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Sommario del 29/01/2016

Il Papa e la Santa Sede

Oggi in Primo Piano

Nella Chiesa e nel mondo

Il Papa e la Santa Sede



Papa Francesco: Europa rischia di perdere spirito umanistico

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In una Europa che rischia di perdere il suo spirito umanistico, la Chiesa sia sempre più fondata sulla misericordia di Cristo e mossa dallo Spirito che la rinnova: è questo, in sintesi, quanto ha detto Papa Francesco ai membri della Congregazione per la Dottrina della Fede a conclusione della loro plenaria. Il saluto al Pontefice è stato rivolto dal cardinale Gerhard Ludwig Müller, prefetto del Dicastero. Il servizio di Sergio Centofanti

La prima verità della Chiesa è l’amore di Cristo
“La misericordia – ha affermato Papa Francesco - costituisce l’architrave che sorregge la vita della Chiesa: la prima verità della Chiesa, infatti, è l’amore di Cristo”. Occorre, dunque, rimettere al centro, durante il Giubileo, le opere di misericordia corporale e spirituale che – ha precisato a braccio – non sono “una devozione” ma “la concretezza di come i cristiani devono portare avanti lo spirito di misericordia”. Anche nella Chiesa sono state dimenticate - ha detto - e dobbiamo riprendere a insegnarle:

“E quando, alla sera della vita, ci sarà chiesto se avremo dato da mangiare a chi ha fame e da bere a chi ha sete, ugualmente ci sarà domandato se avremo aiutato le persone a uscire dal dubbio, se ci saremo impegnati ad accogliere i peccatori, ammonendoli o correggendoli, se saremo stati capaci di combattere l’ignoranza, soprattutto quella riguardante la fede cristiana e la vita buona”.

La fede non è solo conoscenza, ma verità da vivere
“La misericordia effettiva di Dio – ha sottolineato il Papa - è diventata, in Gesù, misericordia affettiva, essendosi Egli fatto uomo per la salvezza degli uomini”. Il compito affidato al Dicastero per la Dottrina della Fede, “trova qui il suo ultimo fondamento e la sua giustificazione adeguata”:

“La fede cristiana, infatti, non è solo conoscenza da conservare nella memoria, ma verità da vivere nell’amore. Perciò, insieme alla dottrina della fede, bisogna custodire anche l’integrità dei costumi, particolarmente negli ambiti più delicati della vita. L’adesione di fede alla persona di Cristo implica sia l’atto della ragione sia la risposta morale al suo dono. A questo riguardo, vi ringrazio per tutto l’impegno e la responsabilità che esercitate nel trattare i casi di abuso di minori da parte di chierici”.

Europa rischia di perdere spirito umanistico che pure ama e difende
La cura per l’integrità della fede e dei costumi “è un compito delicato” – ha aggiunto – che richiede “un impegno collegiale”, valorizzando anche il contributo dei Consultori e dei Commissari. In questo senso, “occorre promuovere, a tutti i livelli della vita ecclesiale, la giusta sinodalità”. Il Papa ricorda come l’anno scorso sia stata organizzata una riunione con i rappresentanti delle Commissioni dottrinali delle Conferenze Episcopali europee, “per affrontare collegialmente alcune sfide dottrinali e pastorali”:

“In questo modo contribuite a suscitare nei fedeli un nuovo slancio missionario e una maggiore apertura alla dimensione trascendente della vita, senza la quale l’Europa rischia di perdere quello spirito umanistico che pure ama e difende. Vi invito a continuare e intensificare la collaborazione con tali organi consultivi che aiutano le Conferenze Episcopali e i singoli Vescovi nella loro sollecitudine per la sana dottrina, in un tempo di cambiamenti rapidi e di crescente complessità delle problematiche”.

Una Chiesa “mossa dallo Spirito” che si lascia “rinnovare in ogni tempo
Altro importante apporto offerto dal Dicastero al rinnovamento della vita ecclesiale – ha aggiunto il Papa – “è lo studio circa la complementarietà tra doni gerarchici e carismatici”. L’armonia di “unità e pluriformità” è il sigillo di una Chiesa che, “mossa dallo Spirito” si lascia “rinnovare in ogni tempo” secondo “quelle mete che il Signore Risorto le indica nel corso della storia”:

“Secondo la logica dell’unità nella legittima differenza – logica che caratterizza ogni autentica forma di comunione nel Popolo di Dio –, doni gerarchici e carismatici sono chiamati a collaborare in sinergia per il bene della Chiesa e del mondo. La testimonianza di questa complementarietà è oggi quanto mai urgente e rappresenta una espressione eloquente di quella ordinata pluriformità che connota ogni tessuto ecclesiale, quale riflesso della armoniosa comunione che vive nel cuore del Dio Uno e Trino”.

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Papa: debolezza fa peccare, ma non trasformiamoci in corrotti

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Preghiamo Dio perché la debolezza che ci induce a peccare non si trasformi mai in corruzione. A questo tema tante volte affrontato, Papa Francesco ha dedicato l’omelia della Messa del mattino, celebrata in Casa Santa Marta. Il Papa ha narrato la storia biblica di Davide e Betsabea, sottolineando come il demonio induca i corrotti a non sentire, diversamente da altri peccatori, il bisogno del perdono di Dio. Il servizio di Alessandro De Carolis

Si può peccare in tanti modi e per tutto si può chiedere sinceramente a Dio perdono e senza alcun dubbio sapere che quel perdono sarà ottenuto. Il problema nasce con i corrotti. La cosa pessima di un corrotto, torna a ripetere ancora una volta Papa Francesco, è che “un corrotto non ha bisogno di chiedere perdono”, perché gli basta il potere su cui poggia la sua corruzione.

Dio non mi serve
È il comportamento che il re Davide assume quando si innamora di Betsabea, moglie di un suo ufficiale, Uria, che sta combattendo lontano. Il Papa ripercorre, citando anche i passi omessi per brevità, la vicenda narrata dalla Bibbia. Dopo aver sedotto la donna e aver saputo che è incinta, Davide architetta un piano per coprire l’adulterio. Richiama dal fronte Uria e gli offre di andare a casa a riposarsi. Uria, uomo leale, non se la sente di andare a stare da sua moglie mentre i suoi uomini muoiono in battaglia. Allora, Davide ritenta stavolta facendolo ubriacare, ma neanche questa mossa funziona:

“Questo ha messo un po’ in difficoltà Davide, ma lui disse: ‘Ma no, io ce la faccio…’. E ha fatto una lettera, come abbiamo sentito: ‘Ponete Uria a capitano, sul fronte della battaglia più dura, poi ritiratevi da lui, perché resti colpito e muoia'. La condanna a morte. Quest’uomo, fedele - fedele alla legge, fedele al suo popolo, fedele al suo re – porta con sé la condanna a morte”.

La “sicurezza” della corruzione
“Davide è santo ma anche peccatore”. Cade nella lussuria eppure, considera Francesco, Dio gli voleva “tanto bene”. Tuttavia, osserva, “il grande, il nobile Davide” si sente così “sicuro – “perché il regno era forte” – che dopo aver commesso adulterio muove tutte le leve a sua disposizione pur di sistemare la cosa, sia pure in modo menzognero, fino a ordire e ordinare l’assassinio di un uomo leale, facendolo passare per una disgrazia di guerra:

“Questo è un momento nella vita di Davide che ci fa vedere un momento per il quale tutti noi possiamo andare nella nostra vita: è il passaggio dal peccato alla corruzione. Qui Davide incomincia, fa il primo passo verso la corruzione. Ha il potere, ha la forza. E per questo la corruzione è un peccato più facile per tutti noi che abbiamo qualche potere, sia potere ecclesiastico, religioso, economico, politico… Perché il diavolo ci fa sentire sicuri: ‘Ce la faccio io’”.

“Peccatori sì, corrotti mai”
La corruzione – dalla quale poi per grazia di Dio Davide si riscatterà – ha intaccato il cuore di quel “ragazzo coraggioso” che aveva affrontato il filisteo con la fionda e cinque pietre. “Io vorrei oggi sottolineare solo questo”, conclude Francesco: c’è “un momento dove l’abitudine del peccato o un momento dove la nostra situazione è tanto sicura e siamo ben visti e abbiamo tanto potere” che il peccato smette “di essere peccato” e diventa “corruzione”:

"Il Signore sempre perdona. Ma una delle cose più brutte che ha la corruzione è che il corrotto non ha bisogno di chiedere perdono, non se la sente... Facciamo oggi una preghiera per la Chiesa, incominciando da noi, per il Papa, per i vescovi, per i sacerdoti, per i consacrati, per i fedeli laici: ‘Ma, Signore, salvaci, salvaci dalla corruzione. Peccatori sì, Signore, siamo tutti, ma corrotti mai!’. Chiediamo questa grazia”.

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Udienze e nomine di Papa Francesco

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Il Santo Padre Francesco ha ricevuto questa mattina in Udienza card. Domenico Calcagno, Presidente dell’Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica; card. Stanisław Ryłko, Presidente del Pontificio Consiglio per i Laici; mons. Luciano Suriani, Arcivescovo tit. di Amiterno, Nunzio Apostolico in Serbia.

In Italia, Francesco ha accettato la rinuncia al governo pastorale della diocesi di Andria, presentata da mons. Raffaele Calabro, per sopraggiunti limiti d’età. Il Papa ha nominato Vescovo di Andria mons. Luigi Mansi, del clero della diocesi di Cerignola-Ascoli Satriano, finora Presidente Nazionale dell’Unione Apostolica del Clero.

Il Papa ha nominato Vescovo titolare di Luperciana padre Miguel Ángel Ayuso Guixot, M.C.C.J., Segretario del Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso.

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Spoglie Padre Pio e San Mandić a Roma, attesa per missionari misericordia

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L’invio dei Missionari della Misericordia e la traslazione temporanea a Roma delle spoglie di San Pio da Pietrelcina e di San Leopoldo Mandić sono stati al centro della conferenza alla Sala Stampa vaticana per fare il punto sulle prossime iniziative del Giubileo. Ad illustrare questi due eventi il presidente del Pontificio Consiglio per la Nuova Evangelizzazione mons. Rino Fisichella. Il presule ha inoltre reso noto che finora hanno preso parte agli eventi giubilari circa 1,4 milioni di persone, il 40 per cento proveniente dall’estero. Domani, la prima udienza generale del sabato per il Giubileo. Il servizio di Alessandro Gisotti

Due eventi particolari, occasione per vivere con intensità il significato più profondo del Giubileo della Misericordia, voluto da Papa Francesco. E’ quanto sottolineato da mons. Fisichella nell’illustrare l’invio dei Missionari della Misericordia e la traslazione a Roma delle spoglie di padre Pio e San Leopoldo Mandić.

Padre Pio e Leopoldo Mandić, Santi del perdono e della misericordia
Il presule ha ricordato la particolare devozione del Pontefice per il cappuccino di origine croata che, proprio come Padre Pio da Pietrelcina, passava la maggior parte della giornata nel Confessionale dove migliaia di persone trovavano nel rapporto con lui “la testimonianza privilegiata del perdono e della misericordia”. Mons. Fisichella:

“Alcuni suoi confratelli dicevano che era ignorante e di manica troppo larga, che assolveva tutti senza discernimento. La sua risposta semplice e umile lasciava però senza parole: 'Se il Crocefisso mi avesse a rimproverare della manica larga, gli risponderei: questo cattivo esempio, Signore, me lo avete dato voi. Io non sono ancora giunto alla follia di morire per le anime'”.

Dal 5 all’11 febbraio le reliquie dei Santi nella Basilica petrina
Mons. Fisichella ha dunque illustrato il programma della traslazione delle reliquie dei due Santi – in urne visibili – che arriveranno a Roma il 3 febbraio e saranno collocate nella Chiesa di San Lorenzo fuori le Mura. Quindi il 5 febbraio, dopo una processione in via della Conciliazione dove sono attese migliaia di fedeli, saranno collocate nella navata centrale della Basilica di San Pietro e potranno essere venerate fino alla mattina dell’11:

“E’ una primizia il fatto che due poveri frati, che non si sono mai mossi dai loro rispettivi Paesi in vita, abbiano poi a venire in maniera così solenne a Roma. Credo che sia veramente un evento straordinario”.

Quindi, ha reso noto che gruppi di preghiera di Padre Pio saranno ricevuti in un’udienza straordinaria del Papa il 6 febbraio.

Francesco darà mandato a 1071 missionari della misericordia
Il presidente del dicastero per la Nuova Evangelizzazione si è dunque soffermato sul mandato ai Missionari della Misericordia da parte di Papa Francesco che avverrà durante la celebrazione del Mercoledì delle Ceneri, il prossimo 10 febbraio. Si tratta di 1071 missionari, provenienti da Paesi di tutto il mondo, ai quali il Papa ha dato l’autorità di perdonare anche i peccati riservati alla Sede Apostolica. A Roma saranno presenti 700 di questi missionari che il Papa incontrerà il 9 febbraio per esprimere “quanto ha in cuore questa iniziativa che è certamente uno dei momenti più suggestivi e significativi del Giubileo della Misericordia”:

“I Missionari della misericordia, quindi, sono soltanto alcuni sacerdoti che ricevono l’incarico del Papa di essere testimoni privilegiati nelle loro singole Chiese della straordinarietà dell’evento giubilare. E’ solo il Papa che nomina questi Missionari, non i vescovi, e a loro affida il mandato di annunciare la bellezza della misericordia di Dio, ed essere confessori umili e sapienti, capaci di grande perdono per quanti si accostano alla Confessione”.

Il 22 febbraio il Giubileo della Curia con la Messa del Papa
Mons. Fisichella ha inoltre reso noto che il 22 febbraio si terrà il Giubileo della Curia: la celebrazione prevede una riflessione in Aula Paolo VI tenuta dal padre gesuita Marko Ivan Rupnik a cui seguirà una processione in Piazza San Pietro con il passaggio della Porta Santa e la celebrazione della Messa presieduta dal Pontefice. Il presule ha anche ricordato due segni che Francesco ha fatto come testimonianza concreta della misericordia: l’apertura della Porta Santa della carità all’Ostello Don Di Liegro e la visita agli anziani e ai malati in stato vegetativo lo scorso venerdì a Torre Spaccata, periferia di Roma:

“Questi segni hanno un valore simbolico dinanzi ai tanti bisogni che la società oggi presenta; intendono comunque provocare tutti a verificare le tante situazioni di disagio presenti nelle nostre città per offrire una piccola risposta di attenzione e di aiuto”.

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Immigrazione, Vegliò: "L'Europa è diventata troppo egoista"

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Non si arresta la strage di migranti nel Mar Mediterraneo: tante sono le vittime tra i bambini. Per l’Oim, l'Organizzazione internazionale per le migrazioni, nel 2016 sono stati già 244 i morti, soprattutto nell’Egeo. Intanto, in Europa continua il dibattito sui rimpatri. Il servizio di Michele Raviart:

La rotta più pericolosa per i migranti, denuncia l’Oim, è ormai quella tra Turchia e Grecia, dove dall’inizio dell’anno sono morte 218 persone, 38 ieri a largo dell’Isola di Samo, tra cui molti minori. Continuano anche gli sbarchi nel Canale di Sicilia, con la Guardia costiera italiana che nella notte ha recuperato 121 persone che viaggiavano su un gommone. Intanto dopo le decisioni di Svezia e Finlandia di rimpatriare chi non ha i requisiti per il diritto di asilo, l’Olanda ha raggiunto un accordo con l’Albania per far rientrare i migranti nel loro Paese d’origine, anche contro la loro volontà.“I rimpatri sono uno dei pilastri della politica migratoria europea”, ha già precisato la Commissione, ma il rischio è quello di mettere in discussione i valori storici dell’Europa, come spiega il cardinale Antonio Maria Vegliò, presidente del Pontificio Consiglio della Pastorale per i migranti e gli itineranti: 

R. – L’Europa ha perso lo smalto nelle sue qualità di accoglienza, di rispetto, di promozione umana. Si è chiusa troppo in se stessa, è diventata troppo egoista, e dà un’idea di un continente stanco. Qualsiasi cosa, quindi, che la tocchi o le dia un po’ fastidio, lei si chiude a riccio. Meravigliano anche i Paesi scandinavi, che per tradizione sono stati sempre molto accoglienti: la Svezia vuole rimandarne via 80 mila, e così la Finlandia; la Danimarca, poi, prende tutti i beni di questa gente. Non è una risposta europea quella che l’Europa sta dando.

D. – Perché, secondo lei, migranti e profughi sono considerati un fastidio, un pericolo?

R. – Perché siamo egoisti. Per i profughi c’è una maggiore sensibilità. Gli altri, però, vengono qui per stare meglio. Fanno di tutto per lasciare i loro Paesi e non li lasciano con gioia, per loro sono sacrifici: lasciare il proprio Paese, i propri amici, il proprio lavoro, se ce l’hanno; le famiglie si separano; si spendono tanti soldi. Bambini, donne, uomini in mezzo alla neve, al freddo, senza sapere dove andare, perché si costruiscono muri. E’ un problema l’immigrazione, certamente è un problema. L’Europa, infatti, non ha la capacità di assorbire questa massa di gente e nello stesso tempo non può nemmeno – soprattutto i profughi – cacciarli. Dove vanno, infatti?

D. – E’ possibile avere tutta questa diffidenza nei confronti dell’altro?

R. – E’ possibile purtroppo, perché c’è. Non è cristiano. L’uomo non solo fa le cose buone, fa anche le cose cattive. Se c’è una perdita del valore del denaro di un punto, tutti ne parlano, piuttosto che di 100 mila persone che sono per strada e non sanno dove andare. Il dio Mammona purtroppo è sempre molto forte.

D. – Purtroppo nel Mediterraneo si continua a morire. Abbiamo visto anche 38 morti nel Mar Egeo. Come si può sostenere questa situazione?

R. – Non si deve, non si può sostenere. Anche questo è un dramma: gente che vende, parte, lascia tutto, si imbarca in queste carrette del mare. Ci vuole un coraggio e una disperazione. Io spero che l’Europa abbia un sussulto di dignità, che ripensi a certe cose: la Slovenia, la Macedonia fanno i muri; l’Ungheria non li vuole proprio. Sono problemi grossi, ma l’Europa non deve affrontarli dicendo: “Via tutti da qui!” Deve pensare a delle soluzioni. Se fossero cristiane tanto meglio.

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Braz de Aviz: Anno Vita Consacrata, spinta a tornare a essenziale

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L’Anno della Vita Consacrata, con la Veglia di preghiera ieri sera in San Pietro, è entrato nella sua Settimana conclusiva. A Roma si svolge un incontro internazionale che riunisce tutte le forme di vita religiosa: sono presenti 6 mila consacrati giunti da tutto il mondo. Martedì 2 febbraio, alle 17.30, la Messa presieduta dal Papa nella Basilica Vaticana. Per un bilancio di quest’anno, Bianca Fraccalvieri ha intervistato il cardinale João Braz de Aviz, prefetto della Congregazione per gli Istituti di Vita Consacrata: 

R. – Penso che soprattutto dobbiamo dire che l’Anno della Vita Consacrata ha ridato a noi, a noi consacrati, il senso della gratitudine a Dio per la nostra vocazione. Cioè, quest’Anno della Vita Consacrata è veramente un grande dono: noi lo sentiamo come una spinta forte a ritornare all’essenziale e a vedere la vita consacrata come un dono che viene dall’alto, al servizio della Chiesa. E dopo, questa speranza nuova - che ha suscitato negli istituti, nei monasteri, nella vita degli istituti secolari, nell’Ordo virginum - di qualcosa di molto grande della Chiesa, che era un po’ nascosto e che adesso sta riprendendo di più la sua identità; e vedere che le forme storiche e le forme attuali non sono in contraddizione: sono complementari, una può aiutare l’altra. In questo senso, queste due grosse esperienze: la gratitudine e la speranza.

D. – C’è questo grande evento di conclusione, dal 28 gennaio al 2 febbraio: un evento per vivere la comunione dei carismi. Come è stato strutturato, questo evento?

R. – E’ una delle caratteristiche del nostro tempo, perché oggi pensare di camminare isolati non ha più senso; questo nel passato, forse, per identificarsi poteva andare bene, però oggi, con tutte le caratteristiche del mondo attuale, con la possibilità di comunicazione che abbiamo, con i mezzi che abbiamo noi dobbiamo arrivare veramente a camminare insieme per tutto quello che si può e dopo dare valore anche a quello che è distinto, che è proprio e identifica ogni istituto. Però, la caratteristica è un po’ questa comunione; per questo l’ultimo incontro sarà di tutte le forme di vita consacrata – Ordo virginum, istituti secolari, istituti di vita attiva, istituti di vita contemplativa, ordini, monaci, eremiti, le forme nuove … tutti avranno il loro luogo e il loro spazio in questo incontro. Ci sarà una parte comune, all’inizio e alla fine, in cui tratteremo esperienze e anche temi più generali per tutta la vita consacrata; poi ci saranno altri due giorni in cui si lavorerà più secondo le vocazioni distinte e questo sarà molto bello anche perché è a livello mondiale non solo a livello locale.

D. – Un Anno voluto fortemente da Papa Francesco. Come il Papa ha seguito l’Anno della Vita Consacrata?

R. – Lui è stato l’anima di questa vita. Lui è un consacrato, è gesuita; lui ci ha dato degli orientamenti che riprendono tutta la tradizione della Chiesa, che però ci danno spinte nuove per “questo” momento. Per esempio, ritornare all’essenziale della vita consacrata che è la chiamata del Signore, che il Signore fa a noi ed è una chiamata a cui tu rispondi, però è una chiamata sua. E tutte le altre cose, se sono in accordo con questo, vanno bene: strutture, carismi eccetera … Questa è una cosa importante. L’altra cosa è recuperare la dimensione di comunione nella Chiesa, la dimensione dello “stare insieme” … Le diversità non ci devono diminuire o impoverire; le diversità devono arricchirci. E questo dobbiamo impararlo nella pratica: non solo perché comprendiamo che è così il Vangelo. E questo anche è ritornare alla gioia, perché il Papa questo lo dice tanto. Se tu sei amato da Dio, devi esprimere questo anche se hai dovuto fare alcune scelte come quella, per esempio, del celibato. Ma questo non è perché tu rimanga nella solitudine o nella tristezza, ma perché tu abbia qualcosa di più al servizio di tutta la comunità, partendo da Dio. In questo senso, la presenza del Papa è stata per noi l’anima di tutto.

D. – Il futuro: l’Anno si conclude con il Giubileo della Misericordia. Che cosa ci si aspetta da questo dicastero?

R. – Noi abbiamo commentato con Papa Francesco – anzi: lui ha commentato con noi – che lui vede molto bene questo finire l’Anno della Vita Consacrata all’interno dell’atmosfera del Giubileo della Misericordia. E anche noi davamo la stessa importanza a questa cosa. Cioè, è tipico di un uomo consacrato, di una donna consacrata, aver sperimentato la misericordia di Dio e donare questa misericordia agli altri nella sua vita concreta. E questo dovrà accentuarsi nelle opere di misericordia corporali e spirituali, che già tra i religiosi sono abbastanza comuni, nelle missioni che abbiamo nella Chiesa e nel servizio alla Chiesa. Allora noi consideriamo questo Giubileo quasi come un prolungamento che verrà quasi naturalmente, per i tanti programmi che dobbiamo portare avanti.

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Cebu, Congresso eucaristico: il valore della religiosità popolare

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Bisogna tornare alla “cultura del dare e ricevere”. L'invito, proposto in maniera vibrante, è arrivato dal cardinale arcivescovo di Manila, Luis Antonio Tagle, interventuto al Congresso eucaristico internazionale che è in dirittura d'arrivo nella sua città. La 51.ma edizione si concluderà domenica e molte sono le testimonianze sull'intenso clima di fraternità e spiritualità che permea l'incontro. Ne parla, al microfono del nostro inviato, Sean Lovett, superiore generale della Congregazione del Santissimo Sacramento, padre Eugênio Barbosa Martins

R. – Veramente, questa è un’espressione dell’internazionalità e della cattolicità della Chiesa. Qui possiamo sentire la forza eucaristica come si manifesta nell’accoglienza di diverse culture, e questo rivela veramente la forza dell’Eucaristia. Possiamo dire che è una grande festa cattolica, quella che stiamo vivendo qui. Il popolo filippino dimostra un’accoglienza, un modo di vivere la fede cattolica che è spettacolare: è qualcosa che si può sentire in modo molto prossimo, molto vicino al cuore.

D. – Questa è radio: i nostri ascoltatori non possono vedere quello che vediamo noi: questi colori, le danze… Come esprimerli? Cerchiamo di creare un’immagine, per i nostri ascoltatori, di quello che noi stiamo vedendo anche qui, a pochi metri di distanza a Cebu…

R. – Veramente, non è facile trasmettere il sentimento di accoglienza, dell’essere veramente fratelli e sorelle, insieme. Ma, per esempio, cose piccole. In questi giorni piove, l’accoglienza: quando scendiamo dal bus, ci sono tante persone che ci aiutano a compiere il percorso fino alla destinazione…

D. – …che portano l’ombrello per accompagnarci…

R. – …sono cose semplici che però rivelano un modo di essere, perché è più che un servizio reso… Il sorriso…

D. – … sempre, sempre con il sorriso, vero?

R. – E questo fa la differenza. Perché, anche se sentiamo il fastidio della pioggia, l’accoglienza è più forte. E questo è un piccolo segno di come la fede si manifesta, qui.

D. – E non è mai un sorriso di circostanza, è sempre un sorriso che viene da dentro…

R. – Sì, si manifesta, veramente nasce dal cuore, questo sorriso. E possiamo dire che è veramente un’espressione di fede. Qui sono tutti volontari: è un dono per noi che siamo qui per l’Eucaristia, è un’espressione fortissima dell’Eucaristia.

D. – Padre Eugenio, c’è stato qualche intervento che l’ha colpita in modo particolare? Abbiamo sentito presentazioni di eminenti teologi, cardinali, vescovi... Uno in particolare che l’abbia colpita, e perché?

R. – Specialmente quella di un monsignore del Messico, che ha cercato di parlare dell’accoglienza della fede popolare, quello che sentiamo fortemente qui, nelle Filippine e io come brasiliano posso dire che la sentiamo anche in Brasile. Questa è una dimensione molto forte dell’espressione della nostra fede. Come condurre questo dialogo tra un’espressione popolare, tra la religiosità popolare e il vivere l’Eucaristia in modo più spirituale, più biblico? Questa per la Chiesa è sempre una sfida. E questa esperienza religiosa, che può essere un po’ più fondata nella Parola di Dio, nell’Eucaristia, può anche diventare una grande forza di trasformazione della realtà.

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Ai Musei Vaticani un incontro su arte e religione

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“L’arte ha bisogno della religione?": questa la riflessione proposta dalla direzione dei Musei Vaticani ieri pomeriggio, in occasione del primo appuntamento del 2016 dedicato ai “Giovedì dei musei”. C’era per noi Elvira Ragosta

L’arte ha bisogno della religione e la religione ha bisogno dell’arte: esempio mirabile, tra i moltissimi, di questo positivo connubio è il Giudizio Universale, con cui Michelangelo ha affrescato la parete d’altare della Cappella Sistina. Uno scambio, quello tra religione e arte, che - dice padre Mark Haydu, direttore internazionale dei Patrons of the Arts dei Musei Vaticani, intervenendo alla conferenza -  fino ad oggi ha dato molto al mondo:

R. – Credo che la parte essenziale sia l'atto di umiltà da parte della Chiesa nel riconoscere la necessità che ha degli artisti. Sarebbe difficile comunicare tutta la bellezza della fede senza l’aiuto anche di chi fa e di chi sa della bellezza. Ogni prete e ogni pastore sa che senza uno spazio bello, senza una liturgia bella, tutto sarebbe un po’ povero. Quindi dobbiamo anche noi cercare di coinvolgere gli artisti per creare spazi belli, musica bella, arte bella.

D. – Come si può sintetizzare il rapporto tra arte e Vangelo?

R. – La relazione è soprattutto una esperienza – io credo – personale dell’artista col Vangelo. Anche se ci troviamo nel caso in cui non sia tanto credente, il soggetto è quello e quindi lo studia: qualunque relazione, quindi, parte dalla verità, fa una esperienza personale e poi compie la sua creazione. E poi ci sarà quello che crea di bello - può essere uno spazio, una chiesa, una pittura, una scultura - che renderà visibile un aspetto del Vangelo in chi guarda questa opera d’arte, in chi prega in quello spazio. Quindi non soltanto personale, ma comunione della Chiesa che prega insieme.

Sul positivo, proficuo legame tra religione e arte è intervenuto anche il prof. Arnold Nesselrath, delegato per i Dipartimenti Scientifici e i Laboratori dei Musei Vaticani:

R. – La religione ha bisogno dell’arte, perché sono due le radici dell’arte: la memoria e la religione; e la religione per questo ha generato l’arte. Ed uno dei grandi doni del cristianesimo è proprio l’arte occidentale che, dopo l’antichità classica, esiste fino ad oggi ed è proprio creata da questa radice. L’uomo non vive solo del pane, ma anche della Parola e la Parola, in fin dei conti, è arte e cultura: attraverso la cultura si fa l’annuncio del Vangelo. Per cui sono legati e sono fondamentali: uno come contenuto e l’altro come forma, nella liturgia, negli ambienti e negli oggetti.

D. – Tra le opere dei Musei Vaticani, secondo lei, qual è quella che maggiormente esprime il rapporto tra religione e arte?

R. – Non si può dire quale sia l’opera primaria dei Musei. Quello che è molto importante è il Museo Etnologico, che fa vedere come la Chiesa cattolica dialoghi con tutte le culture. Forse, in questo momento, questo è il settore più importante che abbiamo qua, anche se è il settore in cui le opere non sono molto conosciute.

“Un fecondo colloquio, quello della Chiesa con gli artisti, che in duemila anni di storia non si è mai interrotto e si prospetta ancora ricco di futuro alle soglie del Terzo Millennio”: così scriveva Giovanni Paolo II, nel 1999, nella sua "Lettera agli artisti". Prima di lui, Paolo VI aveva già sottolineato quanto importante fosse il ruolo degli artisti per la religione. Nel 2009, poi, è stato Benedetto XVI ad incontrare gli artisti in Cappella Sistina, definendoli “custodi della bellezza”. E anche Papa Francesco, nel libro “La mia idea di arte” edito dai Musei Vaticani, afferma: “L’arte, oltre ad essere un testimone credibile della bellezza del Creato, è anche uno strumento di evangelizzazione”.

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Oggi su "L'Osservatore Romano"

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Dinamica sinodale: alla Congregazione per la dottrina della fede il Papa ricorda che la verità va vissuta.

Vivere sulle linee di faglia: Carmen Samut sulle Congregazioni religiose in tempi di cambiamento.

Quel che dice l'immagine; il capolavoro incompiuto di Alphonse Dupront Silvye Barnay

Claudio Toscani sulla lotta di Leyda: libertà di pensiero e azione nel libro "L'altra riva del Bosforo".

Per poter dire sì al Signore: il cardinale Robert Sarah sul silenzio nelle celebrazioni liturgiche.

Il fondamento si vince nelle scuole: appello del cardinale arcivescovo di Westminster agli educatori cattolici britannici.

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Oggi in Primo Piano



Burundi: scoperte nove fosse comuni a Bujumbura

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Almeno nove fosse comuni sono state rinvenute nei pressi di Bujumbura, capitale del Burundi. E' quanto denuncia Amnesty International, sulla base di testimonianze dirette di operatori sul posto e del confronto con immagini satellitari che evidenziano la presenza di terra rimossa, chiaro segno di tumulazione. Le uccisioni risalirebbero all’11 dicembre scorso, quando circa 90 persone vennero massacrate dalle forze governative perchè in contrasto con il presidente Nkurunziza, per la terza volta alla guida del Paese. Le immagini satellitari sono ora al vaglio dell’Onu e si attende la risposta dell’Unione Africana. Stefano Pesce ha intervistato Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia: 

R. – In Burundi è in corso da mesi una crisi profonda, con violazioni dei diritti umani diffuse, legata alla decisione del presidente, che aveva già retto il Paese per due mandati, di candidarsi al terzo e di vincere abbondantemente le elezioni. Ci sono stati attacchi massicci da parte delle forze di sicurezza del Paese, soprattutto in quei quartieri della capitale Bujumbura che sono considerati un po’ la roccaforte dell’opposizione.  L’11 dicembre è stato il giorno peggiore! In alcuni quartieri della città le forze di sicurezza hanno ucciso decine di persone e, già dal pomeriggio, c’erano segnali e notizie di fosse comuni che si stavano scavando per seppellire in tutta fretta i corpi, evitando così che emergesse la verità e la dimensione del massacro.

D. – Voi di Amnesty come siete venuti a conoscenza di questa strage?

R. – Amnesty International ha raccolto testimonianze dirette, con osservatori tra l'altro presenti nella capitale il giorno del massacro che quindi hanno potuto vedere i luoghi. E' stato fatto poi ricorso alle immagini satellitari che hanno permesso di verificare come prima dell’11 dicembre una zona di terreno fosse assolutamente piatta e, dopo l’11 dicembre, divenisse poi terreno smosso, come se si fosse prima scavato e poi ricoperto.  Quindi le prove ci sono e inchiodano il governo alla sua responsabilità! Occorre ora che ci sia una inchiesta per capire bene cosa sia successo quel giorno di dicembre.

D. – Quindi stiamo parlando di quasi 90 persone uccise per questioni politiche?

R. – Sì, sì! E’ una modalità classica, si tratta di una opposizione che, in parte anche in modo violento, ma soprattutto in modo non violento, da mesi contesta quello che il presidente Nkurunziza ha deciso di fare, ossia candidarsi ad un terzo mandato per essere eletto. In questo quadro chiunque sia sospettato di non seguire la linea del presidente, compresi i difensori dei diritti umani, compresi i giornalisti, ma anche semplici cittadini che si oppongono, diventa un bersaglio! Quel giorno ci sono state decine di morti, ma ce ne sono state altre decine nei mesi precedenti, così come in questi ultimi giorni ci sono segnali di una possibile nuova esplosione di violenza politica.

D. – Da parte della Comunità internazionale c’è la volontà di intervenire in Burundi?

R. – E’ chiaro che di fronte ad altri scenari di crisi epocali che sono in corso, quella del Burundi passa in secondo piano e diventa una delle tante crisi regionali che dovrebbero essere risolte a quel livello. Certamente ci sono state condanne da parte degli organi delle Nazioni Unite che si occupano di diritti umani, ed è stato chiesto al governo del Burundi di far entrare osservatori internazionali. Però il compito di negoziare, di risolvere questa crisi, è affidato all’Unione Africana. Ci sarà un vertice ad Addis Abeba nei prossimi giorni, ci aspettiamo che ci sia intanto una soluzione politica possibile e che però quando poi questa crisi sarà finita non esca  anche il problema dell’impunità, perché quel massacro dell’11 dicembre è uno scandalo, ma ci sono stati anche tanti altri episodi prima e dopo. L’idea che poi, una volta superata questa crisi, speriamo il prima possibile, restino al potere persone che si sono macchiate di sangue non è un bel segnale.

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Cei: no a equiparazione tra matrimonio e unioni civili

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C’è “preoccupazione” tra i vescovi italiani per la “mutazione culturale che attraversa l’Occidente”. E questo va riferito anche all’”equiparazione in corso tra matrimonio e unioni civili”. Lo afferma il comunicato del Consiglio Episcopale Permanente, che si è svolto a Roma dal 25 al 27 gennaio. Entro agosto, poi, prenderà corpo un progetto di possibile riordino delle Diocesi. Alessandro Guarasci

Un punto per la Chiesa italiana è centrale: “Serve annunciare il Vangelo del matrimonio e della famiglia, difendendo l’identità della sua figura naturale”, una figura prevista anche dalla Costituzione. Dunque, dice il comunicato, “l’equiparazione in corso tra matrimonio e unioni civili – con l’introduzione di un’alternativa alla famiglia – è stata affrontata all’interno della più ampia preoccupazione per la mutazione culturale che attraversa l’Occidente”.  Ma questo passa anche attraverso un contrasto all’”inverno demografico” che stiamo attraversando e ne deriva così una “richiesta di maggior sostegno per i diritti dei figli – a partire dal concepimento – e la denuncia per l’assenza di politiche familiari efficaci”.

Ci sono infatti troppe “famiglie che faticano ad arrivare a fine mese, molte delle quali si trovano a non saper soddisfare nemmeno i bisogni primari; ecco la piaga della disoccupazione, per affrontare la quale non bastano i richiami alla solidarietà, ma serve una nuova, forte imprenditorialità e un welfare di comunità”. E dopo il convegno ecclesiale di Firenze, il Consiglio Permanente ha rimarcato “la centralità dei poveri, quindi l’impegno per una famiglia che sia maggiormente soggetto politico, attenta a costruire alleanze con la scuola e la comunità”.

"A livello 'geografico’ - rileva il comunicato - due le sottolineature di fondo: la necessità di superare il divario tra Nord e Sud con un investimento non assistenziale, ma strategico nel Meridione - condizione imprescindibile per la ripresa economica del Paese - assicurando anche una maggiore presenza dello Sato e un sostegno a quanti lottano per la legalità; la valorizzazione del Mediterraneo, sia nella prospettiva dello sviluppo in chiave europea, sia - sul fronte delle migrazioni - quale ponte per entrare in dialogo con le Chiese del Nordafrica, in vista di una cultura non dell'emergenza, ma dell'accoglienza".

Ed ancora, la legge di riforma del processo canonico per la cause di dichiarazione di nullità dei matrimoni. I vescovi hanno ribadito “giusta semplicità e celerità dei processi, accessibilità e vicinanza fisica e morale delle strutture ecclesiastiche, gratuità – per quanto possibile – delle procedure per le parti e centralità dell’ufficio del Vescovo”.  

Infine, la geografia della Cei: “Su indicazione della Congregazione per i Vescovi, entro la fine d’agosto 2016 le Conferenze Episcopali Regionali sono invitate a far pervenire alla Segreteria generale della Cei il parere circa un progetto di riordino delle diocesi”.

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Family Day. Savarese: un popolo immenso per la famiglia

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Tutto pronto per il Family Day che si terrà domani a Roma a partire dalle ore 12.00 al Circo Massimo. Gli organizzatori, che stimano l’arrivo di circa un milione di persone, chiedono il ritiro del ddl Cirinnà sulle unioni civili, in discussione al Senato, che apre alle adozioni per coppie dello stesso sesso. La piazza sarà aperta a tutti i cittadini di ogni confessione religiosa e posizione politica, come conferma uno dei promotori della manifestazione, il portavoce di Generazione famiglia, Filippo Savarese, intervistato da Marco Guerra: 

R. – La piazza di domani sarà una piazza storica, veramente epocale per il nostro Paese, perché un popolo enorme – immenso – da tutti i territori, tutte le province, tutti Comuni italiani, si riunirà al Circo Massimo per riaffermare il caposaldo della nostra società che è la famiglia: la famiglia fondata sul matrimonio tra un uomo e una donna, che dà ai bambini un papà e una mamma. I consensi su questo cardine antropologico sono trasversali: hanno aderito non solo chiaramente tantissimi cattolici, ma anche rappresentanti di altre confessioni religiose, come musulmani, sikh, comunità ebraiche. Hanno aderito le Chiese evangeliche, la Chiesa ortodossa italiana; ma tutti noi abbiamo amici atei che volentieri verranno in piazza per riaffermare questa verità di fondo. Sarà una piazza da cui – io credo – nascerà un vero e proprio popolo: un vero e proprio movimento di popolo, spontaneo, senza strutture, che – speriamo – continui a fare tendenza nel Paese per i prossimi decenni.

D. – C’è gente di ogni credo politico e anche molti omosessuali saranno presenti, per dire che tutti siamo figli di un papà e una mamma, nessun disegno di legge può negare questo…

R. – Su questa verità elementare si sta riunendo veramente – come dicevo – un popolo trasversale, la cui trasversalità è la caratteristica principale. Saranno in piazza elettori di tutti gli schieramenti; e tra l’altro devo dire che sono tante anche le persone omosessuali che hanno aderito alla nostra manifestazione. E ha assicurato la propria partecipazione anche l’Associazione di genitori di persone omosessuali. Perché, per quanto sia vero che ognuno di noi nasce da un papà e una mamma, ci sono leggi che stanno cercando di affermare il contrario. Sappiamo che il ddl Cirinnà va in questa direzione ed è proprio contro l’approvazione di questo disegno di legge che la piazza si riunisce.

D. – Non è una piazza contro - voi dite - non saranno tollerati slogan e striscioni offensivi, in particolar modo contro il mondo omosessuale…

R. – Credo che non ci sarebbe neanche il bisogno di specificarlo che qualsiasi tipo di manifestazione, di discriminazione, violenza, offesa a chiunque rivolta non sarà tollerata e sarà anzi denunciata alla pubblica autorità come è giusto che sia. La manifestazione non è contro delle persone.

D. – Sabato scorso è stata la volta delle manifestazioni a favore del ddl Cirinnà. Contemporaneamente le "Sentinelle in piedi" hanno riempito diverse piazze italiane, ma nessuno ne ha parlato. Come giudica la copertura mediatica di quell’evento e quella che invece viene offerta al popolo delle famiglie?

R. – Noi sappiamo ormai per certo, se non altro per esperienza, che le dinamiche mediatiche ormai preferiscono, privilegiano, soltanto una certa espressione di opinioni rispetto ad altre. Ci sono, come è noto – come è chiaro e ovvio che sia – interessi economici e politici di fondo; perché anche i media sono espressione sostanzialmente di parti di interesse della società. Ma questo ha una sua legittimità. Il grande lavoro che noi abbiamo fatto nell’ultimo anno è quello di andare direttamente sui territori ad incontrare delle persone per non essere incatenati alla necessità di avere una mediazione. Tutti sanno che le stime della manifestazione a favore del ddl Cirinnà degli scorsi giorni sono state ampliamente gonfiate, anche perché altrimenti non si sarebbero fatte tante manifestazioni dislocate sul territorio, che è la strategia che solitamente si usa quando si sa di non poter assicurare un grande numero di partecipanti. Ma noi abbiamo scelto il Circo Massimo per la sua vastità e per la sua apertura, per la sua trasparenza, proprio per far vedere da che parte sta il popolo italiano.

D. – Può ricordarci brevemente perché è stata convocata questa grande manifestazione di popolo e perché le famiglie sono chiamate a partecipare?

R. – La manifestazione del Family Day del 30 gennaio al Circo Massimo ha uno scopo: chiedere al Parlamento di ritirare il ddl Cirinnà sulle unioni civili, che non fa il bene di nessuno, in nessun modo, ma che mina alle fondamenta l’istituto del matrimonio e in questo modo distrugge il ruolo e l’identità della famiglia all’interno dell’ordinamento, negando per conseguenza diretta il diritto dei bambini ad avere un papà e una mamma. Quindi il popolo si riunirà per riaffermare una verità antropologica di base, l’unica sulla base della quale si può costruire poi qualsiasi altro tipo di argomentazione, come ad esempio economica o fiscale.

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Riconoscere in Italia lo status di apolide: lo chiede il Cir

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E’ partita la campagna promossa dal Cir, Centro italiano rifugiati, denominata “#non esisto”, con l’obiettivo di sensibilizzare l’opinione pubblica sul tema dell’apolidia e per sostenere il disegno di legge presentato dall’organizzazione per il riconoscimento giuridico in Italia dello status di apolide. Circa 15 mila nel Paese le persone senza alcuna cittadinanza, per lo più provenienti dall’ex Jugoslavia, 600 mila in Europa. Una condizione che rende le persone invisibili, inesistenti. Ma chi è esattamente un apolide? Adriana Masotti lo ha chiesto a Christopher Hein, consigliere strategico del Cir: 

R. – È definita “apolide” una persona che non viene riconosciuta da nessuno Stato come cittadino. Le cause possono essere molto diverse: spesso sono collegate allo scioglimento di uno Stato – come per esempio la Jugoslavia negli anni ’90 o anche l’Unione Sovietica – in seguito al quale nascono poi nuovi Stati. Questi ultimi mettono delle regole, e un certo numero di persone si ritrovano privi di cittadinanza nell’uno e nell’altro Stato. Nel caso italiano, effettivamente, dei 15.000 apolidi che non hanno lo status di riconoscimento dell’apolidia, la maggior parte sono cittadini dell’ex Jugoslavia venuti come profughi durante il conflitto, e tra di loro molti appartengono alle etnie Rom e Sinti.

D. – E quali sono le conseguenze pratiche dell’essere un apolide?

R. – Sono veramente terribili. Non si ha la possibilità di ottenere nessun tipo di documento; non si possono neanche registrare le nascite; non si può contrarre matrimonio; non si ha la possibilità di ottenere una patente di guida, per non parlare del documento di identità. Quindi tutto ciò che ci assicura una vita normale, come cittadino, queste persone non ce l’hanno. E quindi sono praticamente persone non esistenti, civilmente parlando.

D. – Ecco, l’Italia non riconosce l’apolidia e voi avete presentato un disegno di legge per introdurre questo status…

R. – Siamo in una situazione di limbo, e questa proposta di legge intende finalmente aprire la strada ad un riconoscimento – almeno questo – dell’apolidia, con i diritti che la Convenzione del 1954 prevede.

D. – Quindi la possibilità di avere finalmente dei documenti…

R. – Sì, i documenti, avere un permesso di lavoro, un permesso di soggiorno…

D. – La vostra campagna “#non esisto” serve proprio a sensibilizzare l’opinione pubblica sui problemi degli apolidi e a sostenere anche la richiesta di una legge in merito, perché di questa questione si parla poco…

R. – Si parla pochissimo anche perché sono persone – per così dire – invisibili. E poi naturalmente ha anche a che vedere con la discriminazione che esiste nei confronti dei Rom e dei Sinti. Ancora oggi i Rom soffrono molto di un atteggiamento discriminatorio, e in più se sono apolidi, figuriamoci se possono avere la possibilità di farsi capire e vedere!

D. – E come si svolgerà la vostra campagna?

R. – Innanzitutto vogliamo fare questo lancio, ricordare che esiste al Parlamento un disegno di legge. Anche all’opinione pubblica e alla stampa – ai mass media – vogliamo chiedere di assisterci nella sensibilizzazione su questo fenomeno. E, come sappiamo, questo può auspicabilmente portare a che questa legge sia messa all’ordine del giorno delle Camere. È una piccola legge - se vogliamo - che si potrebbe approvare senza grandi difficoltà, in tempi brevi, se c’è veramente un’attenzione pubblica su questo tema.

D. – L’Italia è in buona compagnia come Paese che ancora non riconosce questo status oppure gli altri si sono mossi prima?

R. – Purtroppo è in buona compagnia: sono relativamente pochi gli Stati, anche tra quelli che hanno ratificato la Convenzione del 1954, che hanno veramente una legge di attuazione di quest’ultima. Su questo c’è anche un impegno molto preciso da parte delle Nazioni Unite: in tale ambito c’è anche un’azione, prevista entro il 2025, di arrivare all’abolizione del fenomeno dell’apolidia, spingendo gli Stati a facilitare ulteriormente l’ottenimento della cittadinanza di queste persone.

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Gerusalemme, aperta Settimana di preghiera per unità cristiani

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Da Gerusalemme parte un messaggio di unità, nonostante le diversità: “Chiamati per annunziare a tutti le opere meravigliose di Dio”. Questo il tema tratto dalla Prima Lettera di San Pietro nella Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani, in corso nella Città Santa. Il servizio di Miriam Bianchi, del "Christian Media Center": 

Scende la sera sulla Città Santa, un tiepido sole lascia il posto a una gelida nottata, ed è qui che - il 23 gennaio - si è aperta la Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani. “Chiamati per annunziare a tutti le opere meravigliose di Dio”: questo il tema che sintetizza bene lo spirito di questa Settimana particolare, che qui in Terra Santa si celebra ogni anno a fine gennaio, dopo che si sono conclusi i riti del Natale delle diverse confessioni.

Una città, in cui vivono 13 comunità cristiane, dove quotidianamente si è alla ricerca di un’unità, seppur nella diversità; dove ci si apre ad altre forme di preghiera e di spiritualità cristiane. Hanno riposto speranza e fede nel “potere” della preghiera i religiosi, i laici locali e i pellegrini che  si sono  incontrati, come in una peregrinazione quotidiana, in vari luoghi della città: dal Calvario alla cattedrale anglicana di San Giorgio, alla cattedrale armena di San Giacomo, passando per la chiesa luterana per giungere - il 27 gennaio - nella Concattedrale di Gerusalemme, all’interno delle mura de  Patriarcato Latino, dove la liturgia, scandita dai canti in arabo, è stata presieduta dal patriarca Latino, mons. Fouad Twal.

Colpiscono direttamente al cuore le parole della breve omelia pronunciata dal rettore del seminario del Patriarcato latino, mons. Jamal Khader, che ai presenti ha posto la domanda: “E’ la ‘terra’ pronta per l’unità?”. E ha aggiunto: “Dobbiamo pregare e celebrare la nostra diversità! Questa, infatti, non è un ostacolo, ma una grazia di Dio”. Padre Jamal ha fatto poi un accenno ai rifugiati accolti nei campi profughi in Giordania: “Testimoni, nella loro sofferenza, di unità nella fede.” Il riferimento, poi, alle parole di Papa Francesco durante il suo incontro con il Patriarca di Costantinopoli Bartolomeo, quando insieme pregarono al Santo Sepolcro proprio per l’unità dei Cristiani: “Quando cristiani di diverse confessioni si trovano a soffrire insieme, gli uni accanto agli altri e a prestarsi gli uni gli altri aiuto, con carità fraterna, si realizza un ecumenismo della sofferenza, si realizza l’ecumenismo del sangue, che possiede una particolare efficacia non solo per i contesti in cui esso ha luogo, ma - in virtù della comunione dei santi - anche per tutta la Chiesa. 

“Un momento di preghiera, unico per quanti nel cuore portano un desiderio di unità. Ma è nella preghiera al Cenacolo che questa Settimana di preghiera in Terra Santa trova il suo significato più profondo: Luogo Santo dove Gesù ha celebrato la sua ultima Pasqua e dove la chiesa è nata.

La preghiera, condotta dai Padri benedettini della vicina chiesa della Dormizione di Maria, viene introdotta con il canto a cappella “Vieni Spirito Santo” ed è semplice e intensa, come questo luogo ispira. Tanti i rappresentanti delle confessioni presenti, a testimonianza che la diversità, se vissuta nell’unità, può trasformarsi in un “dono”, secondo proprio le parole di Gesù: “Da questo tutti sapranno che siete i miei discepoli”.

In un’atmosfera raccolta, alla luce di una flebile candela, accompagnati dal soave suono di un clarinetto, la presenza dello Spirito Santo è forte e vivace e ha lasciato un segno di unità nel cuore dei presenti.

A conclusione della liturgia, in molte lingue è stato intonato il “Padre nostro”… Ancora una volta, la diversità si fa unità, la voce si fa unica nella preghiera. Sembrano risuonare ancora le parole di Papa Francesco, pronunciate proprio in questo luogo: “Quanto amore, quanto bene è scaturito dal Cenacolo! Da qui parte la Chiesa in uscita, animata dal soffio vitale dello Spirito”.

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Frisina: con Inno alla gioia, Beethoven intuisce grandezza di Dio

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“L’Inno alla Gioia” di Beethoven è stato il tema del terzo e ultimo appuntamento del ciclo delle Letture teologiche, promosse dalla diocesi di Roma, che si sono concluse ieri sera nel palazzo Lateranense. Filo conduttore delle tre serate: “La misericordia nell’arte”. Il servizio di Marina Tomarro

Un inno che parlasse di gioia ma che in realtà puntasse a raccontare la libertà, attraverso musiche nuove mai sentite prima, trasmettendo emozioni al cuore di chi le ascolta. Con questo obiettivo tra il 1822 e il 1824 Beethoven compose la “Nona Sinfonia”, che nella parte corale include l’”Inno alla gioia” scritta qualche anno prima dal poeta e filosofo Schiller. Monsignor Marco Frisina, presidente della Commissione diocesana d’Arte Sacra:

R. - Per Beethoven l’“Inno alla gioia” era un desiderio della vita, qualcosa che voleva esprimere da quando era ancora giovane, ma già malato, già nelle sofferenze e nei tormenti, sia spirituali sia fisici. Era un testo di Schiller che lui amava e che sentiva, in qualche modo, come l’espressione della sua fede, sia verso l’umanità sia verso Dio. Per noi cristiani, la gioia è qualcosa che nasce dalla Risurrezione ed è bello vedere questa intuizione di un grande artista e di un genio come Beethoven. Di solito gli artisti sono un po’ profeti e vivono la loro vita in maniera misteriosa, ma cogliendo nella fede ciò che è centrale, cioè che è fondamentale, con tutti i tormenti e le difficoltà di comprenderne il senso. Ecco, io credo che l’“Inno alla gioia” di Beethoven sia per noi - proprio in questo anno giubilare - un messaggio straordinario: un uomo che, con la sua ricerca tormentata, intuisce la grandezza di Dio.

D. – Sant’Agostino diceva che cantare è come pregare due volte. Allora, quanto sono importanti anche il canto, la musica che accompagnano la preghiera?

R. – La musica ci è stata donata da Dio per esprimere ciò che le parole non possono dire o non hanno la sufficienza di dire. Io credo che la musica sia una specie di spessore e le parole con la musica acquistano uno spessore diverso. Sempre la musica - qualunque musica - è come una finestra che si apre nel cuore profondo degli uomini. Per cui è un modo con cui Dio può entrare facilmente.

 L’inno divenne subito di gran moda tra i giovani della Vienna del tempo, ma il suo successo è arrivato fino ai giorni nostri, tanto che nel 1972 fu adottato come "Inno Europeo" e nel 2001 dichiarato dall’Unesco "Memoria del mondo". Il maestro Michele Dall’Ongaro, dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia.

R. – Bisogna ricordare che all’origine Schiller voleva scrivere un inno alla libertà e il gioco di parole in tedesco è facile: “Freiheit” invece di “Freude”. Ma La parola libertà era censurata e non poteva quindi scrivere “libertà”, ma l’intenzione è questa, perché non c’è gioia senza libertà e la libertà dà gioia: in questo sono sinonimi. Bisogna anche ricordare che quel testo era di gran moda tra i giovani: Beethoven voleva rivolgersi ai giovani con questo messaggio, perché non voleva cambiare il mondo, ma lo voleva costruire. Aveva proprio questa idea! Tutto il pezzo di Beethoven è dedicato alla costruzione di un mondo ideale, dove effettivamente la fede in Dio, che lui ha sempre avuto, si sposasse con la fiducia in una società migliore. E lui doveva intervenire… Quindi, nel momento in cui scrive questo inno, riesce attraverso una serie di processi ad elaborare un tema che noi abbiamo in un certo senso sempre ascoltato durante la sinfonia senza rendercene conto. Quando arriva - come la rivelazione - ci sembra già di conoscerlo, anche se non lo abbiamo mai sentito prima. Per questo crea gioia, perché è una rivelazione.

E l’“Inno alla gioia” ha concluso il ciclo delle tre Letture teologiche dedicate in questa edizione alla misericordia nell’arte. Ascoltiamo il cardinal vicario Agostino Vallini:

 R. – Abbiamo vissuto tre serate molto interessanti, raccogliendo tre grandi geni: Michelangelo, Caravaggio e Beethoven. Tre geni della potenza dell’amore di Dio, della sua bellezza e della sua onnipotenza in qualche modo. Davvero dove c’è la scintilla della potenza del Signore, lì l’uomo è migliore. Credo che, nell’anno del Giubileo, fosse necessario avere questa iniezione di entusiasmo, di speranza e di fiducia per ciascuno di noi, ma anche per essere portatori di questi messaggi nei nostri ambienti di vita. Quindi sono molto contento di quanto abbiamo potuto realizzare a Roma attraverso queste Letture teologiche. E l'appuntamento di quest’anno è stato veramente molto ricco.

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Shoah: la Pavel Zalud Orchestra suona gli strumenti di Terezin

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In occasione della Giornata della Memoria un'orchestra italiana, la Pavel Zalud, fa rivivere in concerto 13 strumenti utilizzati dagli ebrei prigionieri al tempo della Shoah nel ghetto di Terezin, vicino Praga. Qui si componeva e si eseguiva musica non solo perché c'erano professionisti, ma anche per compiacere la finzione propagandistica del nazismo. Lo racconta lo scrittore ed ebraista, Matteo Corradini, che ha rinvenuto gli strumenti della fabbrica Pavel Zalud e ha fondato l'Orchestra che ne porta il nome. L'Intervista è di Gabriella Ceraso

R. – La fabbrica si trovava già a Terezin, cittadina fortificata, che era stata scelta dai nazisti proprio per questo motivo, per essere trasformata in un ghetto e tecnicamente in un campo di transito da dove partivano i treni verso i campi di sterminio veri e propri. I nazisti in un primo momento non requisiscono l’intero ghetto, ma soltanto una parte. La fabbrica Zalud rimane al di fuori. A un certo punto, i nazisti decidono di trasformare il ghetto in qualcos’altro, in modo che tutto il ghetto sembrasse più bello di quanto non fosse. In questa operazione di abbellimento – agghiacciante – la musica aveva un ruolo fondamentale: gli ebrei furono costretti a suonare. E quali strumenti suonarono? Suonarono, anche, gli strumenti che i nazisti avevano sequestrato alla fabbrica di Pavel Zalud.

D. – Il primo strumento che lei ha rinvenuto è un clarinetto e ha pensato che “quel” clarinetto dovesse tornare a vivere facendo risentire la propria voce. Perché?

R. – Io credo che gli oggetti "parlino", in qualche modo. Dobbiamo essere pronti ad ascoltare. Ahimé, per motivi anagrafici tanti testimoni ci stanno lasciando e ormai pochissime persone possono raccontare quello che è accaduto perché lo hanno visto. Allora, gli oggetti ci raccontano una parte del passato e gli strumenti musicali sono oggetti naturalmente particolari e unici, che non possono essere messi in una teca, anche se forse lo meriterebbero. Però, il loro vero ruolo è quello di suonare. Suonare le musiche del ghetto con quegli strumenti significa in qualche modo riprodurre la stessa musica con le stesse sonorità, oggi. E questo è un esperimento per certi versi affascinante, per altri commovente.

D. – Anche nel repertorio che proponete in concerto c’è una storia particolare, da ricordare, vero?

R. – Il repertorio è tutto a firma di Ilse Weber, un’ebrea boema di lingua tedesca che era stata deportata a Terezin insieme al figlio più piccolo e al marito. Erano stati divisi: lei finisce in infermeria, perché aveva qualche conoscenza nel settore, e si mette a curare i bambini. Lei però sapeva anche suonare la chitarra e quindi per questi bambini compose musiche. Se ne sono salvate 13: otto di queste sono state trasformate da musiche per chitarra e voce a musiche per orchestra. Sono musiche struggenti, perché spesso raccontano una mezza verità, proprio perché dovevano essere cantate ai bambini. Sono, a volte, musiche di speranza, quando certamente la speranza in Ilse Weber stava sicuramente scemando.

D. – I concerti in programma sono il 30 e il 31 gennaio, a Piacenza e ad Arezzo. Avete in programma di ampliare l’orchestra e dunque ci sono speranze di trovare altri strumenti?

R. – Le speranze di trovare altri strumenti sono molto buone. Per le altre date, ci stiamo muovendo. Abbiamo ricevuto molto interessamento. Di sicuro, l’idea è di ampliare anche il repertorio: un po’ per volta, vorremmo suonare il più possibile tanta musica proveniente proprio dal ghetto di Terezin.

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Nella Chiesa e nel mondo



Card. Scola: Family Day, un errore la "stepchild adoption"

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“La famiglia è il rapporto stabile e aperto alla vita tra l’uomo e la donna che si fa carico dell’educazione dei figli, genera vita e si prende cura di due differenze fondamentali: la differenza sessuale e la differenza tra le generazioni”. Questo il cuore del dialogo scaturito tra l’arcivescovo di Milano, cardinale Angelo Scola, e i 350 sacerdoti incontrati oggi a Seveso per riflettere insieme sull’identità sacerdotale e il servizio nelle comunità cristiane. Il porporato fa sue queste parole pronunciate dal cardinale Angelo Bagnasco in sede di Consiglio permanente Cei, per rispondere a quanti gli chiedono un parere sul disegno di legge in materia di unioni civili che presto sarà all’esame del parlamento italiano.

Il Family Day: partecipare o no?
“Scandalizzarsi perché dei cittadini manifestano è profondamente sbagliato”, esordisce il cardinale, precisando che ci troviamo a vivere in una società pluralista in cui a volte i punti di vista sono in contrasto. “Sono certo che dal raduno del Circo Massimo usciranno ragioni adeguate e l’apertura al confronto”.

La legge sui diritti per le unioni omosessuali
“Bisogna evitare che l’istituto familiare venga non solo sminuito, ma anche offuscato da nuove leggi”, puntualizza l’arcivescovo di Milano, specificando che alle persone omosessuali i diritti vanno oggettivamente dati, ma devono andare a garantire la persona stessa. Due i punti che secondo il porporato vanno evitati: “Costruire un impianto di leggi che ricalchi l’istituto familiare e ammettere la 'stepchild adoption', via per giungere massicciamente all’adozione – attraverso la pratica dell’utero in affitto – dei figli di coppie omosessuali”. In questo modo, secondo il cardinale, si corre il rischio del dissolvimento della società, ma anche di mettere al mondo figli orfani di genitori viventi.

L’amore basta?
A quanti, criticando la posizione cattolica, oppongono l’argomentazione “basta che ci sia l’amore”, il cardinale Scola risponde così: “Basta intendersi su cosa questo significa. C’è unità indivisibile tra differenza sessuale, relazione con l’altro e fecondità”. Quanto, invece, alle accuse di ingerenza subite dai cattolici che esprimono la propria opinione, afferma: “È il segno dell’assenza dei cattolici dall’agone politico dopo la crisi del 1992. I cristiani, però, devono giocarsi in questo ambito con autentico spirito di servizio”. A questo proposito il porporato ha concluso citando come esempio l’esperienza dei “Dialoghi di vita buona”, il Comitato scientifico in cui persone con posizioni religiose, filosofiche, sociali e culturali differenti si confrontano per cercare la possibilità di vita buona che abbiamo in comune. (A cura di Roberta Barbi)

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Vescovi Messico: visita Papa, gioia per le etnie trascurate

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L’incontro di Papa Francesco con le comunità indigene del Messico, previsto per il 15 febbraio prossimo a San Cristóbal de las Casas, è stato ampiamente illustrato in un comunicato della Conferenza episcopale messicana, nel quale si ribadisce che si tratta di una visita “a tutta la comunità ecclesiale, indigeni e meticci, anche se darà priorità alle popolazioni originarie molto spesso trascurate”.

Tendere ponti tra ricchi e poveri
“Il Papa – afferma l’episcopato – non viene a schierarsi con alcun gruppo sociale ma a tendere ponti, ad aiutarci ad abbattere i muri che ci separano, a incoraggiare l’integrazione umana e cristiana, di ricchi e poveri, di indigeni e meticci, di coloro che vivono la propria fede in modo più tradizionale e di coloro che la assumono con la sua imprescindibile dimensione sociale”. Il comunicato afferma che la diocesi di San Cristóbal de las Casas è una delle più povere ed emarginate del Paese, pur riconoscendo lo sforzo dei governi, delle organizzazioni sociali, degli imprenditori solidali e degli stessi indigeni per migliorare le condizioni di vita specialmente nei settori sanitario, educativo, abitativo e dei servizi di elettricità e incanalamento delle acque.

Assenti autonomia politica e gestione del proprio territorio
Il comunicato ricorda che secondo i dati della Commissione per lo Sviluppo dei Popoli Indigeni, ci sono 62 popoli originari in tutto il Paese che rappresentano una popolazione di oltre 11 milioni di persone. Il riconoscimento del Messico come “nazione pluriculturale”, avvenuto nel 1992, e la Riforma costituzionale in materia di diritti degli indigeni del 2001, sono state iniziative “apprezzate dalla Chiesa, anche se – sottolineano i vescovi – manca ancora molto perché siano accettati i loro diritti: avere una propria organizzazione politica, avere il dominio dei propri territori ed essere presi in considerazione in ciò che riguarda la loro vita e la loro cultura”.
 

Gli indigeni abbiano il loro posto nella società
Nella nota, la Conferenza episcopale messicana anticipa alcuni dettagli della visita del Papa a Chiapas ed esprime il desiderio che l’incontro con il Santo Padre a San Cristóbal de las Casas incoraggi tutto il popolo messicano a restituire ai popoli originari il posto che appartiene loro nella società e nella Chiesa. “Chiediamo a Dio e alla sua Madre Santissima – si legge – che questa visita del Papa possa sensibilizzare tutti alla solidarietà verso la difficile realtà che vivono queste comunità” (A cura di Alina Tufani)

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Sierra Leone. Arcivescovo di Freetown: no all’aborto

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“Bisogna dire no alla legalizzazione dell’aborto, perché la vita umana va tutelata a partire dal concepimento e fino alla morte naturale”: così, in sintesi, si è espresso mons. Edward Tamba Charles, arcivescovo di Freetown, in Sierra Leone, intervenuto nei giorni scorsi a un incontro interreligioso ospitato nella città. In particolare, il presule ha fatto riferimento alla proposta di legge denominata “Aborto sicuro”, approvata dal parlamento l’8 dicembre 2015 e in attesa della firma del presidente, Ernest Bai Koroma, per la sua entrata in vigore.

Aborto legale fino a 12 settimane di gestazione
Approvata dopo cinque anni di dibattito, la proposta è stata votata a maggioranza assoluta. Se diventasse legge, essa permetterebbe l’aborto volontario fino alla 12.ma settimana di gestazione. Dopo tale scadenza, l’interruzione di gravidanza sarebbe permessa in caso di stupro, incesto e pericolo per la salute della madre o del feto. Le ragazze minori di 18 anni, inoltre, potrebbero abortire, ma solo con il permesso di un genitore o di un tutore.

Aborto aumenta rischio di mortalità materna e infantile
“Contrariamente al suo nome, ‘Aborto sicuro’ – ha fatto notare mons. Tamba Charles – tale proposta di legge non dimostra rispetto per la vita della madre e del bambino, né garantisce la loro sicurezza”. Di qui, il richiamo del presule a investire di più “nei servizi sanitari, specialmente nelle cure prenatali e post-partum di tutte le donne del Paese”. Miglioramenti in questo settore, infatti – ha sottolineato il presule – potranno garantire un rapido declino della mortalità materna e infantile, mentre l’aborto l’aumenterà”.

Impegno dei cristiani in difesa della vita
“La vocazione cristiana di predicare il Vangelo di Cristo come pienezza della manifestazione di Dio, Dio della vita, ci spinge  – ha concluso l’arcivescovo di Freetown – a opporci a questa proposta di legge e a chiedere che venga cancellata dall’agenda del parlamento”.

Anche i musulmani contrari alla proposta di legge
Da ricordare che l’opposizione a questa proposta normativa coinvolge non solo i cristiani, ma anche i musulmani. Lo scorso dicembre, rappresentanti di entrambe le religioni, con il patrocinio del Consiglio interreligioso della Sierra Leone, si sono recati in visita presso il capo dello Stato per manifestare il loro disappunto di fronte all’approvazione della proposta di legge da parte del parlamento. Dal suo canto, il presidente Koroma ha promesso rinviare alla Camera il testo normativo così da permetterne una revisione prima della firma definitiva. (I.P.) 

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Vescovi Camerun: famiglia cellula fondamentale della società

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“La nostra società deve riscoprire l’importanza e la bellezza del matrimonio, istituito da Dio come legame indivisibile e indissolubile tra un solo uomo e una sola donna, per la loro felicità” e la generazione di figli: scrivono così, in una nota, i vescovi del Camerun, al termine del loro 39.mo Seminario annuale. Svoltosi a Batouri dal 9 al 16 gennaio scorsi, l’incontro ha avuto per tema “I sacerdoti e l’accompagnamento delle famiglie”. A presiedere i lavori è stato mons. Samuel Kleda, arcivescovo di Douala e presidente della Conferenza episcopale locale (Cenc).

Formare adeguatamente i sacerdoti
“La Chiesa deve accompagnare la famiglia in tutte le fasi della sua evoluzione”, prosegue la nota, e tale compito “necessita di una formazione adeguata per i sacerdoti e gli altri agenti pastorali impegnati in questa missione”. I lavori del seminario hanno anche riflettuto sui risultati raggiunti dai due Sinodi incentrati sulla famiglia, svoltisi nel 2014 e nel 2015: in particolare, i vescovi del Camerun si sono soffermati su “Le sfide della Pastorale familiare oggi” e su “L’accompagnamento delle famiglie in situazioni particolari”.

Se crolla la famiglia, crolla tutta la società
Non solo. Dai presuli è arrivato il richiamo alla “necessità di accompagnare le coppie di sposi anche dopo il matrimonio” e all’importanza di avviare “l’Apostolato familiare in ogni diocesi” del Paese. “La famiglia costituisce la cellula fondamentale della società e della Chiesa – ha ribadito la Cenc – poiché essa accoglie la salvezza portata da Cristo, tanto che la sua disgregazione potrebbe minacciare l’intera società”. Di qui, il richiamo dei vescovi camerunensi a fare attenzione, perché oggi “la famiglia è minacciata e attaccata nei suoi stessi principi fondamentali” ed è pertanto necessario che “i sacerdoti l’accompagnino sul piano pastorale”, dato che “questa è la loro missione”.

Decisa la revisione del direttorio familiare
In quest’ottica, la Cenc ha deciso di compiere un lavoro di revisione sul direttorio familiare: tale incarico è stato affidato alla Commissione episcopale per i laici, che presenterà i risultati nel corso della prossima Assemblea plenaria, in programma dal 10 al 16 aprile. Invece, il prossimo seminario dei vescovi, il 40.mo, si terrà dal 7 al 14 gennaio 2017 a Mamfe. Infine, si è proceduto alla nomina del segretario generale della Cenc: a ricoprire l’incarico è stato chiamato padre Benoît Kala, della diocesi di Bafang. (I.P.) 

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Francia. Ad agosto, settimana speciale per i giovani a Taizé

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Permettere a giovani adulti con una vita o una situazione di lavoro simile di incontrarsi e discutere il loro futuro visto alla luce della fede: è lo scopo della Settimana speciale, riservata a persone dai 18 ai 35 anni, che verrà organizzata a Taizé dal 28 agosto al 4 settembre. Sono invitate tutte le persone comprese in questa fascia d’età: studenti, disoccupati, lavoratori, volontari. A motivo del programma speciale della Settimana — si legge in un comunicato, ripreso da L’Osservatore Romano — si consiglia ai ragazzi dai 15 ai 17 anni, agli adulti con più di 35 anni e alle famiglie con bambini, di recarsi a Taizé in un altro periodo dell’anno.

In programma, riflessioni bibliche, forum e “festa dei popoli”
Il programma dell’incontro prevede un’introduzione biblica per tutti alla fine della preghiera del mattino. Alcuni partecipanti animeranno forum dedicati a giovani di diversi continenti, a persone coinvolte in organizzazioni internazionali o in comunità cristiane, così come in iniziative locali di solidarietà. Seguiranno lavori divisi in piccoli gruppi e organizzati per tema: sanità, lavoro sociale, scienze, educazione, arte, informatica, economia, teologia. Un’altra équipe riunirà invece gli uomini e le donne che stanno ancora decidendo sulla loro formazione e sullo studio. Nel primo pomeriggio, si terrà una “festa dei popoli” prima dei workshop e di una prova dei canti.

Laboratori per i volontari
In particolare, sono previsti laboratori per coloro che hanno passato un tempo più lungo come volontari con la comunità, sia a Taizé che negli incontri e nelle comunità provvisorie in tutto il mondo. “Vorremmo incoraggiare quelli che vengono per questa settimana - è scritto nella nota - a portare con sé altri giovani adulti che non avrebbero avuto da soli l’idea o i mezzi per venire: profughi, disabili, persone senza un lavoro”.

Preparativi per la Gmg di Cracovia
Nel frattempo, alcuni gruppi stanno già preparando il loro viaggio per la Giornata mondiale della gioventù che si terrà a Cracovia, in Polonia, dal 26 al 31 luglio prossimi. I giovani che soggiornano a Taizé parteciperanno alle preghiere comuni tre volte al giorno, alle introduzioni bibliche guidate dai fratelli e ai piccoli gruppi di condivisione con altri giovani in viaggio da o verso Cracovia. La comunità invita a partecipare al consueto programma settimanale, da domenica a domenica. Ma, si precisa, “se non potete rimanere per tutta la settimana e volete comunque trascorrere qualche giorno a Taizé come parte del vostro pellegrinaggio della Gmg”, si consiglia di arrivare possibilmente in uno di questi periodi: da domenica 17 a martedì 19 luglio, da mercoledì 20 a domenica 24 luglio, da lunedì 1 a venerdì 5 agosto.

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Marocco. Giornata diocesana della gioventù a Casablanca

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“Beati i misericordiosi perché troveranno misericordia”: con questo motto, che fa eco a quello della Giornata Mondiale della Gioventù di Cracovia, in programma il prossimo luglio, i giovani del Marocco si apprestano a vivere una speciale Giornata diocesana della Gioventù. L’evento, in programma dal 15 al 17 aprile, si terrà a Casablanca, città che rientra nella diocesi di Rabat. “Contiamo di essere 300 o 400 – scrive la diocesi nella newsletter informativa sull’evento – ma anche se saremo mille, ci sarà ancora posto, perché il cuore misericordioso di Dio è grande!”.

Giornata all’insegna del Beato Charles de Foucald
La Chiesa locale esorta, quindi, i ragazzi dai 16 ai 35 anni a partecipare numerosi, invitando anche i loro amici e compagni “francofoni, anglofoni, lusofoni, ispanici… di tutte le lingue, perché Gesù ci invita a vivere una Pentecoste: la Pentecoste della carità che sa incarnarsi in tutte le culture”. Figura di riferimento della Giornata sarà Charles de Foucald, del quale proprio quest’anno ricorre il centesimo anniversario della morte. Monaco, sacerdote ed eremita di origini francesi, beatificato da Benedetto XVI nel 2005, de Foucald esplorò il Marocco con un viaggio epocale compiuto tra il giugno 1883 e il maggio 1884. L'enorme quantità di informazioni raccolte gli valsero, il 9 gennaio 1885, la medaglia d'oro da parte della "Società geografica di Parigi".

Il logo dell’evento scelto tramite un concorso di disegno
Quattro, inoltre, le parole-chiave suggerite dalla diocesi di Rabat ai giovani, in preparazione all’evento: iscriversi, affinché la partecipazione sia numerosa, ma ordinata. Prepararsi, praticando le opere di misericordia spirituali e corporali; cantare, imparando un canto appropriato per l’evento, e infine disegnare. La Chiesa locale, infatti, ha lanciato un concorso per scegliere il logo della Giornata. I disegni dei ragazzi, che devono essere consegnati entro il 31 gennaio, dovranno ispirarsi al logo della Gmg di Cracovia o del Giubileo straordinario della Misericordia e dovranno contenere la dicitura “Gmg Casablanca 2016”.

Rabat, diocesi vastissima dalle tante diversità
Possibilmente – conclude la newsletter – i ragazzi dovranno disegnare nel loro anche il profilo della diocesi di Rabat in un modo che “simboleggi tutta la sua diversità”. Estesa, infatti, su un territorio vastissimo, pari a 400 mila km quadrati, la diocesi comprende praticamente tutto il Marocco, a eccezione della zona settentrionale. Il territorio ecclesiastico è suddiviso in 25 parrocchie, raggruppate in quattro regioni: Rabat, Casablanca, Sud ed Est. (I.P.) 

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Domani la 16.ma marcia per la pace Recanati-Loreto

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“Vinci l’indifferenza e conquista la pace”: questo il motto scelto per la 16.ma edizione della Marcia della giustizia e della pace Recanati-Loreto, in programma domani, 30 gennaio. Ad illustrare l’evento – riferisce l’agenzia Sir – sono stati Mario Vichi, direttore della Commissione regionale della Conferenza episcopale Marche per il Lavoro e la Pastorale sociale, don Rino Ramaccioni, parroco della Chiesa di Cristo Redentore di Recanati e ideatore della marcia nel Duemila, e Antonio Mastrovincenzo, presidente del Consiglio regionale, ente che patrocina l’iniziativa.

Presenti anche don Patriciello e don Ciotti
“Obiettivo della marcia – hanno spiegato gli organizzatori – è quello di sensibilizzare l’opinione pubblica sui temi delle ingiustizie e dei grandi conflitti che ci sono nel mondo”. Il tragitto, lungo 9 chilometri, vedrà la presenza di due sacerdoti simbolo della lotta alla mafia: alle 17, ora della partenza da Recanati, sarà presente don Maurizio Patriciello, mentre all’arrivo a Loreto ci sarà don Luigi Ciotti. Lungo il percorso, inoltre, saranno accesi cinque falò che illumineranno le testimonianze di due siriani e due sacerdoti in prima linea nelle guerre in corso in Burundi e Siria. “Ottocentomila morti in dieci anni solo in Burundi”, ha ricordato don Ramaccioni, annunciando l’invio di una lettera a Papa Francesco affinché si parli della delicata situazione presente in Africa.

Non dimenticare i popoli in conflitto: indifferenza uccide più delle armi
“È importante che si parli di quanto sta accadendo – ha ricordato don Rino – affinché l’indifferenza non uccida più di quanto già fanno le armi”. “Questi fatti meritano risonanza – ha aggiunto Vichi – perché l’indifferenza sta diventando uno dei mali di questi nostri Paesi occidentali”. Numerose famiglie e molti giovani prenderanno parte alla marcia, alla quale sono stati abbinati diversi progetti di solidarietà in favore delle popolazioni colpite dalle guerre. In tal modo, ognuno potrà dare il proprio supporto in maniera concreta: da Recanati è già partita per la Siria una prima missione con beni di prima necessità, mentre è in preparazione una seconda spedizione. Per questo, gli organizzatori della marcia auspicano che l’evento possa “diventare il microfono e la cassa di risonanza di questi popoli martoriati”. (I.P.)

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Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LX no. 29

E' possibile ricevere gratuitamente, via posta elettronica, l'edizione quotidiana del Bollettino del Radiogiornale. La richiesta può essere effettuata sul sito http://it.radiovaticana.va

Segreteria di redazione: Gloria Fontana, Mara Gentili, Anna Poce e Beatrice Filibeck, con la collaborazione di Barbara Innocenti.