostante tutte le difficoltà” afferma padre Moschetti. “Il Centro è un dono di speranza per il popolo del Sud Sudan, in particolare per tutti coloro che riceveranno una formazione da questo Centro. È anche un grande segno che la Chiesa cattolica, impegnata concretamente per la pace, la giustizia e la riconciliazione attraverso il proprio personale e le sue strutture”. (L.M.)

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Il Presidente della Filippine Duterte in visita in Cina

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E’ in corso la visita di quattro giorni in Cina del Presidente delle Filippine, Rodrigo Duterte. Sullo sfondo i recenti contrasti sulle pretese territoriali di Pechino sul Mar Cinese meridionale, ma anche gli interessi commerciali della Repubblica Popolare sull’arcipelago sinora economicamente nella sfera statunitense. Washington ha espresso perplessità sulla politica fortemente repressiva di Duterte per combattere il narcotraffico. Sul significato di questa visita, Giancarlo La Vella ha intervistato Stefano Vecchia, esperto di Estremo Oriente: 

R. – Ha soprattutto una valenza economica. I rapporti tra i due Paesi si sono intensificati negli ultimi anni. La Cina resta un grande investitore, però è ancora potenziale, quindi Manila è aperta a questi investimenti cinesi. Si parla di circa 50 miliardi di dollari di contratti pronti ad essere firmati a Pechino, che sarebbero un motore di crescita per il Paese, un Paese che arranca, pur avendo avuto una crescita piuttosto elevata negli ultimi anni. Sicuramente la questione economica è legata alla questione strategica. Pechino ha rivendicazioni molto forti sul Mar Cinese meridionale e soprattutto negli ultimi anni ha cercato di estendere la propria influenza anche conquistando atolli e isole, costruendo strutture fisse, senza tenere conto assolutamente sia delle esigenze territoriali di Manila, ma anche delle esigenze della popolazione locale, soprattutto dedita alla pesca, che abitualmente utilizza queste acque, ricche peraltro di grandi risorse del sottosuolo marino per ora non sfruttate.

D. – Rivolgersi a Pechino vuol dire rivedere anche i rapporti con gli Stati Uniti?

R. – Sicuramente. Duterte sta giocando in questo modo, spregiudicatamente, la carta delle alleanze, cercando di mettere Washington in una posizione di difesa, sperando che facci ancora più concessioni. Gli Stati Uniti, ex potenza coloniale, sono un tradizionale alleato delle Filippine. Sono, comunque, il suo principale protettore sul piano militare, questo va tenuto presente. Da questo punto di vista le Filippine sono un Paese estremamente debole e quindi Pechino non avrebbe nessuna difficoltà a proseguire la sua opera di penetrazione. E’ solo la presenza di forti contingenti degli Stati Uniti che impedisce questa ulteriore espansione. Allo stesso tempo Duterte ha mostrato più volte insofferenza verso gli Stati Uniti, come peraltro verso l’Europa e verso altri, per la pressione costante sulla sua politica interna, una politica sicuramente repressiva delle libertà individuali e democratiche. Sinora sono almeno 4 mila le vittime della campagna di Duterte contro la droga, che di fatto è una campagna di sterminio nei confronti di spacciatori, di tossicodipendenti e quindi sicuramente è qualcosa di inviso non soltanto alla comunità internazionale e alla società civile filippina, ma anche alla Chiesa.

D. – I filippini come vedono questo pugno eccessivamente duro, che Duterte sta utilizzando sia pure per combattere una piaga come quella del narcotraffico?

R. – Lo vivono in modo contradditorio, chiaramente perché da un lato è un Paese fortemente cattolico con una forte presenza della Chiesa che ha un ruolo nella società, una Chiesa che è in contrasto aperto con Duterte. Nello stesso tempo però la forte incidenza della criminalità comune sulla vita dei filippini fa sì che, almeno finora, la popolazione si sia schierata con Duterte per questa operazione contro il crimine. Logicamente è un’operazione che ha dei limiti e i filippini vanno accorgendosene e crescono le resistenze della società civile, però la popolazione al momento è ancora al 76% favorevole a questa politica repressiva di Duterte.

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Amatrice, via le tendopoli. Vescovo Rieti: ricostruire anche economia

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La terra torna a tremare nelle aree colpite dal terremoto del 24 agosto scorso. Due le scosse, rispettivamente di magnitudo 3.0 e 2.1, registrate nella notte senza causare nuovi danni tra Arquata del Tronto, Amatrice e Accumoli. Intanto, ad Amatrice giunge la notizia dello smantellamento delle tendopoli. Al loro posto sorgeranno dei moduli abitativi. Dopo 52 giorni è così finita la fase dell’emergenza dopo il sisma. Ascoltiamo il vescovo di Rieti Domenico Pompili al microfono di Sergio Centofanti

R. - È il segno che il cronoprogramma che prevedeva la preparazione delle case prefabbricate entro cinque, sei mesi, è partito o quanto meno che si sono create le condizioni perché si possa in questo momento iniziare a lavorare per questi moduli provvisori che costituiranno le abitazioni per i prossimi anni in attesa della ricostruzione definitiva. Tra l’altro, il clima a mille metri inizia ad essere piuttosto rigido e imponeva il passaggio dalle tende a qualche altro tipo di soluzione.

D. - Come vivono oggi i terremotati?

R. - Sono distribuiti in diverse località sia a San Benedetto del Tronto che a Rieti, che a Roma. Naturalmente alcuni sono rimasti perché hanno delle attività economiche di tipo agricolo e di altro genere; quindi avevano la necessità di rimanere in loco nei camper o in alcune abitazioni messe a disposizione dopo aver superato il test di agibilità.

D. - Si crede nell’azione del governo?

R. - L’atteggiamento prevalente è quello di chi fa credito alle dichiarazioni e anche al decreto molto impegnativo che è stato reso ufficiale. Perciò da parte di tutti c’è il desiderio che a queste parole così importanti seguano i fatti.

D. - Quali sono le sue speranze come vescovo?

R. - L’augurio è che ciò che è stato positivamente registrato nella fase dell’emergenza, cioè una concertazione molto efficace sul piano operativo tra tutte le forze dell’ordine, le varie istituzioni pubbliche insieme anche ai privati, ai cittadini, a varie realtà di volontariato, possa continuare in maniera analoga anche in questa fase dove si entra veramente nel vivo di questa realizzazione di villaggi provvisori e che nel frattempo però l’economia possa in qualche modo riprendere il proprio cammino, perché se ci si limita solamente a ricostruire le case ma non si creano le condizioni perché le persone possano rimanere, è evidente che la possibilità di vedere questi territori nuovamente abitati sfuma. Quindi mi auguro che la velocità di questi processi possa far sì che si arrivi in tempi ragionevoli a questa prima fase all’interno dei moduli prefabbricati e poi successivamente alla ripresa del tessuto sociale ed economico. La gente ha sicuramente questo desiderio perché è legata tenacemente al proprio ambiente.

D. - Si continua a sentire la solidarietà nazionale?

R. - Si continua ancora a sentire  un’attenzione particolare dal mondo delle istituzioni di volontariato. Anche dal mondo ecclesiale ancora oggi ricevo quotidianamente segnalazione da parte di parrocchie, di Caritas diocesane e regionali che intendono mettersi a disposizione. Questo è sicuramente qualcosa di molto promettente. L’augurio anche qui è che l’attenzione non scemi e proprio perché c’è questo sguardo così attento anche coloro che sono chiamati all’azione si sentano stimolati a farle bene e presto.

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Caporalato: approvata la legge. Pene severe a chi sfrutta i lavoratori

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“Un passo avanti per il Paese, contro lo sfruttamento del lavoro in agricoltura e il caporalato, intollerabile schiavitù” Così la presidente della Camera Laura Boldrini ha commentato l’approvazione della legge contro il caporalato. Soddisfatto anche il ministro delle politiche agricole Maurizio Martina che ha spiegato che questa legge serve anche a salvaguardare quelle aziende agricole in regola che subiscono una concorrenza sleale.  Anche don Luigi Ciotti presidente nazionale di Libera ha definito questa norma come “un passo in avanti fondamentale,  perché rafforza gli strumenti di contrasto penali confiscando beni accumulati illecitamente”. Ma su questa legge, ascoltiamo il servizio di Marina Tomarro

Rischia la reclusione da 1 a 6 anni, il datore di lavoro che sfrutta i lavoratori nei campi agricoli, approfittando del loro stato di bisogno. Questo è uno dei punti chiave della legge contro il caporalato. Adesso, per questo reato non verrà punito solo l’intermediario, ma anche l’imprese che ne trae beneficio. Le nuove norme inoltre prevedono un aumento della pena da cinque ad otto anni, se i fatti sono commessi mediante minaccia e violenza, ed è previsto l’arresto in flagranza di reato e lo sconto di metà della pena per chi aiuta a smascherare altri traffici simili. Sono considerati sfruttamento, anche la violazione delle norme sull’orario di lavoro e sui periodi di riposo, cioè salari troppo bassi e straordinari non pagati e sotto osservazione anche la sicurezza sul lavoro e lo stato degli alloggi dei braccianti. Ascoltiamo il commento di Giuseppe Cecere  presidente nazionale di Acli Terra:

R. – Noi esprimiamo, come  Acli Terra, una grande soddisfazione per l’approvazione di questa legge contro il caporalato perché c’è evidentemente questa intermediazione illegale che porta lo sfruttamento soprattutto in alcune zone, in alcune regioni come la Sicilia, la Calabria, la Puglia, ma non sono esenti anche regioni del Nord, dove ci sono caporali che reclutano extracomunitari, anche clandestini, per impiegarli nell’agricoltura in modo illegale, sfruttando e imponendo un pagamento che è dimezzato tra il caporale e il lavoratore che magari lavora 15 ore al giorno. Ecco perché riteniamo di poter esprimer grande soddisfazione, perché finalmente viene approvata una legge che può ridare quella dignità che i lavoratori agricoli devono avere,  lavorando e sudando nei campi.

E secondo un recente rapporto di Flai-Cgil  le vittime del caporalato in Italia sono circa 430 mila, indistintamente tra italiani e stranieri, con più di 100.000 lavoratori in condizioni di grave sfruttamento e vulnerabilità alloggiativa. Ascoltiamo ancora Giuseppe Cecere

R. – Ci sono braccianti che reclutati dai caporali si alzano alle quattro della mattina, sono costretti a prendere un pullman magari per raggiungere il posto di lavoro a 100, 150 kilometri, in  condizioni abbastanza difficili. Sotto il sole, senza grandi protezioni, senza un minimo di rispetto di norme dal punto di vista anche infortunistico. Quindi è una situazione abbastanza pesante.

D. - Come è possibile aiutarli?

R. - Le iniziative sono state tante. Penso per esempio alla regione Puglia che ha anche cercato di fare notevoli investimenti da mettere a disposizione delle strutture, però poi a margine delle strutture, magari protette, ne nascono altre che purtroppo portano al degrado cui accennavo precedentemente.

D. - Cosa succederà adesso secondo lei?

R. - Succederà che sicuramente le aziende agricole vere non accederanno a nessun tipo di rapporto con questi intermediari e sfruttatori. Poi fortunatamente c’è – ed è anche previsto dalla legge -  un coordinamento dell’Ispettorato dell’Inps, di quello provinciale del lavoro, della Guardia di finanza, dei  Carabinieri, …  Quindi mi pare che sia stato messo insieme uno strumento anche a difesa e a rispetto della legge. Mi auguro che ci possa essere sempre di più una condizione migliore di questi lavoratori agricoli.

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Sud Corea: il 10% degli anziani ha idee suicide

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Nella Corea del sud, il 10% degli anziani ha idee suicide. Lo evidenzia un sondaggio secondo il quale l’anno scorso un anziano su dieci ha pensato di tentare il suicidio. Secondo un'indagine condotta dall'Istituto coreano per la salute e gli affari sociali (Kihasa) - riferisce l'agenzia AsiaNews - su 853 persone di età superiore ai 65 anni, il 10,3% ha detto di aver sentito l'impulso di togliersi la vita. In particolare, il 10,1% delle persone di età compresa tra 65 e 74 anni ha tale impulso, mentre l’11,4% delle persone di età superiore ai 75 anni ha detto la stessa cosa.

I problemi di salute sono il fattore che causa più ansia
​Secondo il sondaggio, inoltre, in una scala da 1 a 10, con 10 che rappresenta il massimo dell’ansia, il livello medio di ansia degli intervistati è risultato di 5,4. Tra le cause di tale stato, i problemi di salute sono il fattore che causa più ansia, con un livello di 6,46, seguito da motivi finanziari con 6,38 e altri problemi psicologici con 5.9. Più del 30% degli intervistati ha dichiarato di dormire o riposare per risolvere tali problemi.

Gli anziani nella fascia a basso reddito i più a rischio suicidio
L’indagine ha anche rilevato che le persone anziane nella fascia a basso reddito prendono in considerazione il suicidio molto più di quanto facciano coloro che hanno livelli di reddito più elevati. “L'ansia e la salute psicologica degli anziani – ha dichiarato in proposito alla Yonhap, Chae Soo-mi, ricercatore della Kihasa - sono direttamente correlate a diverse malattie sociali”. “E 'il momento di elaborare misure per prendersi cura della salute mentale delle persone anziane”.

Il suicidio prima causa di morte tra la popolazione più giovane nel Paese
Secondo i dati di Statistics Korea, nel 2011 il suicidio era la prima causa di morte tra la popolazione più giovane nel Paese, nella fascia di età tra 15 e 24 anni. Il tasso di suicidi per 100mila persone in tale fascia di età era pari a 13, contro i 7,7 conteggiati nel 2001. (R.P.)

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Alla Festa del Cinema di Roma, “La verità negata” di Mick Jackson

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E’ stato presentato alla Festa del Cinema di Roma e arriverà sugli schermi italiani il 17 novembre “La verità negata” del britannico Mick Jackson, nel quale si ripercorrono i giorni del famoso processo a Londra che videro coinvolti la professoressa ebraica Deborah Lipstadt e il negazionista David Irving, portando alla vittoria della verità sulla menzogna e il fanatismo. Il servizio di Luca Pellegrini: 

Fu uno dei processi più importanti nella storia legale del Regno Unito, ma questa importanza travalicò quei confini perché toccava uno dei momenti più spaventosi della storia e il suo riflesso sulla verità con cui i fatti sono tramandati e ricordati. Deborah Lipstadt, professoressa americana di studi ebraici moderni, nel 1996 fu citata in giudizio da David Irving, un irriducibile negazionista, per diffamazione. Per la legislazione britannica era lei che doveva dimostrare la propria innocenza, che significava dimostrare la verità del genocidio ebraico compiuto dai nazisti. Scrisse un libro sui giorni del processo, che la vide vittoriosa dopo trentadue udienze in tribunale, nell’aprile del 2000. E Mick Jackson ha girato un film avvincente ed equilibratissimo attingendo a quelle pagine, con Rachel Weisz ad interpretare il ruolo della docente. Che abbiamo incontrato a Roma, chiedendole quale è stata la sua prima reazione sapendo che la sua storia sarebbe stata raccontata sullo schermo.

R. - I have been in conversation with the producers …

Ero già in contatto con i produttori. Improvvisamente qualcuno mi ha chiamato e mi ha detto: ci sarà un film. Sapevo che erano interessati al mio libro, quindi ero in contatto con loro. Non è stata una grande sorpresa, ma la mia grande preoccupazione prima di firmare il contratto era una sola: eravamo al telefono e ho detto: “Ascolta questa è una storia che parla di verità, e tu devi essere assolutamente fedele alla verità. Non è una storia che puoi abbellire, è una storia vera e tu devi essere assolutamente fedele alla verità”. Questa è stata la mia più grande preoccupazione e paura.

D. - Professoressa Lipstadt, quali sono stati i momenti più difficili e dolorosi di quei mesi e quale quello che l’ha maggiormente resa felice?

R. – Auschwitz is a terrible place, but it’s a worst place when you feel alone…
Auschwitz è un posto terribile ma è un posto peggiore quando ti senti sola là… Mi sono sentita sola. Non c’era nessuno con cui potevo parlare…. Mi sono sentita malissimo…. E’ stato un momento orrendo, orrendo per me, molto difficile. Un altro momento difficile è stato quando il giudice ha posto quella strana domanda e lei, Rachel Weisz, si gira e chiede che cosa sia successo. Perché quello che ci spaventava così tanto della domanda è questo: se lui si preoccupa se una persona è genuinamente negazionista e antisemita, e gli credi, allora devi credere a quello che pensa. Ad esempio, se uno è razzista, che le persone di colore sono davvero inferiori. Questo è un pregiudizio, questo è odio. Così noi non eravamo sicuri che il giudice avesse accolto le nostre ragioni. E questo è stato un momento molto difficile. Il momento invece che ho vissuto con più gioia è stato quando abbiamo vinto, quando ho potuto parlare di nuovo, e il giudice ci ha dato un verdetto così schiacciante, in cui così tanto disprezzava Irving: lui mente, lui manipola, lui distorce, tutte parole utilizzate nel processo. E’ stato così pieno di soddisfazione che il giudice avesse capito ogni singola questione. Come è detto nel film - lo dice uno dei reporter -: questa è stata la sentenza legale più schiacciante nella storia inglese.

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Sito Radio Vaticana

Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LX no. 293

E' possibile ricevere gratuitamente, via posta elettronica, l'edizione quotidiana del Bollettino del Radiogiornale. La richiesta può essere effettuata sul sito http://it.radiovaticana.va

Segreteria di redazione: Gloria Fontana, Mara Gentili, Anna Poce e Beatrice Filibeck, con la collaborazione di Barbara Innocenti e Serena Marini.