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Sommario del 02/10/2016

Il Papa e la Santa Sede

Oggi in Primo Piano

Il Papa e la Santa Sede



Il Papa incoraggia i cattolici in Azerbaigian: avanti, senza paura!

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“Il Papa visita una piccola comunità di periferia, che parla tante lingue, come ha fatto lo Spirito Santo a Gerusalemme nel Cenacolo, e gli dà forza per andare avanti”. Francesco pronuncia queste parole a braccio, dopo l'Angelus, davanti ai fedeli cattolici riuniti nella piccola Chiesa dell’Immacolata Concezione a Baku, in Azerbaigian, dove è giunto in mattinata per completare il suo 16.mo viaggio internazionale. Solo poche centinaia di fedeli in un Paese musulmano: a loro durante l'omelia della Messa, parla della fede che non è un “superpotere” ma è il “filo d’oro che ci lega a Dio“ e nella vita cristiana può fare meraviglie se è unita al servizio. Il servizio della nostra inviata Gabriella Ceraso

Dalla “terra del fuoco”, ricca di petrolio sulle rive sul Mar Caspio, dove il Cristianesimo dei primi secoli ha resistito all’ondata di islamizzazione e all’ateismo comunista, il Papa rilancia la bellezza della vita cristiana, “dono di Dio” che desidera, dice, fare di ciascuno di noi un “capolavoro del creato”. Francesco parla in una Chiesa gremita e simbolica, l’Immacolata Concezione, l'unica parrocchia cattolica di un Paese musulmano di oltre 9 milioni di abitanti e ad ascoltalo c’è una folla festosa e attenta.

Qualcuno può pensare che il Papa perda tempo a visitare una piccola comunità di periferia: in questo imita lo Spirito Santo. Anche Lui è sceso dal cielo sulla piccola comunità nel Cenacolo per dargli forza, nonostante le porte fossero chiuse. Ma lì, come oggi a Baku, dice Francesco, c’erano due sole cose necessarie:

"In quella comunità c’era la Madre - non dimenticare la Madre! - e in quella comunità c’era la carità, l’amore fraterno che lo Spirito Santo ha riversato in loro. Coraggio! Avanti! Go ahead! Senza paura, avanti!".

Nell’omelia il Papa si è soffermato sulla fede e sul servizio, aspetti essenziali nella vita cristiana, chiarendone il significato a  partire dalla fede:

“Non è una forza magica che scende dal cielo, non è una “dote” che si riceve una volta per sempre e nemmeno un super-potere che serve a risolvere i problemi della vita. Perché una fede utile a soddisfare i nostri bisogni sarebbe una fede egoistica, tutta centrata su di noi”.

E la fede non va neanche confusa - ha precisato - col sentirsi bene o con l’essere consolati:

“La fede è il filo d’oro che ci lega al Signore, la pura gioia di stare con Lui, di essere uniti a Lui; è il dono che vale la vita intera, ma che porta frutto se facciamo la nostra parte”.

E la nostra parte è il servizio. Inseparabile e intrecciato alla fede, come i fili dei preziosi tappeti azeri. Il “servizio” è da intendersi come “disponibilità totale”, “senza calcoli né utili”, come è stato l’amore di Dio per noi. Esso è, dunque, il riassunto dello stile di vita cristiana:

“Servire Dio nell’adorazione e nella preghiera; essere aperti e disponibili; amare concretamente il prossimo; adoperarsi con slancio per il bene comune”.

Ma ci sono anche tentazioni - avverte il Papa - che possono allontanarci da questo stile. Ne cita due: un “cuore tiepido” che vive solo per “soddisfare i propri desideri” e “risparmia tempo” per Dio e per gli altri; e l’eccessiva “attività”, il ”pensare da padroni” e darsi da fare solo per guadagnare prestigio. Nessuna delle due tentazioni toccherà il “piccolo e tanto prezioso gregge di Baku”. “La Chiesa - afferma Francesco - vi guarda e vi incoraggia”:

“Cascuno di voi è come uno splendido filo di seta, ma solo se sono ben intrecciati fra loro i diversi fili creano una bella composizione; da soli, non servono. Restate sempre uniti, vivendo umilmente in carità e gioia; il Signore, che crea l’armonia nelle differenze, vi custodirà”.

La storia di fede dell’Azerbaigian, che dopo la persecuzione ha resistito compiendo meraviglie, emerge nella preghiera dell’Angelus:

“Vorrei ricordare i tanti cristiani coraggiosi, che hanno avuto fiducia nel Signore e sono stati fedeli nelle avversità. Come fece san Giovanni Paolo II, a voi tutti rivolgo le parole dell’Apostolo Pietro: 'onore a voi che credete!'".

Siate sempre - è questo l’incoraggiamento finale del Pontefice ai cattolici di Baku - “testimoni gioiosi di fede speranza e carità, uniti fra di voi e con i vostri Pastori”.

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Tauran: Papa in Azerbaigian, il dialogo è la via per la pace

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La dimensione interreligiosa caratterizza fortemente la breve visita del Papa in Azerbaigian dove la quasi totalità della popolazione è musulmana con piccole minoranze cristiano-ortodosse e ebraiche. "La fraternità invocata nel motto del viaggio di Francesco è già vissuta per molti aspetti dai leader religiosi del Paese e servirà a rilanciare al mondo di oggi un importante messaggio". Così il cardinale Jean-Louis Tauran, presidente del Pontificio Consiglio per il dialogo interreligioso. Gabriella Ceraso lo ha intervistato: 

R. – Ogni incontro è un dono di Dio, Creatore, Padre provvido, Dio di pace. E questo viaggio ha la particolarità di essere, in qualche modo, la continuazione del recente viaggio in Armenia: sappiamo delle forti tensioni che esistono tra i due Paesi… Le religioni e i loro leader, così come pure i loro seguaci, hanno una responsabilità e una missione speciale verso il dialogo, la riconciliazione e la pace.

D. – Qual è, ad oggi, lo stato effettivo in Azerbaigian del dialogo che c’è tra ebrei, cristiani e musulmani?

R. – Le informazioni che abbiamo sono positive. I capi religiosi sono apparsi più di una volta insieme, viaggiano assieme; sono venuti a Roma assieme… D’altra parte lo stesso governo si attiva per promuovere il dialogo interculturale e interreligioso. Dunque, direi che è un ambiente piuttosto favorevole.

D. – Sta avendo una certa incidenza quindi…

R. – Sì, si! E’ un Paese che è relativamente aperto all’esterno.

D. – Eminenza, sarà la terza volta che vediamo il Papa entrare in una Moschea, al fianco di un importante leader musulmano. Può dirci se c’è qualche passo, se c’è qualche cambiamento in corso proprio nei rapporti con il mondo islamico?

R. – No, cose nuove non so… Però è importante perché lo sceicco musulmano di confessione sciita ha anche una responsabilità a livello regionale e gode di grande rispetto e simpatia. I rifugiati e gli immigrati, senza alcuna distinzione per motivi di etnia o di religione, sono accolti. Penso che sia importante incoraggiare questo orientamento.

D. – Al mondo di oggi con i suoi problemi, con i suoi interrogativi, soprattutto riguardo al terrorismo, alla diffidenza verso l’altro, lo scetticismo e la guerra condotta in nome della religione, questo incontro a Baku cosa potrà dire?

R. – Prima di tutto penso che diffonderà un messaggio di pace e di fraternità, in particolare per il Caucaso, dove non mancano tensioni a sfondo etnico e religioso. E poi un altro messaggio per quella regione e per il mondo: il dialogo - e non la guerra - è la via maestra, l’unica degna di essere percorsa verso la giustizia e la pace. Il dialogo è conoscersi, apprezzarsi, saper ascoltare. Queste attenzioni alle persone nell’ordinario della vita sono molto importanti, perché è lì che si crea una cultura della pace e che nasce la speranza.

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L'arcivescovo ortodosso di Baku: le nostre divisioni non arrivano in cielo

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In occasione della visita nella Moschea a Baku, Papa Francesco incontra oltre ai musulmani anche i rappresentanti della comunità ebraica e ortodossa azera. Sulla situazione del dialogo interreligioso nel Paese, ascoltiamo l'arcivescovo ortodosso di Baku e Azerbaigian Aleksandr, al microfono di padre Viktor Vladymyrov

R. - Должен сказать, что межрелигиозный диалог для Азербайджана очень актуален: дело в том, что Азербайджан как страна …
Devo dire che il dialogo interreligioso è molto rilevante in Azerbaigian: il fatto che sia un Paese multi-etnico comporta che sia anche multi-confessionale. Storicamente, in Azerbaigian abitano i rappresentanti di diverse religioni abramitiche tradizionali: cristianesimo, ebraismo e islam - e devo dire che il rapporto tra i rispettivi leader si svolge al massimo livello. Naturalmente, questo esempio è edificante per i cittadini azeri di diverse religioni e concorre alle loro buone relazioni umane. Vorrei anche dire che in Azerbaigian il fenomeno del multiculturalismo è elevato a livello di politica interna dello Stato: non abbiamo né quartieri, né strade, né villaggi nazionali o religiosi, perché nella stessa città, sulla stessa strada, nella stessa casa, nello stesso quartiere vivono persone di diverse nazionalità e religioni. E’ incoraggiante che tutti percepiscano e rispettino il lato quotidiano della vita religiosa. Tutti sappiamo quando ci sono le feste del Ramadan e l'Eid al-Adha, tutti sanno quando sarà Natale e Pasqua, tutti sanno quando sarà Rosh Hashanah o Pèsach. Questa è una cosa normale: le persone si incontrano con queste feste, spesso vanno ospiti nelle case dei vicini. Devo dire che in Azerbaigian, secondo il capo della Chiesa Ortodossa Russa, il  Patriarca Kirill, siamo passati ad una nuova fase – al “dialogo interreligioso costruttivo”. Che cosa significa questo? Significa dialogo alla ricerca degli spazi, in cui possiamo cooperare.

D. - Quale messaggio i leader religiosi vogliono lanciare al mondo di oggi con le sue diverse crisi?

R. - Вот передо мной лежит совместное заявление Папы Римского Франциска и Святейшего Патриарха Кирилла. В 13 пункте …
Di fronte a me  ho una dichiarazione comune di Papa Francesco e del Patriarca Kirill. Al paragrafo 13, è molto ben detto che dobbiamo mostrare a tutti i popoli del mondo che le differenze nella comprensione delle verità religiose non devono impedire alle persone di fedi diverse di vivere nella pace e nell’armonia. Nelle circostanze attuali, i leader religiosi hanno la responsabilità particolare di educare i loro fedeli in uno spirito rispettoso delle convinzioni di chi appartiene ad altre tradizioni religiose. Proprio questo i leader religiosi devono mostrare al mondo e convincerlo nei loro discorsi. Quando si svolgono gli incontri dei capi religiosi, si deve parlare di questo. Credo che questi incontri siano un esempio meraviglioso e dicano al mondo, che la religione non divide le persone, ma, al contrario, le unisce, e non vi è alcuna giustificazione per azioni criminali con slogan religiosi.

D. - Eccellenza, che cosa aspetta la Chiesa Ortodossa in Azerbaigian da questa visita?

R. - Я думаю, что этот визит будет свидетельствовать о том, что наши перегородки Неба не достигают, что все мы ходим под ...
Credo che questa visita testimonierà che le nostre barriere non giungono fino al Cielo; che tutti noi “camminiamo sotto Dio”, e che i leader religiosi possono lavorare insieme per la pace, per la diffusione della predicazione del Vangelo e al bene di tutti i popoli della Terra. Credo che sia la cosa più importante.

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Azerbaigian. Majewski: la gioia della piccola comunità cattolica

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Il Papa in Azerbaigian ha ricevuto un'accoglienza calorosa. In particolare la piccola comunità cattolica, composta da alcune centinaia di fedeli, ha mostrato tutta la sua gioia per questa visita. Ascoltiamo il commento del nostro direttore dei Programmi, padre Andrea Majewski, al microfono di Sergio Centofanti

R. – Sono stati momenti molto belli, perché il Papa è stato molto atteso qui, dalla piccola comunità dei cattolici che si trova nella capitale azera. La Messa ha avuto un carattere molto familiare, possiamo dire: come se fosse la Messa in una parrocchia, dove arriva il vescovo. Il Papa ha pronunciato l’omelia, ma le parole più di cuore sono uscite alla fine della Messa. Paragonando un po’ questo suo incontro a ciò che è avvenuto duemila anni fa nel Cenacolo, dove anche in modo inaspettato lo Spirito Santo è sceso sui primi apostoli, il Papa ha spiegato perché vada tanto lontano da Roma per incontrare una comunità così piccola: perché proprio così è iniziata la Chiesa.

D. – Come la comunità cattolica ha accolto Papa Francesco?

R. – La comunità cattolica è molto differenziata. Pluriforme, possiamo dire; multilingue, multiculturale. Ci sono pochi cattolici azeri. Nella chiesa – mi hanno detto gli organizzatori – c’erano una ventina di persone che parlavano veramente azero. Gli altri sono cattolici che provengono da molti Paesi. Io personalmente ho visto persone che vengono dal Pakistan, molti dall’India, da diverse parti dell’Europa: per loro, naturalmente, è stata una grande emozione accogliere il Papa, vedere il Papa qui, in Azerbaigian, in modo così inaspettato.

D. – La visita in Azerbaigian: quale messaggio porterà?

R. – Questa visita ha molte dimensioni. Prima di tutto, il Papa viene per rafforzare la Chiesa, per parlare alla Chiesa cattolica, a questo piccolo gregge come lui stesso l’ha definito; ma il Papa viene anche per incontrare un Paese dove si incrociano diverse culture e religioni che devono coesistere. Lo stesso fatto che il Papa è accolto dal Grande Sceicco del Caucaso e da esponenti di diverse religioni e altre confessioni, è molto significativo. L’Azerbaigian vuole essere, vuole presentarsi come un Paese tollerante, un Paese aperto al dialogo e certamente la visita del Papa in un certo senso conferma questo: che questo Paese è luogo di incontro di genti di diverse culture e religioni che sanno parlare tra di loro, che sanno dialogare e sanno vivere insieme.

D. – Quale immagine colpisce di questo viaggio in Azerbaigian?

R. – Soprattutto, l’immagine di un Paese accogliente che aspettava il Papa, che lo ha ricevuto con tutti gli onori. Questo evento, della venuta del Papa, ha veramente una dimensione storica. Tutti ricordano ancora molto bene la visita di Giovanni Paolo II; anche Papa Francesco, nel suo intervento alla fine della Messa, ha rievocato questa visita. Da questa visita di Giovanni Paolo II, praticamente, la comunità cattolica in Azerbaigian è rinata. Adesso ha dei suoi problemi, ma ha anche piccole gioie: sono piccoli segni di gioia, di speranza che il Papa, con la sua visita, certamente rafforza.

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Papa: in atto guerra mondiale contro il matrimonio, gender è grande nemico

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"Si deve fare di tutto per salvare il matrimonio”. E’ l’invito che Papa Francesco ha rivolto nell’incontro con i sacerdoti, i religiosi e i rappresentanti dei Consigli pastorali nella Chiesa dell’Assunta di Tblisi, chiusa nel periodo sovietico e riconsacrata nel 1999. Forte, nel discorso, la denuncia contro la teoria del gender, mentre sono stati ribaditi il no al proselitismo e l’importanza della fede delle mamme e delle nonne. I particolari nel servizio di Debora Donnini

Un discorso decisamente pastorale è quello che Papa Francesco rivolge a consacrati e fedeli laici. Un discorso a braccio, che risponde in modo concreto a quattro interventi fatti in precedenza da un giovane, da una madre, un seminarista e un sacerdote: uno spaccato della Chiesa cattolica georgiana, una minoranza di circa il 2,5 per cento, composta da fedeli di rito latino, armeni e assiro-caldei.

Le tre regole d’oro del matrimonio e il gender
“Il matrimonio è la cosa più bella che Dio ha creato”, l’uomo e la donna che si fanno una carne sola sono l’immagine di Dio, dice il Papa rispondendo a Irina, madre di due figli, che si era soffermata sulle tante difficoltà che oggi i matrimoni incontrano. Assieme alle famiglie ortodosse si è travolti da problemi mondiali come “le nuove visioni della sessualità, come la teoria del gender”, aveva detto Irina. E Francesco nel discorso le risponde chiaramente su questo punto:

“Hai menzionato un grande nemico oggi del matrimonio: la teoria del gender. Oggi c’è una guerra mondiale per distruggere il matrimonio. Oggi ci sono -  ma non si distrugge con le armi, si distrugge con le idee - ci sono colonizzazioni ideologiche che distruggono. Pertanto, difendersi dalle colonizzazioni ideologiche".

Francesco coglie quindi l’occasione per sottolineare che “quando si divorzia una sola carne, sporca l’immagine di Dio”. “Paga Dio” e pagano i figli. “Quanto soffrono” i figli piccoli, quando vedono le liti e la separazione dei genitori, rileva il Papa che chiarisce quale sia, in questi casi, il compito della Chiesa:

“E come si aiutano le coppie? Si aiutano con l’accoglienza, la vicinanza, l’accompagnamento, il discernimento e l’integrazione nel corpo della Chiesa. Accogliere, accompagnare, discernere e integrare”.

E’ normale litigare, ma non si deve finire la giornata senza fare pace perché “la guerra del giorno dopo è pericolosissima”. Per far andare bene avanti il matrimonio, bisogna ricordare anche le tre “parole d’oro”: “Posso?”, “grazie” e “scusa”.

Il proselitismo: peccato contro l’ecumenismo
Centrale nel discorso del Papa anche l’ecumenismo. Il seminarista aveva infatti parlato di un cammino ecumenico “lento e difficile”. Con un amico ortodosso, sottolinea Francesco, bisogna essere aperti. Bisogna pregare e fare opere di carità insieme”, mai condannare:

“C’è un grosso peccato contro l’ecumenismo: il proselitismo. Mai si deve fare proselitismo con gli ortodossi! Sono fratelli e sorelle nostri, discepoli di Gesù Cristo. Per situazioni storiche tanto complesse siamo diventati così”.

La fede ha bisogno di memoria, coraggio e speranza
Il Papa parla della fede: per essere saldi “bisogna avere memoria del passato, coraggio nel presente e speranza nel futuro”. Esempio concreto della fede una donna venuta dalla Georgia in Armenia, per vedere il Papa, facendo 6-7 ore di bus. In particolare, Francesco chiede ai consacrati di “conservare la memoria della prima chiamata”:

“La perseveranza nella vocazione è radicata nella memoria di quella carezza che il Signore ci ha fatto e ci ha detto: ‘Vieni. Vieni con me’. E questo è quello che io consiglio a tutti voi consacrati: non tornare indietro, quando ci sono le difficoltà”.

Fondamentale la fede delle donne: la Chiesa è donna
Francesco chiede anche ai georgiani di difendersi “dalla mondanità”. Quindi ricorda la forte fede delle donne georgiane, le madri e le nonne che l’hanno trasmessa, specie nei momenti difficili. La Chiesa deve quindi essere madre e sposa, deve essere aperta:

“I vostri antichi monaci dicevano questo, sentite bene: ‘Quando ci sono le turbolenze spirituali, bisogna rifugiarsi sotto il manto della Santa Madre di Dio’. E Maria è il modello della Chiesa, è la mamma della donna, perché la Chiesa è donna e Maria è donna”.

Prima del discorso di Francesco, l’amministratore apostolico del Caucaso dei latini, mons. Giuseppe Pasotto, aveva messo in evidenza che quella della Georgia è una piccola Chiesa che ogni giorno fa un'esperienza di minoranza: un’opportunità, ma “qualche volta è proprio dura”, ha esclamato. Il rischio è di cadere nel pessimismo; il desiderio è quello di mostrare una Chiesa che non si stanchi di “costruire ponti” per la pace nel Caucaso.

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Papa nella Cattedrale ortodossa: ricomporre divisioni senza paure

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Ultimo appuntamento del viaggio del Papa in Georgia è stata la visita alla Cattedrale patriarcale ortodossa di Svetyskhoveli di Misketa, antica capitale del Paese a pochi chilometri da Tblisi. Un evento di grande intensità ecumenica. Il servizio di Sergio Centofanti:

Antichi canti in aramaico accompagnano l’abbraccio tra il Papa e il Patriarca Ilia. La cattedrale è davvero suggestiva, risalente al IV secolo e ricostruita nell’anno 1000, è il centro spirituale della Chiesa ortodossa georgiana. Secondo un’antica tradizione custodisce la Sacra Tunica di Gesù. E il Papa incentra il suo discorso proprio sul mistero di questa tunica «senza cuciture, tessuta tutta d’un pezzo da cima a fondo» (Gv 19,23), segno di quell’«unità che viene dall’alto, che viene cioè dal cielo e dal Padre, che non poteva essere assolutamente lacerata»:

“La sacra tunica, mistero di unità, ci esorta a provare grande dolore per le divisioni consumatesi tra i cristiani lungo la storia: sono delle vere e proprie lacerazioni inferte alla carne del Signore”.

L’invito del Papa è a non rassegnarsi alla divisione ma a “ricomporre le lacerazioni, animati da uno spirito di limpida fraternità cristiana”:

“Tutto ciò richiede un cammino certamente paziente, da coltivare con fiducia nell’altro e umiltà, ma senza paura e senza scoraggiarsi, bensì nella gioiosa certezza che la speranza cristiana ci fa pregustare. Essa ci sprona a credere che le contrapposizioni possono essere sanate e gli ostacoli rimossi, ci invita a non rinunciare mai alle occasioni di incontro e di dialogo, e a custodire e migliorare insieme quanto già esiste”.

Papa Francesco pensa “al dialogo in corso nella Commissione Mista Internazionale e ad altre proficue occasioni di scambio” non cessando di cercare l’unità “nonostante i nostri limiti e al di là di ogni successiva distinzione storica e culturale”:

“Siamo chiamati a essere «uno in Cristo Gesù» (Gal 3,28) e a non mettere al primo posto le disarmonie e le divisioni tra i battezzati, perché davvero è molto più ciò che ci unisce di ciò che ci divide”.

L’identità cristiana - afferma Papa Francesco - “si mantiene tale quando rimane ben fondata nella fede ed è al tempo stesso sempre aperta e disponibile, mai rigida o chiusa”. Custodire “la fedeltà alle proprie radici” – spiega – significa non cedere “alle chiusure che rendono oscura la vita”, e restare ben disposti ad accogliere e imparare “tutto ciò che è bello e vero”.

“Possano la fraternità e la collaborazione - conclude il Papa - crescere ad ogni livello; possano la preghiera e l’amore farci sempre più accogliere l’accorato desiderio del Signore su tutti quelli che credono in Lui mediante la parola degli Apostoli: che siano «una sola cosa» (cfr Gv 17,20-21)”.

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Georgia. L'abbraccio del Papa ai malati assistiti dai Camilliani

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Uno dei momenti più toccanti della seconda giornata di Papa Francesco in Georgia è stato l’incontro con assistiti e operatori delle Opere di carità della Chiesa Cattolica. Il Pontefice ha visitato il Centro di assistenza dei Camilliani, dove è stato accolto dal direttore dell’istituto e dalla direttrice di Caritas Georgia. A tutti il Pontefice ha rivolto il suo grazie e parole di incoraggiamento. Il servizio di Giancarlo La Vella

La tenera carezza del Papa ai più bisognosi di affetto, di comprensione e di assistenza: gli ammalati. Francesco ha espresso innanzitutto il suo grazie agli operatori e volontari che, attraverso il loro disinteressato impegno, esprimono in maniera eloquente l’amore per il prossimo, soprattutto quando soffre:

“La vostra attività è un cammino di collaborazione fraterna tra i cristiani di questo Paese e tra fedeli di diversi riti”.

Questo incontrarsi nel segno della carità evangelica - ha continuato il Papa - è testimonianza di comunione e favorisce il cammino dell’unità. Quindi l’incoraggiamento a proseguire su questa strada al servizio dei più indifesi della società:

“Le persone povere e deboli sono la ‘carne di Cristo’, che interpella i cristiani di ogni confessione, spronandoli ad agire senza interessi personali, ma unicamente seguendo la spinta dello Spirito Santo”.

Quindi il saluto particolare del Papa ad anziani, ammalati, sofferenti e agli assistiti dalle diverse realtà caritative:

“Dio non vi abbandona mai, vi è sempre vicino, pronto ad ascoltarvi, a darvi forza nei momenti di difficoltà. Voi siete prediletti da Gesù, che ha voluto immedesimarsi nelle persone sofferenti, soffrendo Egli stesso nella sua passione”.

Le iniziative della carità - ha concluso Papa Francesco - sono il frutto maturo di una Chiesa che serve, che offre speranza e che manifesta la misericordia di Dio. 

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La testimonianza delle religiose in Georgia

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Ha partecipato ieri all'incontro con il Papa nella Cattedrale di Santa Maria Assunta a Tbilisi anche suor Loredana Monetti, delle Piccole Figlie di San Giuseppe, insegnante e direttrice Caritas per la Georgia occidentale a Tbilisi da 10 anni. La sua testimonianza di religiosa al microfono di Gabriella Ceraso

R. – Sono arrivata nel 1996, quando c’erano ancora i segni della guerra. Nessuno poteva lavorare, chi poteva barattava le verdure che aveva nel suo orticello. Mi ricordo che si presentò una vecchietta a vendere il cucchiaino di argento per poter comprare il pane. Non c’era un pallone per far giocare i bambini. Era una Georgia proprio in ginocchio, in tutti i sensi. Questo fino al 2003. Poi con “la rivoluzione delle rose” e il cambiamento politico c’è stato un apparente sviluppo. Ora se vedo le case ristrutturate, le persone vestite meglio, qualche supermercato in più aperto, e un via vai di persone … certo sono tutti soldi che arrivano ma non per promuovere dal profondo il Paese.

D. - Cosa significa per un religioso vivere oggi in Georgia?

R. - I nostri cattolici sono messi alla prova in modo molto forte. C’è una difficoltà a mantenere la loro tradizione e poi c’è anche l’influsso dei mass media, dell’Europa e c’è anche una crisi di fede. Quindi la nostra presenza è di testimonianza: è uno stare accanto alle persone e cercare i modi per annunciare il Vangelo.

D. - Lei si occupa anche della scuola. Come vivono i giovani georgiani? Lo stile di vista, i pensieri, la formazione … Che futuro hanno?

R. - Io seguo un centro giovanile diurno; accogliamo i ragazzi dall’età di sette anni e li accompagniamo fino ai 15 anni. In questo centro cerchiamo di approfondire la cultura che ricevono a scuola e cerchiamo anche di promuovere la persona. Tra l’altro queste sono persone che si trovano in particolare difficoltà economiche e sociali; alcuni non hanno i genitori, altri vivono con i nonni … Però  è difficile accompagnarli in quanto non ci sono sbocchi; è difficile seminare speranza quando la società non offre futuro, come andare all’università, studiare, sognare di andare all’estero. C’è anche una crisi di fede. Pur essendo ragazzi ortodossi, c’è un abbandono.

D. - Segnali invece di speranza? Perché ci sono ragazzi impegnati che hanno quindi una voglia di ricostruire un Paese nuovo …

R. – Sì, ci sono ragazzi che hanno voglia di cambiare, però, non sono sostenuti, secondo me. Ci sono tante occasioni per quelli bravi, per quelli che vengono da buone famiglie, di migrare all’estero con borse di studio, però poi non tornano.

D. - Che cosa può venire dalla visita del Papa, anche da una sua parola per questa situazione?

R. - Io penso che i nostri cattolici, anche i nostri giovani non cattolici, sicuramente si aspettano dal Papa una parola di incoraggiamento ma anche una parola “forte” per chi è responsabile di questo Paese che sembra non aver gli occhi sulla gente, ma dà invece solo dei luccichii, come degli input perché la gente stia buona.

D. - Come vede il futuro della Chiesa lì in Georgia?

R. - Dopo venti anni vedo, purtroppo, le nostre piccole comunità - che erano già piccole – affievolirsi, un po’ perché molte persone sono migrate; gli anziani sono passati ad altra vita e i giovani sono molto combattuti. Ci sono altri problemi tra le due Chiese sorelle che hanno portato alla riduzione delle comunità cattoliche.

D. - Che cosa della vostra realtà vorrebbe mettere nel cuore del Papa?

R. - Vorrei che ci aiutasse in tutte queste sfide e che con la preghiera e con i fatti ci aiutasse con questa nostra Chiesa sorella per vivere nella serenità e nel dialogo.

Restare saldi nella fede, difendersi dalla mondanità affrontare i momenti bui della vita e aprire il cuore alla consolazione di Dio. Sono tanti i messaggi che il Papa lascia ai cattolici georgiani e in particolare ai religiosi. Come sono stati accolti e che cosa ha colpito della sua visita?  Gabriella Ceraso lo ha chiesto a suor Maria Grazia Puglisi, priora del Monastero di Clausura delle benedettine di Rabati che ha partecipato a tutti gli eventi: 

R. – Innanzitutto, nella Cattedrale ha esaltato la fortezza di per sé della donna, ma in particolare delle donne georgiane, per aver mantenuto la fede in questo popolo. Il Papa ricordava sempre di fare memoria del passato e parlando anche ai religiosi ha detto: “Non vi sgomentate, non siate tristi, siate sempre forti. Nel presente abbiate coraggio e nel futuro la speranza”.  Questo è stato molto bello. E dopo, la sua persona, che emana  veramente una luce che viene dal Signore: la sua fermezza, la sua dolcezza, la sua paternità. Questo, come persona. Abbiamo veramente guardato tanto questo aspetto della sua figura.

D. – Serve coraggio per essere un religioso in questa terra, come dice lei?

R. – La parola “coraggio” vuol dire cuore forte. E allora il Signore ha sempre detto ai discepoli, nei momenti di difficoltà: “Coraggio, ci sono io, non temete”. Coraggio, perché Dio è forte, Dio c’è, Dio ci aiuta. Quindi avere forza e prendere forza in Dio. Il Papa ne ha parlato nell’Eucaristia, nella Confessione, nella Comunione tra i fratelli. Dulcis in fundo, ha parlato di questa comunione con gli ortodossi, questo problema della mancanza di comunione che troviamo, e ha detto: “Andate avanti. Non dobbiamo fare proselitismo. Dobbiamo avere amore per questi fratelli e andare avanti, senza proselitismo”. Questo noi lo cerchiamo di fare nel nostro monastero, quando incontriamo gli ortodossi, che non ci dimostrano affabilità, amicizia o interesse. Noi andiamo avanti, salutando, per la nostra strada, con affetto.

D. – Quando il Papa parla di difendersi dalla mondanità, c’è anche qui il rischio? In che senso voi cogliete queste parole?

R. – Quello riguarda tutti: religiosi, non religiosi, laici. Tutti. Mondanità vuol dire cercare sempre qualcosa di più del Signore, cercare qualcosa che mi realizza. Quindi, Gesù non mi basta e cerco qualcosa di più: il cellulare migliore; il computer migliore. Questo è l’errore. Perché? Perché non mi fido, non conosco pienamente il Signore, non mi abbandono pienamente in Lui. E invece no, un religioso è col Signore e nelle cadute si rialza, si confessa e va avanti, perché la vita eterna esiste, il Signore esiste, il Signore è buono.

D. – E cosa lascia, secondo lei, alla realtà cattolica georgiana questa visita?

R. – Prima di tutto, penso che il Papa lasci la sua presenza di pace, di essenzialità e di umiltà. Oggi c’è bisogno di vivere in questa realtà con molta umiltà e con spirito di servizio. Ecco, lascia questa sua presenza che accoglie tutti. E’ una persona molto pratica e la sua presenza credo sia un’eco molto grande in questa terra benedetta da Dio e bagnata dal sangue di tanti martiri.

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Oggi in Primo Piano



Colombia, referendum per la pace. Forti i dubbi sul risultato

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Colombia al voto questa domenica per un referendum che dovrà confermare gli accordi di pace tra governo e guerriglieri delle Farc firmati il 26 settembre scorso con  la mediazione del presidente cubano Raul Castro. Milioni di colombiani con il loro sì o il loro no decideranno se nel Paese le armi dovranno tacere definitivamente. La Colombia ha attraversato un conflitto lungo mezzo secolo, con oltre 220mila morti, 45mila desaparecidos e milioni di sfollati, la voglia di pace è immensa, eppure la vittoria del ‘sì ‘non è così scontata, come spiega, al microfono di Francesca Sabatinelli, Jairo Agudelo Taborda, docente di Relazioni Internazionale all’Università do Norte a Barranquilla, nella Regione dei Caraibi della Colombia: 

R. – Purtroppo, non è così scontato. Stando alle proiezioni di voto, benché ci sia un decisivo orientamento verso il “sì”, tuttavia c’è sempre il rischio di uno scivolone perché c’è un margine di un “sì” al 50%, un “no” tra il 35 e il 40% e un dieci per cento di incerti, ancora. Io spero che ci sia un 60/40: deve trionfare il “sì”, ma non ci dev’essere dubbio sulla volontà del “sì” dei colombiani. Qualsiasi risultato con uno strettissimo margine, comporterebbe una pericolosa polarizzazione della società. Ci dev’essere un “sì” netto.

D. – Perché, professore, questo “no”? Quali sono i motivi?

R. – Vanno cercati a monte. Questa società è stata abituata a fare politica prevalentemente con la violenza. Cioè, è stata imposta dall’alto, da quando lo Stato nazionale colombiano si è costituito come tale nel 1810. I due partiti che sono nati allora, hanno fatto la politica con le armi. Questa è una delle caratteristiche strutturali dello Stato nazionale colombiano. Non perché i colombiani siano portati geneticamente alla violenza: questo no. E’ che ci è capitata una borghesia tra le più miopi del mondo, che non ha mai consentito le riforme per via pacifica e quindi ha abituato i colombiani all’uso delle armi come strumento preferito per fare politica. Quindi, è quasi imposta l’eliminazione violenta dell’avversario politico e questo inserisce nella mentalità media del colombiano l’idea non della giustizia, ma della vendetta. Quelli del “no” sono una categoria che è stata incrementata e nutrita da un partito politico che ha sempre predicato la vendetta al di sopra della giustizia: il partito dell’ex presidente Uribe che ha fatto del suo periodo di governo una cultura della vendetta. Hanno convinto una parte delle vittime con una storia raccontata con degli slogan, senza argomenti, senza contenuti, senza confronti, che qui si sta concedendo l’impunità agli stragisti della guerriglia, dimenticando che i massacratori non sono stati solo della guerriglia: ci sono stati massacratori della guerriglia, dei paramilitari e anche da parte dello Stato! Quindi, la cosa più sbalorditiva è che, in genere, in tutte le società che hanno vissuto la violenza, le guerre civili, è la popolazione civile che chiede alle forze ribelli e al governo di trattare e negoziare la pace. Qui, invece, è il contrario: i gruppi in ostilità – il governo, l’esercito e le guerriglie – hanno già firmato un accordo di pace ed è una parte della società civile che sta dicendo “no” a questo accordo. Questo è impensabile!

D. – Dopo oltre 50 anni di guerra e oltre 200 mila morti, più di sei milioni di colombiani sfollati, è strano che tutte queste persone preferiscano dire il loro “no” perché credono a pura e semplice propaganda …

R. – C’è un altro dato di fatto. E’ il racconto che, qualora vincesse il “no”, loro sarebbero in grado di costringere le Farc a rinegoziare l’accordo. Questa è una menzogna! Le stesse Farc, ufficialmente, hanno riconfermato che qualora vincesse il “no”, oggi, loro domani tornerebbero nelle montagne ad impugnare le armi contro lo Stato colombiano. Noi, dalle università, abbiamo fatto una campagna di pedagogia smontando questo mito: non è vero che qualora vincesse il “no”, domani si aprirebbe un’altra trattativa, perché non si può fare una trattativa senza l’interlocutore, e l’interlocutore ha già detto di no. Noi siamo convinti che vincerà il “sì” e mi auguro che sia – come dicevo prima – un “sì” netto: sarebbe difficilissimo implementare l’accordo con un 40-45% di colombiani che non lo accettano.

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Ungheria: referendum sul ricollocamento dei migranti

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Ungheria al voto per il discusso referendum sul ricollocamento dei migranti in base alle quote previste dall’Unione Europea. La consultazione è stata fortemente voluta dal premier conservatore  Viktor Orban in polemica con le politiche europee. Favorito il “no” all’immigrazione anche se si teme il mancato raggiungimento del quorum del 50% dei votanti. Alle ore 12 hanno votato il 16% degli elettori. Il servizio di Michele Raviart: 

Il futuro dei 1.294 migranti che per l’Unione Europea dovrebbero essere ricollocati in Ungheria passa per il voto di oltre 8 milioni di persone. Convocati dal premier Orban, i cittadini ungheresi dovranno decidere se sia legittimo o meno che l’Ue “decida quote di ripartizione di migranti tra i suoi Stati membri, senza prima ascoltare governi e parlamenti a sovranità nazionale”. Una domanda che attacca direttamente Bruxelles e alla quale si prevede che oltre l’80% dei votanti risponderà “no”. Da valutare invece se si raggiungerà il quorum del 50% necessario per convalidare il referendum secondo la legge ungherese. Lo stesso Orban ha dichiarato che la consultazione avrà comunque delle conseguenze giuridiche, tra cui una possibile modifica delle Costituzione in senso anti-europeo. Sebbene il referendum non abbia valore ai sensi dei trattati europei, a Bruxelles si teme che possa comunque aumentare l’ondata di risentimento populista contro l’Unione. Nei giorni scorsi il commissario europeo alle migrazioni Dimitris Avramopoulos aveva specificato come le quote decise siano ormai vincolanti e che l’esito del referendum ungherese potrebbe essere considerato solo “per il futuro”.  I socialisti hanno invitato a boicottare il voto, mentre il Partito Popolare apre al concetto di “solidarietà flessibile” tra gli Stati membri. Tra i principali timori c’è che il “no” alle quote possa bloccare la riforma sul regolamento di Dublino al diritto d’asilo promosso dalla Commissione.

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Regno Unito: annunciata la "Brexit" entro il marzo 2017

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La Gran Bretagna chiederà ufficialmente l’uscita dall’Unione Europea prima del marzo 2017. Lo ha annunciato il premier britannico Theresa May in un’intervista alla Bbc.  Entro quella data sarà sottoposta al Parlamento l’abrogazione dell’”European Community Act” del 1972, che regola i rapporti tra Londra e Bruxelles. L’argomento sarà all’ordine del giorno a partire da domani, quando si riunirà il partito conservatore e il tema sarà affrontato anche dalla regina Elisabetta nel prossimo discorso ufficiale. La richiesta dell’applicazione dell’art.50 dei Trattati europei, che disciplina l’uscita degli Stati Membri dall’Unione, avverrà quindi prima delle elezioni tedesche del settembre 2017, ha ribadito May, che ha poi escluso elezioni anticipate nel Regno Unito. Porterebbero “instabilità” al Paese, ha commentato. (M.R.)

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Gandolfini: "efficacissimo" intervento del Papa contro il gender

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Il Papa in Georgia ha usato parole molto forti contro l'ideologia gender, affermando che è un grande nemico del matrimonio. Oggi - ha detto - c'è una guerra mondiale delle idee contro il matrimonio, si tratta di colonizzazioni ideologiche da cui bisogna difendersi. Su queste parole Eugenio Murrali ha raccolto il commento di Massimo Gandolfini, promotore del Family Day: 

R. – Il Santo Padre ieri ha riaffermato quello che dall’inizio del suo Pontificato sta dichiarando, cioè la terribile pericolosità dell’ideologia di gender. L’aveva definita in passato “uno sbaglio della mente umana” e ieri ha ribadito un altro efficacissimo concetto, che è quello della “colonizzazione ideologica”. Il gender sta invadendo la nostra società, soprattutto – e questo è ancora più pericoloso – si sta tentando anche in Italia di introdurre l’ideologia del gender con percorsi educativi all’interno della scuola, il che vuol dire che le vittime sono i bambini, gli adolescenti, i giovani, quindi le persone che sono meno attrezzate per poterlo comprendere e contrastare. E poi, efficacissimo, veramente provvidenziale, è stato che il Santo Padre abbia voluto legare questa ideologia alla fattispecie del matrimonio. Anche noi da sempre diciamo che il gender è una vera e propria bomba atomica messa nel cuore della famiglia.

D. – C’è chi dice che la teoria del gender sia una montatura, che non esista …

R. – Chiunque continui a sostenere una cosa di questo genere, le possibilità che ha per sostenerla sono due: o è in malafede oppure è ignorante. Perché l’ideologia di gender ha delle basi filosofiche profondissime: nasce agli inizi degli anni Cinquanta, si fortifica negli anni Settanta-Ottanta e poi si radicalizza ai nostri giorni e ha quindi autori, sociologi, psicologi, medici, filosofi che hanno contribuito a costruirla. Tante volte viene utilizzato l’escamotage di dire: “Il gender non esiste; esistono gli studi di genere”, i “gender studies”, alla fine degli anni Settanta-inizio anni Ottanta negli Stati Uniti. Va subito detto con chiarezza che si tratta sì di due cose diverse, ma i “gender studies” nati come tentativo di risolvere la disuguaglianza di dignità e di diritti che esisteva tra l’uomo e la donna – tentativo sacrosanto, soprattutto in quegli anni – è diventato progressivamente la fucina di ulteriore implementazione dell’ideologia di gender. Perché si è poi arrivati a dire che non si trattava soltanto di emancipare la donna rispetto a una condizione di subordinazione, come era in quegli anni, rispetto all’uomo. Ma si trattava di poter mettere a disposizione categorie di appartenenza di genere diverse. E si passa così dall’idea, che è basata su tutta la storia antropologica dell’uomo, che esistono due generi, perché esistono due sessi, all’idea che esistono due sessi in ambito medico-biologico, e che i generi di appartenenza – essendo motivati dalla libera scelta e dal desiderio del soggetto – sono diventati progressivamente quattro, sette, otto, dieci: oggi siamo a 58 generi diversi.

D. – Il fatto che si neghi l’esistenza di una teoria, in fondo non significa anche che si neghi la bontà di questa stessa teoria?

R. – Chi sta portando avanti una strategia di infezione di questo virus del genere da parte di tutta la società, ha tutto il vantaggio di tentare di rimanere nascosto. E’ come un virus: finché noi non l’abbiamo isolato, non abbiamo neanche il vaccino per cercare di contrastarlo.

D. – C’è chi sostiene che questi messaggi che passano anche ai bambini, e che la Chiesa cattolica considera frutto della teoria gender, siano in realtà parte di una lotta contro il bullismo omofobico e la discriminazione. Ma c’è una maniera diversa di far passare, appunto, messaggi contro il bullismo e la discriminazione?

R. – Questo è un concetto importantissimo: combattere contro ogni forma di violenza, di discriminazione, di violenza sia fisica che verbale, nei confronti di chicchessia, è chiaro che è uno dei capisaldi di una società che vuole mantenersi civile. Per cui, dobbiamo mettere in atto tutte le strategie educative che possono arrivare a eliminare ogni forma di violenza, di femminicidio, di discriminazione. Ma per far questo, non è assolutamente necessario, anzi, diventa ideologico, utilizzare una ideologia stessa. Le persone vanno tutelate e protette, ma soprattutto vanno rispettate nella loro dignità, per il fatto che sono persone, indipendentemente dalla qualità che la persone in quel momento possa esprimere. E per far questo, bisogna fare riferimento – almeno per quanto riguarda la nostra nazione, il nostro Paese – alla Carta costituzionale. Quindi, bisogna creare all’interno delle scuole dei percorsi di educazione civica, affinché si insegni ai ragazzi e li si aiuti a capire che l’articolo 3 della Costituzione dichiara che nessuno può essere discriminato per "condizioni personali e sociali”. Nelle condizioni personali ci sta dentro tutto. Usare questo come se fosse una specie di sommergibile, invisibile alla stragrande maggioranza dei genitori, che non si rendono conto di quanto stia accadendo nella scuola, in maniera da poter portare nel porto della società e della famiglia delle bombe atomiche da far scoppiare, utilizzando l’idea della lotta al bullismo, e introdurre invece l’indifferentismo, l’orientamento di genere, l’identità di sé, è chiaro che è una strategia con cui, in maniera nascosta, si vuole veicolare un messaggio ben diverso.

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Loppianolab: frutti e prospettive dell’Economia di Comunione

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Si chiude oggi presso il Centro internazionale del Movimento dei Focolari vicino a Firenze, la manifestazione Loppianolab sul tema: “La povertà delle ricchezze e la ricchezza delle povertà”. Obiettivo: mettere in risalto risorse e buone pratiche esistenti in Italia in ambito socio-politico,  economico, culturale e educativo.  Al centro della giornata conclusiva, l’esperienza, i frutti e le prospettive dell’Economia di Comunione nata 25 anni fa all’interno del Movimento. Il servizio di Adriana Masotti

E’ la cultura del noi la proposta di LoppianoLab: che si parli, come si è fatto (attraverso tavole rotonde, focus, racconti di vita vissuta o performans artistiche,) di povertà e periferie, di famiglia e educazione,  di imprese e lavoro, o ancora del rapporto con l’Islam in Italia e dei rifugiati, la questione delle relazioni è sempre centrale.  Sono le relazioni, infatti, il dialogo con tutti, che possono costruire una società rinnovata e un’autentica felicità. Lo ricorda l’economista Leonardo Becchetti quando dice: “Occorre un cambio di prospettiva per saper vedere che  la ricchezza dei nostri territori  è la forza dei legami umani. Questa genera riscatto, umanità, benessere, ”. O quando afferma che oggi  è tempo di scoprire che l’altro è un’opportunità sociale ed economica secondo la formula 1 più 1 fa 3.  Molte le iniziative presentate di ricostruzione di persone e comunità, così come l’impegno delle tante associazioni  che si prendono cura ogni giorno delle aree più fragili del Paese o alcune buone prassi come quella nella provincia di Trento dove la sinergia tra istituzione e società civile  rappresenta un modello vincente di fronte all’emergenza profughi, di cui ha parlato Lucia Fronza, formatrice politica. La nostra identità essenziale è  quella umana, ha affermato la teologa musulmana Shahrzad Houshmand, è il momento in cui cristiani e islamici dobbiamo sentirci tutti fratelli e collaborare insieme per vincere il male”. L’esperienza più che trentennale del Centro La Pira di Firenze conferma che una società veramente integrata si costruisce solo con rapporti quotidiani di amicizia concreta. Oggi il focus sui 25 anni dell’ Economia di Comunione, un’economia solidale con i poveri e che agisce nella prospettiva dell’unità, con, tra gli altri, l’economista Stefano Zamagni. Noi siamo nati per essere uniti, ha cantato ieri sera il Gruppo artistico Gen Verde suggerendo di guardare la realtà con lo sguardo dell’altro.

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Festa dei nonni: rilanciare il dialogo tra generazioni

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Questa domenica si celebra la Festa dei nonni, un momento per ribadire l’importanza del ruolo degli anziani all’interno delle famiglie e della società in generale. I nonni vengono ricordati in tutta Italia con numerose iniziative. Il tema di quest’anno, “NonTiScordarDiMe”, mira a promuovere un maggior dialogo intergenerazionale, preservando ricordi, affetti e tradizioni. Andrea Walton ha parlato di questo appuntamento con Graziella Morello, presidente dell’Associazione nazionale nonni: 

R. - La Festa dei Nonni ufficialmente è nata nel 2005, in concomitanza con la mia Associazione che era nata un paio di anni prima. Essendo la mia una delle prime associazioni che si occupavano di nonni in tutta Italia, avevo fatto qualcosa per far sì che nascesse questa festa e il motivo è questo: io ritengo che i nonni rappresentino di un albero le radici. Perché allora non dare più valore a questa figura dati i tempi e questo periodo storico di forte transizione sociale e soprattutto culturale, con la tecnologia che velocizza tutto. I nonni aiutano e contribuiscono culturalmente magari a contrastare quello che io chiamo “possibile degrado umano”. I nonni possono, con il loro contributo culturale, dare forza e aiuto ai genitori che devono educare le nuove generazioni, coloro che saranno i cittadini di domani. Definiscono i nonni “detentori della memoria storica di una famiglia”.

D. – Quanto è importante il ruolo dei nonni nelle famiglie italiane, in particolar modo al giorno d’oggi?

R. – Purtroppo oggi sono importanti anche sul piano economico, perché le giovani coppie devono allevare i figli, con il caro vita che è sempre purtroppo in aumento e magari una cassa integrazione o un improvviso licenziamento: di difficoltà economiche oggi ce ne sono veramente tantissime e di varia natura. I nonni con le loro piccole pensioncine possono rappresentare un appoggio; magari piccolo, però un appoggio che c’è. E questo, qualche volta, dà anche un po’ di sicurezza.

D. – Cosa può fare la politica per aiutare gli anziani nella società di oggi?

R. – La politica purtroppo è presa, forse, da altri obiettivi… Secondo me, ci sono politici un po’ miopi, che non sono cioè interessati a quello che sarà anche il loro domani, perché tutti invecchiamo e quindi anche i politici e anzi alcuni politici sono già di una certa età… Dovrebbero capire che gli anziani andrebbero tutelati proprio sotto il profilo della sanità e questo a beneficio, poi, di tutta la famiglia.

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Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LX no. 276

E' possibile ricevere gratuitamente, via posta elettronica, l'edizione quotidiana del Bollettino del Radiogiornale. La richiesta può essere effettuata sul sito http://it.radiovaticana.va

Segreteria di redazione: Gloria Fontana, Mara Gentili, Anna Poce e Beatrice Filibeck, con la collaborazione di Barbara Innocenti e Serena Marini.