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Sommario del 24/01/2016

Il Papa e la Santa Sede

Oggi in Primo Piano

Nella Chiesa e nel mondo

Il Papa e la Santa Sede



Papa: Chiesa va dai poveri, cristiani e missionari è la stessa cosa

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Essere cristiano ed essere missionario “è la stessa cosa”, quindi per chi appartiene alla Chiesa la “priorità” è e sarà sempre l’evangelizzazione, soprattutto verso gli “scartati della società”. Papa Francesco lo ha ripetuto all’Angelus celebrato in Piazza San Pietro, durante il quale ha sottolineato che l'evangelizzazione dei poveri non è “assistenza sociale” né “attività politica”, ma “offrire la forza del Vangelo di Dio”. Il servizio di Alessandro De Carolis: 

Il cristianesimo è una questione di prossimità con i deboli, le parole sono fondamentali ma non la cosa più importante. Lo dimostra quando la storia della Salvezza arriva all’anno zero e Gesù appare sulla scena a iniziare la sua missione.

Un Maestro diverso
Prima di lui il popolo ebraico aveva conosciuto molti profeti, ma il nuovo Rabbi che viene da Nazareth – spiega Papa Francesco all’Angelus – si staglia subito sugli altri per l’originalità della sua parola, “che rivela il senso delle Scritture”, e per la “potenza” che impone l’obbedienza anche agli “spiriti impuri”:

“Gesù è diverso dai maestri del suo tempo. Per esempio, non ha aperto una scuola per lo studio della Legge, ma va in giro a predicare e insegna dappertutto: nelle sinagoghe, per le strade, nelle case, sempre in giro. Gesù è diverso anche da Giovanni Battista, il quale proclama il giudizio imminente di Dio, mentre Gesù annuncia il suo perdono di Padre”.

Cristiano e missionario “è la stessa cosa”
In un’assolata e fredda domenica, Francesco commenta l’episodio del Vangelo del giorno, Gesù che nella Sinagoga si alza a leggere il passo di Isaia che parla del mandato a proclamare il “lieto annuncio” ai poveri e la liberazione di tutti gli oppressi, concluso da un commento che lascia stupiti i presenti: “Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato”. In questa affermazione si condensa per il Papa tutta l’esperienza cristiana:

“Evangelizzare i poveri: questa è la missione di Gesù, secondo quanto Lui dice; questa è anche la missione della Chiesa, e di ogni battezzato nella Chiesa. Essere cristiano ed essere missionario è la stessa cosa. Annunciare il Vangelo, con la parola e, prima ancora, con la vita, è la finalità principale della comunità cristiana e di ogni suo membro”.

Vangelo, non politica
I destinatari privilegiati della Buona Novella, ricorda il Papa, sono per Gesù “i lontani, i sofferenti, gli ammalati, gli scartati della società”. Evangelizzarli “significa avvicinarli, servirli, liberarli dalla loro oppressione” e il farlo o meno per Francesco è questione di un ininterrotto esame di coscienza per parrocchie, associazioni, movimenti ecclesiali:

“L'evangelizzazione dei poveri, portare loro il lieto annuncio, è la priorità? Attenzione: non si tratta solo di fare assistenza sociale, tanto meno attività politica. Si tratta di offrire la forza del Vangelo di Dio, che converte i cuori, risana le ferite, trasforma i rapporti umani e sociali secondo la logica dell'amore. I poveri, infatti, sono al centro del Vangelo”.

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Scola: Papa insegna che con Dio pentirsi conta più del peccare

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Nei giorni scorsi, presso il Cineteatro Stella di Milano, il cardinale Angelo Scola, arcivescovo della diocesi ambrosiana, è intervenuto alla presentazione del volume di Papa Francesco "Il nome di Dio è Misericordia. Una conversazione con Andrea Tornielli ". Fabio Colagrande ha chiesto al porporato quali aspetti del libro lo abbiano colpito di più: 

R. – E’ la natura profonda di un racconto, una testimonianza da parte del Santo Padre, in cui emergono delle dimensioni umanissime, legate alla misericordia di Dio. Molto mi hanno impressionato le sue considerazioni su come il Dio buono e Padre ci raccoglie anche a partire dal nostro peccato, se domandiamo perdono. Le considerazioni che il Santo Padre sviluppa sulla confessione, ma in particolare la forte centratura sulle figure di Santi e sulle sue esperienze personali di incontro, anche con gente molto umile, che – lui dice – lo hanno aperto e spalancato a capire il valore della realtà grande, del dono grande della misericordia e la sua capacità di far emergere la verità dell’uomo, vincendo e sconfiggendo nell’uomo il male. Questo è ciò che mi ha colpito di più.

D. – Il Papa scrive che la nostra epoca è un tempo opportuno proprio per riscoprire la misericordia, perché oggi si è smarrito il senso del peccato, ma allo stesso tempo lo si considera spesso imperdonabile…

R. – Certo, questi sono due limiti che lui vede, anche all’interno della comunità cristiana. E proprio per questa ragione sottolinea molto questo fatto impressionante: Dio parte dal punto in cui noi paradossalmente col peccato ci poniamo più lontani da lui e viene a riprenderci, a tirarci fuori, se siamo appena appena disponibili con la sua misericordia. “La misericordia c’è – dice il Papa – ma bisogna che noi accettiamo di fare questo passo di fronte all’abbraccio del Padre”. Quindi, il fattore che può sembrare allontanarci di più da Dio, che è il peccato, se è riconosciuto diventa l’occasione cui Dio si serve per riportarci a Lui. Questa cosa mi impressiona molto, così come mi impressiona l’affermazione che Dio cerca sempre lo spiraglio attraverso il quale insinuarsi nel nostro cuore, nella nostra mente e farci vedere la tenerezza profonda che apre a una serenità, a una pace che ci può far guardare il futuro – anche in una società complessa come la nostra – con grande speranza.

D. – E, infatti, il Papa ripete più volte che il Signore ci anticipa, ci attende sempre…

R. – Laddove noi arriviamo, Lui è già presente. E questo è molto importante. Un ultimo aspetto che mi ha colpito molto è che lui identifica molto bene la moralità, l’essere morali, con la capacità di ripresa: qualunque sia la lontananza in cui ci siamo messi, attraverso il peccato, la misericordia ci consente sempre di riprendere. Il male vinto da Gesù può consentire a noi, che cadiamo nel peccato, di ripartire. Ecco, questo tema della ripresa, che è più importante dell’impeccabilità, secondo me è una nota che dà grande speranza ai cristiani. Può dare grande speranza a noi cristiani...

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Unità dei cristiani, luterani e cattolici insieme in concerto

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L’Unità dei cristiani si esprime anche attraverso la musica che ci fa conoscere differenze e tratti comuni tra le Chiese. Ne daranno nuova prova, al concerto di stasera nella Basilica di S. Giovanni in Laterano, il coro della cappella Musicale Pontificia “Sistina” e il coro luterano di Dresda. In programma il meglio della tradizione cattolica e di quella luterana: “possiamo in musica vivere il tema di questa settimana Chiamati per annunziare a tutti le opere meravigliose di Dio”, spiega al microfono di Gabriella Ceraso, il direttore della Sistina, don Massimo Palombella

R. – Io penso che la gloria di Dio è l’uomo vivente e il prodotto musicale, come qualunque prodotto artistico, è un po’ il vertice dell’attività umana. Allora, un concerto è il modo più grande per dare gloria a Dio, soprattutto quando questa arte è stata scritta e destinata a essere sacramentale: cioè che conduce a Dio, che aiuta in qualche modo per chi la ascolta, per chi ne partecipa, ad andare verso Dio.

D. – Don Massimo, lei con la Cappella Musicale Sistina fa dialogo ecumenico in note da anni. Ha incontrato gli anglicani, gli ortodossi, già più volte la Chiesa luterana: le posso chiedere se c’è una spiritualità luterana in musica?

R. – Sì, sicuramente c’è un gigante nella cultura luterana musicale, che è Johann Sebastian Bach. La musica che noi abbiamo mantenuto nella Chiesa cattolica - Gregoriano o Palestrina - tutto questo mondo, lì è stato assorbito e sintetizzato da Bach. Dall’altra parte, poi, c’è anche un’antropologia teologica differente. Ciò non toglie che noi possiamo trovare enormi punti di incontro. Anzi, molti più i punti di incontro che di divisione quando lavoriamo musicalmente e con una comprensione professionale della musica: quando si esce da un’autoreferenzialità, allora è facile fare dialogo. Su questa base, l’ecumenismo è molto fruttuoso e arricchente, proprio perché al di là di culture diverse, ci sono nozioni di Dio talvolta con sfumature diverse che noi possiamo incontrare e che possono arricchirci.

D. – Quindi, nel concreto, i vostri concerti sono sempre strutturati con il principio di scambiare repertori propri per conoscersi?

R. – Sicuramente, anche in questo caso, nel senso che noi cantiamo qualcosa della tradizione cattolica, come il canto gregoriano e la polifonia di Palestrina. Poi, canterà il coro luterano di Dresda il repertorio tipico della loro cultura. Poi, insieme canteremo un mottetto di Mendelssohn, che è una cultura che ci accomuna: “Beati mortui”, tra l’altro un mottetto che è presente anche alle celebrazioni papali. E poi canteremo insieme il “Tu es Petrus” di Giovanni Pierluigi da Palestrina. E' molto significativo che in qualche modo i luterani cantino insieme a noi il “Tu es Petrus”, perché è arte, è musica, ma dice tanto, cantato soprattutto nella Basilica di San Giovanni in Laterano, davanti alla sedia del Papa. Perché il concerto si svolgerà nell’abside della Basilica di San Giovanni in Laterano.

D. – Quindi, qualcosa di proprio, qualcosa che vi accomuna, qualcosa in cui entrambi vi riconoscete…

R. – Precisamente. È molto interessante trovare questi punti comuni. E generalmente i punti comuni li troviamo nelle fonti. Quando noi andiamo a toccare la polifonia classica, troviamo punti comuni senza troppi sforzi.

D. – Questo cosa vi insegna? Cosa significa per voi?

R. – Significa che la cultura, lo studio e la ricerca seria e professionale sono veicoli di evangelizzazione. Non è fine a sé stessa. Noi facciamo tutto questo fondamentalmente per l’evangelizzazione. E quindi lo studio serio, la cultura, la professionalità, la serietà professionale è ciò che permette veramente di trovare tante strade di unità e di evangelizzazione.

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Francesco di Sales, "giornalista" ai tempi della Controriforma

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San Francesco di Sales, Patrono dei comunicatori dal 1923 per volontà di Pio XI, indicato come modello dei giornalisti cattolici da Paolo VI all’indomani del Concilio Vaticano II, trasmette ancora ai nostri giorni un messaggio moderno, controcorrente e lungimirante. Il servizio di Roberta Gisotti: 

“Diciamo così: Dio è il pittore, la nostra fede è la pittura, i colori sono la Parola di Dio, il pennello è la Chiesa”: l’uso sapiente di parole e immagini, un dono di Francesco, il vescovo "giornalista"’, teologo nel tempo della Controriforma, nato da famiglia nobile francese nel 1567, nel castello di Sales in Alta Savoia, primogenito di 13 figli. Destinato alla carriera giuridica e formatosi a Parigi e a Padova, sotto la guida spirituale del gesuita, padre Antonio Possevino, matura la sua vocazione religiosa e ritornato in patria è ordinato sacerdote. E' in contatto a Roma e a Parigi con i circoli impegnati come lui nel rinnovamento interiore della Chiesa. Ben presto è destinato a Ginevra e lì consacrato vescovo, a 32 anni, dopo sei di sacerdozio.

Anticipatore dei nuovi media
Francesco predicatore instancabile - si contano 30 mila sue lettere - in un contesto ostile dominato dal calvinismo, sperimenta il fallimento di non essere ascoltato dal pulpito. Ma non si scoraggia. “Bisogna avere un cuore capace di pazientare - scriveva - i grandi disegni si realizzano solo con molta pazienza e con molto tempo”. Ma la sua idea vincente è di pubblicare dei manifesti, foglietti volanti, una sorta di tweet del tempo e di affiggerli ai muri o farli scivolare sotto le porte delle case per raggiungere un gran numero di persone, anche i più lontani dalla fede. Precursore di nuovi media rispetto a quelli del tempo, preoccupato di proporre un modello di vita cristiana alla portata delle persone comuni, rinuncia all’invettiva, convinto che “gli uomini fanno di più per amore e carità che per severità e rigore”. “Se sbaglio, - spiegava - voglio sbagliare piuttosto per troppa bontà che per troppo rigore”, Francesco muore a 55 anni, canonizzato nel 1665, tra i padri della spiritualità moderna, protagonista dell’umanesimo devoto.

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Oggi in Primo Piano



Siria. Raid russi su Deir Ez Zour, almeno 47 morti

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Sono almeno 47 le vittime dei bombardamenti russi di queste ore sulla città siriana di Deir Ez Zour, nel nord, teatro di un’offensiva del cosiddetto Stato islamico. Intanto, Damasco strappa ai ribelli il controllo di Rabia, nella provincia costiera di Latakia. Incerta la data di domani come inizio dei colloqui intra-siriani mediati dall’Onu a Ginevra. Il servizio di Roberta Barbi: 

Dura dal marzo scorso l’assedio dello Stato islamico alla città di Deir Ez Zour, nel nord della Siria, controllata dal governo, sulla quale si sono concentrati i raid aerei russi di questi ultimi giorni che hanno causato diversi morti, tra cui donne e bambini, e decine di feriti, molti gravi. Sale così a 90 il bilancio provvisorio dei morti da venerdì scorso in tutta la provincia, secondo l’Osservatorio siriano dei diritti umani. Intanto, sempre sul terreno, Damasco ha riconquistato ai ribelli Rabia, nella provincia costiera di Latakia, storica roccaforte alawita del governo di Assad.

Colloquio Lavrov-Kerry
Sul fronte diplomatico, il ministro degli Esteri russo, Lavrov, e il segretario di Stato americano, Kerry, hanno avuto un colloquio telefonico sulla situazione in Siria, in cui entrambi avrebbero ribadito il proprio appoggio all’inviato speciale dell’Onu Staffan de Mistura, che domani incontrerà la stampa e renderà nota la data d’inizio dei nuovi colloqui intra-siriani che si svolgeranno a Ginevra sotto l’egida delle Nazioni Unite. In questo contesto, tuttavia, hanno creato scalpore le dichiarazioni di ieri del vicepresidente degli Stati Uniti, Joe Biden, citato da al Arabiya, secondo cui gli Usa non escluderebbero “una soluzione militare” al conflitto siriano, in particolare per combattere lo Stato islamico.  

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Birmania. Amnistiati 101 prigionieri, metà per reati politici

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Sono oltre 52 i prigionieri politici birmani rilasciati in questi giorni, nell'ambito di un'amnistia concessa dalle autorità a 101 prigionieri –  molti i criminali comuni –  che si vanno a sommare ai 1.300 detenuti liberati dal 2011 a oggi, cioè da quando è iniziato il processo di riforme del governo Thein Sein. Lo specifica l'Associazione per l'assistenza ai prigionieri politici che dalla Thailandia monitora le condizioni dei detenuti di coscienza in Birmania. Restano in carcere ancora un ottantina di detenuti di coscienza, mentre altri 408 sono in attesa di processo. Intanto, a fine mese il nuovo parlamento birmano si riunirà per iniziare le procedure per l'elezione del prossimo presidente, che entrerà in carica a marzo. Sulla liberazione dei detenuti, ascoltiamo Cecilia Brighi, segretario generale dell’Associazione “Italia Birmania insieme”, al microfono di Marina Tomarro

R. – Su 101 detenuti, solo 52 sono prigionieri politici, mentre nella lista dei prigionieri politici ancora in carcere ce ne risulta un numero molto alto: sono 78 le persone che non sono state liberate. E poi ci sono circa 400 persone in attesa di giudizio, che non sono in carcere ma che rischiano di essere condannate per reati politici. Quindi, questo fatto dell’amnistia è importante. Il presidente della Repubblica birmana nel corso del suo mandato ne ha liberati oltre mille. Però, certo, è preoccupante il fatto che persone come il monaco U Gambira sia stato arrestato nei giorni scorsi proprio perché aveva partecipato ed era tra i leader della “rivoluzione dello zafferano”. Questo è uno degli esempi di persone che rischiano di restare in carcere.

D. – La vittoria alle elezioni dello scorso novembre della Lega nazionale per la democrazia (Lnd) di Aung San Suu Kyi quanto ha influito secondo lei?

R. – È stato un fatto importantissimo. Sono state delle elezioni storiche: Aung San Suu Kyi ha vinto con il 77% tutti i seggi nel parlamento nazionale, nei parlamenti regionali e dei singoli Stati. L’andamento delle elezioni è stato molto positivo, le norme internazionali sono state rispettate. Quindi, è stato importante legare l’amnistia al buon andamento delle elezioni e questa è stata la motivazione per cui sono stati liberati i detenuti. Certo è che alcuni sono ancora in carcere e anche ridotti al lavoro forzato.

D. – Qual è la situazione delle carceri nell’ex Birmania?

R. – Le carceri birmane sono delle carceri molto dure, che prevedono anche il lavoro forzato. Sono carceri in cui le condizioni di vita sono pesantissime. I detenuti politici sono stati vittime anche di torture. C’è un problema ancora oggi presente nelle carceri birmane.

D. – Con la vittoria di Aung San Suu Kyi  è iniziato anche un cammino di pace per il Paese. Ma allora come si presenta la situazione attuale?

R. – Il parlamento si riunirà per la prima volta il primo febbraio. Il nuovo parlamento dovrà nominare il presidente della Repubblica e i due vicepresidenti. Poiché la Lnd ha vinto le elezioni può candidare il presidente della Repubblica. Questo è un fatto molto importante, anche se Aung San Suu Kyi non potrà essere presidente, perché è bloccata dalle norme costituzionali attuali. Il processo di pace sarà uno degli elementi fondanti del percorso del nuovo parlamento e del nuovo governo. E infatti, dopo la prima Conferenza di pace, che si è svolta nei primi di gennaio e che è stato un ultimo appuntamento del vecchio governo, Aung San Suu Kyi ha dichiarato che ci sarà un processo di pace molto inclusivo, che coinvolgerà tutte quelle nazionalità etniche che ancora non hanno firmato l’accordo per il cessate-il-fuoco. E ci saranno degli sviluppi – ci auguriamo – anche sul piano del federalismo e dell’inclusione di tutte le nazionalità etniche nei processi decisionali anche di carattere economico. È un fatto storico che Aung San Suu Kyi e il suo partito abbiano vinto e altrettanto sarà fondamentale per la crescita del Paese raggiungere un accordo di pace con tutte le nazionalità etniche, che veda una prospettiva di inclusione sociale di tutti i cittadini birmani e di tutte le etnie.

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Convegno sul traffico di armi, banche sempre meno trasparenti

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Dalle famigerate "cluster bombs" a ogni sorta di mitragliatrici e lanciarazzi, fino ad arrivare ad arsenali da guerra. Ammonta a circa due miliardi e mezzo di euro il flusso di denaro che orbita intorno al traffico delle armi e non conosce periodi di crisi. Se ne è parlato al convegno “Pace nel mondo e basta con il traffico delle armi!”, organizzato dal Centro missionario diocesano di Roma. Il servizio di Francesca Di Folco

Siano maledetti quanti per arricchirsi fanno la guerra, che provoca vittime innocenti e riempiono le tasche dei trafficanti d’armi: con questa invettiva Papa Francesco ha denunciato l'efferatezza delle guerre non convenzionali e come sia stato raggiunto un livello di crudeltà spaventosa di cui spesso sono vittime civili inermi, donne e bambini. Per il Pontefice questi "sono i frutti della guerra, è una Terza guerra mondiale ma a pezzi". Renato Cursi, portavoce del Pontificio Consiglio Giustizia e Pace per questioni relative al magistero della Chiesa sul traffico di armi:

R. – L’insegnamento della Chiesa trae ispirazione, certamente, da quello che è stato l’insegnamento di Gesù alla pace. A partire da quello, l’insegnamento della Chiesa si poi dovuto interfacciare con un mondo segnato dalla violenza e dal peccato. Per cui, se da una parte il Magistero della Chiesa, la Dottrina Sociale della Chiesa, il Catechismo della Chiesa Cattolica parlano del principio della legittima difesa a certe rigorose condizioni, dall’altra però è chiaro che le armi non sono una risposta al problema della guerra. Anzi, sono intrinsecamente violente e sono una minaccia alla pace. Papa Francesco fa fare dei passi in avanti a quello che è il cammino della comprensione cristiano-cattolica del problema del commercio delle armi, nel senso che denuncia la follia della guerra. Ha chiamato anche con degli epiteti molti forti questi trafficanti di armi: li ha chiamati “maledetti”, contrapponendoli agli operatori di pace. Ha chiamato “ipocriti” quei potenti che da una parte parlano di pace e dall’altra trafficano e vendono armi. Francesco non ha avuto paura nemmeno di collegare questo enorme fenomeno migratorio, cui stiamo assistendo, al commercio delle armi, perché va a provocare situazioni violente che generano poi queste migrazioni. Nella sua visita al Congresso degli Stati Uniti d’America, anche lì non ha esitato a condannare il commercio delle armi e ha invitato ogni persona a farsi carico della propria responsabilità nei confronti di questa industria e di questo commercio di armi.

Maurizio Simoncelli, vicepresidente dell’Istituto di ricerche internazionali Archivio disarmo, spiega quali sono i maggiori Paesi interessati al traffico delle armi e quale ruolo ricopre l’Italia in questo scacchiere geo-economico:

R. – Le esportazioni di armi, in questi ultimi anni, sono andate continuamente crescendo. Rimangono comunque tra i grandi esportatori i cinque Paesi membri del consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, più altri Paesi minori, tra cui l’Italia, l’Ucraina… Quello che preoccupa è che le importazioni si stanno dirigendo in misura significativa verso le aree "calde" come il Nord Africa e il Medio Oriente: anche se ufficialmente le armi non vanno direttamente ai combattenti, ma vanno a finire nei Paesi vicini e poi inevitabilmente trasmigrano. Tutto questo non può che aumentare l’instabilità dell’area. La risposta, purtroppo, della comunità internazionale non sembra quella di fermare questi flussi di armamenti, ma anzi assistiamo a un ulteriore invio di armi a tutti i Paesi coinvolti. Quindi, di fatto, tendiamo a provocare una ulteriore escalation dei conflitti nell’area. Ultimo esempio drammatico sono le forniture di componenti di bombe d’areo da parte di una azienda italiana, che ha sede in Sardegna, che sta appunto fornendo all’Arabia Saudita, la quale è impegnata in una guerra nello Yemen, a capo di una coalizione, in una missione non autorizza né avallata dalle Nazioni Unite. E questo è in contrasto con quanto dispongono le normative italiane e in particolare la legge 185 del ’90, che invece è molto precisa e tuttora vigente.

Gli istituti bancari sono attori di primo piano nella filiera della armi: dal marzo 2013 non sono più obbligati a chiedere autorizzazioni al Mef, Ministero dell’Economia e le Finanze per i trasferimenti di denaro collegati a operazioni in tema di armamenti. Ascoltiamo ancora Simoncelli:

R. – Da parte delle banche c’è una volontà di essere meno controllate rispetto a questi commerci e abbiamo anche assistito alla scomparsa di informative collegate al ruolo delle banche, nell’ambito della relazione che la Presidenza del Consiglio annualmente presenta al parlamento rispetto al commercio delle armi. E questa è una ulteriore mancanza di informazione, che penalizza invece i cittadini che vorrebbero sapere se i propri risparmi vanno a sostenere, in un modo o nell’altro, le transazioni finanziarie di queste banche. La relazione presentata dalla Presidenza del Consiglio appare sempre meno trasparente. E l’informazione è la base di ogni democrazia…

All’interno della relazione non figurano i dettagli delle operazioni bancarie e delle operazioni “autorizzate”: vi sono solo le "operazioni segnalate", quelle cioè che ogni anno svolge ogni banca, ma che non permettono di risalire all'intera operazione autorizzata.

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Family Day, l'adesione del Movimento Cristiano Lavoratori

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Sempre intenso in Italia il dibattito politico sulle Unioni civili, in vista dell'approdo in aula al Senato il prossimo 26 gennaio del ddl Cirinnà. Ieri in molte piazze d'Italia si sono svolte le manifestazioni delle cosiddette "famiglie arcobaleno", che sostengono il disegno di legge. Intanto, prendono sempre più corpo le adesioni al "Family Day" convocato per sabato prossimo 30 gennaio al Circo Massimo a Roma. Tra i partecipanti, anche anche il Movimento Cristiano Lavoratori, il cui presidente, Carlo Costalli, spiega al microfono di Paolo Ondarza le ragioni di questa scelta: 

R. – Noi siamo convinti che la famiglia, formata da un uomo e una donna, debba essere difesa sui principi, sui valori e in atti concreti, con una legislazione che permetta una fiscalità d’appoggio, che permetta la qualità di un lavoro decente… Mi sembra, quindi, che tutte le iniziative che vanno nella direzione della difesa della famiglia debbano essere sostenute. D’altra parte, è un momento particolarmente difficile: c’è il dibattito in parlamento su questa proposta di legge Cirinnà, che va nella direzione opposta a quelli che sono i nostri valori. Abbiamo riflettuto a fondo, con moderazione. Abbiamo dato anche disponibilità al dialogo su alcuni punti, ma quando il governo ha deciso di andare avanti – soprattutto su due punti, quali l’utero in affitto e le adozioni – non c’è stata altra scelta che scendere in piazza con il nostro popolo.

D. – Questo non vuol dire, però, non riconoscere i diritti civili che il Ddl Cirinnà, nelle intenzioni, si propone di tutelare...

R. – Certamente, certamente. Non a caso ho detto che siamo stati disponibili al dialogo e abbiamo deciso questa adesione soltanto un paio di giorni fa. D’altra parte, il Santo Padre ieri (giovedì 22 - ndr) è stato chiarissimo su che cosa è la famiglia e sulla disponibilità non solo alla misericordia, ma anche all’attenzione ad altre situazioni. Ci sono alcuni diritti che già ci sono e alcuni che devono – che devono: non possono ma devono – essere meglio tutelati.

D. – Dal Diritto Civile, voi dite…

R. – Certamente. Però, in questa legge si fa passare una equiparazione con la famiglia che io credo che sia anche incostituzionale. Sul resto si può discutere, anzi noi siamo dei sostenitori.

D. – Presidente, questa manifestazione è una occasione, ancora di più, per ribadire come la famiglia per lo Stato rappresenti una risorsa, un investimento e quindi, in questo senso, vada anche tutelata. Quindi, è un’occasione per ricordare come troppe volte siano state chieste quelle politiche per la famiglia, che però purtroppo non sono mai state tradotte in atti concreti…

R. – Certo. Noi viviamo questa iniziativa del Family Day in positivo, non contro o meglio solo contro alcune parti della legge. C’è il tema delle politiche fiscali che il governo ogni tanto tira fuori, c’è il tema delle deleghe rispetto alla riforma fiscale che deve assolutamente trovare attuazione così come la tutela della famiglia con figli… Siamo un Paese che ormai non fa più figli e non è che il tema economico e fiscale sia indifferente rispetto a questo . E poi c’è il tema del lavoro che a noi sta particolarmente a cuore e che anche il Santo Padre ha sottolineato con forza nell’udienza che ci ha concesso: il lavoro di tutti, in particolare della donna, perchè le sia data la possibilità di orari di lavoro particolari.

D. – A chi vorrebbe declinare il termine famiglia al plurale, si parla infatti di "famiglie arcobaleno", voi dite: noi sosteniamo la famiglia, quella vera...

R. – Quella vera, quella che è prevista anche dalla Costituzione, quella che ha detto il Santo Padre, quella fra un uomo e una donna e aperta alla procreazione. Mi sembra che il popolo italiano su questo non abbia dubbi. Tutti i sondaggi vanno in questa direzione. Molti media fanno tanta confusione e vogliono farci passare per retrogradi, conservatori, oscurantisti… No! I diritti civili li riconosciamo, ma la famiglia è un’altra cosa. Dobbiamo cercare tutti, in questa settimana e anche nelle settimane seguenti, perché la legge non sarà approvata in tempi brevi, di chiarire questo: la famiglia per noi è quella di un uomo e una donna. Sui diritti siamo – almeno in gran parte del mondo cattolico – d’accordo.

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Secam: teologia migrazioni, chiusa prima Conferenza per l'Africa

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Si  è conclusa nel pomeriggio di ieri a Brazzaville, nella Repubblica del Congo, la prima Conferenza sulla teologia della mobilità umana in Africa, voluta dal Simposio delle Conferenze episcopali di Africa e Madagascar (Secam). Il servizio di Jean-Baptiste Sourou:

Rispondendo all’appello lanciato loro giovedì scorso dai vescovi, durante la cerimonia di apertura dei lavori, la cinquantina di convegnisti ha lavorato con impegno e slancio per trovare vie nuove per la pastorale della migrazione in Africa. Le relazioni, molto stimolanti,  erano divise in tre gruppi: teologico-pastorale, sociopolitico e storico.

E’ stata fatta una rilettura degli eventi in Africa, dagli anni Sessanta, il periodo delle indipendenze, fino ad oggi, per scoprire nelle pieghe della storia i germi delle migrazioni. Al periodo dell’autonomia ritrovata, è ben presto succeduta un’era di ricerca di identità politica conclusasi con l’arrivo dei regimi militari. Essi volevano raddrizzare gli errori dell’inizio che bloccavano il funzionamento degli Stati, ma hanno finito per confiscare tutte le libertà e i diritti dei cittadini. Quella esperienza militare ha condotto alla fine molti Paesi al fallimento con gravi crisi sociali, economiche e politiche. Iniziano negli anni Novanta, in molte nazioni, le Conferenze nazionali per facilitare il passaggio pacifico dalla dittatura alla democrazia. "Purtroppo, ha fatto notare un relatore, la democrazia non è stata sinonimo di sviluppo economico per le popolazioni",  in particolare per i giovani. In più, lo sfruttamento selvaggio e sconsiderato delle risorse naturali e dell’ambiente "ha un impatto negativo sulle popolazioni", che si ritrovano con terreni fertili e fonti d’acqua totalmente inquinate da prodotti tossici. La deforestazione sta distruggendo l’ecosistema di intere zone. E’ stato anche sottolineato come alcune zone, storicamente poli di attrazione economica per migranti all’interno dell’Africa, siano state destabilizzate da guerre di ogni genere. Tutte cause che  impoveriscono ulteriormente le comunità, aggravano le tensioni e spingono popolazioni intere sulle vie della migrazione.

A livello pastorale, sono state fatte proposte coraggiose. Un teologo congolese ha suggerito di andare oltre il fatto di considerare "il migrante soltanto come qualcuno che ha bisogno di aiuto e di solidarietà" per vedere in lui "la vittima di una situazione nella quale potrei avere anch’io una responsabilità". Basandosi sulla figura di Giuseppe in Egitto, un altro teologo ha suggerito di vedere nell’immigrato "un’opportuna da accogliere" perché egli viene "con tutti i suoi talenti da investire nel Paese di arrivo". L’esperienza delle comunità ecclesiali di base è stata anche suggerita come via percorribile. 

Considerando infine la migrazione come "un segno dei tempi per la Chiesa-Famiglia di Dio in Africa", l’assemblea ha suggerito che la gerarchia ecclesiale in Africa rifletta, analizzi e decida il cammino da seguire. Essa deve organizzarsi perché ci vogliono delle azioni concrete e forti che devono includere una pastorale audace presso l’Unione Africana, presso la quale è osservatore il Simposio delle Conferenze episcopali di Africa e Madagascar (Secam). "La migrazione non si può fermare perché è un fenomeno naturale, ma quella forzata è da combattere affrontandone le cause", ha affermato la Conferenza. La Chiesa in Africa, come ha suggerito il segretario generale dell’Acerac, padre Mesmin Prosper Massengo, deve "vigilare, vegliare, e profetizzare" con molto coraggio nella lotta contro le cause delle migrazioni forzate dentro e fuori il continente.

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Nella Chiesa e nel mondo



Usa. Tempesta di neve sull’East coast, 18 finora le vittime

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Continua a salire il bilancio della tempesta di neve "Jonas" che da venerdì insiste sulla costa orientale degli Stati Uniti: finora sono 18 le vittime accertate in diversi Stati, tre solo a New York dove stanno cadendo 8 cm l’ora e si potrebbe arrivare a una coltre di 60. Tutte le vittime newyorkesi sono state colte da infarto mentre stavano spalando la neve davanti alla propria abitazione, due nel Queens e uno a Staten Island. L’intera città è stata chiusa dal sindaco De Blasio, che ha vietato la circolazione e bloccato la metropolitana, come pure i tunnel che collegano Manhattan al resto di New York e al New Jersey.

Dichiarata l’emergenza in 11 Stati
Ma la "Grande Mela" non è l’unica città fantasma degli Usa in queste ore. Paralizzate anche Washington, Philadelphia e Baltimora a causa della tempesta – prontamente ribattezzata “Snowzilla” dal Washington Post – che una volta passata potrebbe lasciare dietro di sé danni per un miliardo di dollari, secondo le stime. Finora, il picco massimo che ha raggiunto la neve è 71 cm a Terra Alta, in Virginia, ma sono 11 gli Stati che hanno dichiarato lo stato d’emergenza: Tennesse, Georgia, Pennsylvania, Maryland, Kentucky, North Carolina, New Jersey, New York, Virginia e West Virginia. Oltre che nella città di New York, vittime si sono contate in North Carolina, Kentucky e Tennessee, Virginia, Arkansas e Maryland.

Voli cancellati e cittadini al buio
Nonostante nessuno sia stato colto di sorpresa da "Jonas", perché la tempesta era stata largamente prevista e annunciata dai meteorologi di tutto il Paese, sono stati finora 8.300 i voli cancellati e 200 mila le persone rimaste senza corrente elettrica, ma in tutti gli Stati più colpiti il rischio di black-out che potrebbe lasciare al buio e al freddo la popolazione, resta molto alto. (R.B.)

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Medio Oriente. Morto 17.enne palestinese a Gerusalemme Est

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Un adolescente palestinese di 17 anni, identificato come Nabil Halabiya, è morto questa mattina all’alba nel villaggio di Abu Dis, nei pressi di Gerusalemme Est, mentre stava trasportando un ordigno esplosivo. Il fatto è avvenuto vicino a un posto di polizia israeliana, ma non si sa se la bomba fosse destinata a questo obiettivo, né si conoscono le cause della deflagrazione. Attivisti palestinesi hanno dichiarato tre giorni di lutto nazionale, all’indomani di un’altra giovanissima morte, quella di una ragazzina palestinese di 13 anni uccisa dagli spari di una guardia israeliana in un insediamento in Cisgiordania.

Arrestati due membri di Hamas
I media israeliani riferiscono che la polizia ha arrestato la notte scorsa a Hebron, in Cisgiordania, due membri di Hamas, uno dei quali sarebbe l’ex ministro e attuale membro del parlamento palestinese, Issa al-Jabari.

Abu Mazen (Anp): pronti alle trattative
I palestinesi sono pronti a tornare al tavolo dei negoziati “se verrà interrotta la costruzione delle colonie da parte di Israele e se Tel Aviv libererà la quarta tranche di prigionieri”. Lo ha detto il presidente dell’Autorità nazionale palestinese, Abu Mazen, ribadendo la propria opposizione all’estremismo in tutte le sue forme e la necessità di formare “un governo di unità nazionale che includa Hamas”. Infine, il leader dell’Anp ha anche dichiarato che gli accordi si fermeranno se Israele rifiuterà la soluzione di uno Stato palestinese indipendente con capitale Gerusalemme Est. (R.B.)

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Portogallo al voto per le presidenziali, favorito de Sousa

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Urne aperte oggi dalle 8 alle 19 ora locale in Portogallo, dove 9.7 milioni di aventi diritto sono chiamati a eleggere il nuovo capo dello Stato. Un’elezione da record, quella di oggi, perché i portoghesi si troveranno sulla scheda una rosa di 10 nomi, ma avrà la meglio solo chi riuscirà a superare la soglia critica del 50% dei voti. Al caso contrario si andrà al ballottaggio, già previsto per domenica 14 febbraio. Il vero spettro che aleggia su questa tornata elettorale è però l’astensionismo. Alle ultime presidenziali di cinque anni fa toccò il 53.48%. 

Favorito il candidato di centro-destra
Secondo gli ultimi sondaggi diffusi venerdì scorso, prima della giornata di silenzio elettorale di ieri, il favorito a occupare per i prossimi cinque anni Palacio de Belem è Marcelo Rebelo de Sousa, ex presidente dei socialdemocratici di centrodestra, che dovrebbe riuscire ad aggiudicarsi tra il 52 e il 55% dei consensi. Politico di esperienza e da 15 anni protagonista dell’analisi politica in tv, de Sousa durante la campagna elettorale si è mostrato anche piuttosto conciliante con il nuovo premier socialista, Antonio Costa, eletto nell’ottobre scorso.

Gli avversari di sinistra
Il principale avversario di de Sousa alle elezioni di oggi è Antonio Sampao da Novoa, ex rettore dell’università di Lisbona, che secondo le previsioni non dovrebbe andare oltre il 17-22% dei voti. I rivali socialisti del candidato di centrodestra, infatti, scontano la frammentarietà con cui si sono presentati alle elezioni, con ben 5 candidati su un totale di 10. Tra gli altri, ci sono l’ex ministro socialista, Maria de Belem Roseira, e tra le new entry Marisa Matias, eurodeputato del Blocco di sinistra, molto vicina agli spagnoli di Podemos e ai greci di Syriza.

L’addio alla politica del presidente uscente
Chiunque vincerà, andrà a sostituire il 76.enne Anibal Cavaco Silva, simbolo dei conservatori portoghesi, che dà l’addio alla politica dopo aver guidato il Portogallo sia come premier tra la metà degli anni Ottanta e Novanta, sia come presidente con due mandati consecutivi che gli impediscono – come recita la Costituzione – di candidarsi per un terzo. (R.B.)

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Il vescovo di Basilea, mons. Gmür, offre alloggio ai rifugiati

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“I rifugiati hanno bisogno: è inverno, fa freddo e noi offriamo loro un tetto”: così mons. Felix Gmür, vescovo di Basilea, in Svizzera, spiega la decisione di ospitare una dozzina di profughi, inclusi donne e bambini eritrei e siriani, in alcuni locali messi a disposizione dalla diocesi. In un’intervista all’agenzia Apic, il presule sottolinea che “una comunità ecclesiale può e deve, se ha effettivamente alloggi liberi, metterli a disposizione dei richiedenti asilo i quali, a loro volta, dovrebbero poter corrispondere all’ambiente cristiano di una parrocchia”.

Occorrono soluzioni rapide per i richiedenti asilo
Il vescovo di Basilea distingue, poi, i compiti dello Stato da quelli della Chiesa: al primo, dice, spettano le decisioni politiche sui richiedenti asilo, per i quali il presule auspica comunque “soluzioni rapide”. Alla Chiesa spetta, invece, “accogliere ed accompagnare queste persone, spesso traumatizzate”. Tale missione viene svolta grazie all’aiuto “dei volontari e dei servizi sociali che coordinano le operazioni”.

Comunità ecclesiale aiuti i bisognosi in base alle possibilità di ciascuno
“Ripeto ancora una volta – ribadisce mons. Gmür – che sono fondamentalmente favorevole al fatto che la comunità ecclesiale si impegni in favore dei richiedenti asilo, in base alle sue possibilità ed alle sue risorse”. Infine, il vescovo elvetico ricorda che la Chiesa locale presta il suo operato anche nei confronti dei poveri e degli indigenti, attraverso gli appositi organismi caritativi. (I.P.)

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Argentina, mons. Aguer: Giubileo è perdono e vita di carità

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Il Giubileo straordinario della misericordia dona ai fedeli “la possibilità di iniziare una nuova vita”, soprattutto grazie all’indulgenza plenaria che esso comporta: è quanto affermato da mons. Héctor Rubén Aguer, arcivescovo di La Plata, in Argentina, in una riflessione diffusa nei giorni scorsi. “L’Anno Santo – spiega il presule – è un periodo di tempo per ricevere il perdono, ma ci ricorda anche che noi dobbiamo esercitare la misericordia con i nostri fratelli, soprattutto con i nostri fratelli più poveri”.

Occuparsi dei poveri e prendersi cura delle loro necessità
“Si tratta di un Anno di gioia – continua mons. Aguer – ma allo stesso tempo è anche un anno penitenziale, un anno in cui possiamo chiedere a Dio la misericordia”. E a tal proposito, l’arcivescovo di La Plata cita San Cesario di Arles che diceva: “Ci sono due tipi di misericordia: una umana e terrena, un’altra celestiale e divina. La prima consiste nell’occuparsi dei poveri, prestando attenzione alle loro necessità. La seconda è quella impartita da Dio e consiste nel perdono dei peccati”. “Queste due realtà – sottolinea il presule – sono riunite nel Giubileo”.

Attenzione ai bambini abbandonati ed ai giovani “né-né”
Quindi, mons. Aguer ribadisce che “i più bisognosi non sono soltanto i poveri che bussano alla nostra porta per chiedere un po’ di cibo, ma anche i tanti bambini abbandonati, i tanti giovani ‘né-né’, cioè che né studiano, né lavorano, i tanti ragazzi dipendenti dall’alcool o dalla droga, le tante famiglie disgregate”. Per questo “stiamo vivendo il Giubileo – conclude il presule – ed è con questo spirito che dobbiamo accostarci ad esso”. (I.P.)

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In Colombia, Seminario pastorale su “Chiesa in uscita”

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“Una Chiesa in uscita, povera per i poveri”: è questo il tema del Seminario organizzato dal Dipartimento della Giustizia e della solidarietà del Celam (Consiglio episcopale latinoamericano), insieme al Segretariato latinoamericano e dei Caraibi, in occasione del Giubileo della misericordia. L’evento si terrà a Bogotà, in Colombia, dal 25 al 29 gennaio.

Predicare il Vangelo con la testimonianza
“L’obiettivo del Seminario – si legge sul sito dei vescovi cileni, tra i partecipanti all’evento tramite la Caritas locale – è quello di incoraggiare la Pastorale sociale dei diversi Paesi a rispondere alla sfida di essere una Chiesa capace di mostrare il volto misericordioso di Dio e la gioia del Vangelo, contribuendo alla nascita di una nuova società più giusta, solidale, pacifica ed ecologica”. “Papa Francesco – si legge ancora – ci ha chiamati a promuovere nel continente una nuova fase di evangelizzazione, con uno stile inedito, grazie al quale i discepoli missionari annunciano la Buona Novella non solo con le parole, ma soprattutto con una vita trasfigurata dalla presenza di Dio”.

I poveri, destinatari privilegiati del Vangelo
Di qui, il richiamo a essere una “Chiesa samaritana capace di aprire il cuore a quanti vivono nelle più disparate periferie esistenziali, che spesso il mondo moderno crea in maniera drammatica”, come scrive Papa Francesco nella “Misericordiae Vultus”, la Bolla di indizione del Giubileo (n. 15). Soprattutto, conclude la nota, una Chiesa, in cui “i poveri siano i destinatari privilegiati del Vangelo”. (I.P.)

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Utrecht, evento interreligioso nello spirito di Assisi 1986

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Un evento interreligioso che si ispira alla Giornata Mondiale di Preghiera per la Pace che Papa Giovanni Paolo II volle ad Assisi nel 1986, si svolgerà a Utrecht il 25 gennaio per parlare, meditare e pregare per la pace.  

Tra i leader cattolici il card. Willem Eijk
Le comunità di fede presenti nei Paesi Bassi si ritroveranno alle 13.45 per un momento di preghiera ciascuna nel proprio luogo di culto, per poi confluire in un incontro finale congiunto presso il centro TivoliVredenburg, alla presenza della Principessa Beatrice. Tra i rappresentanti dei cattolici - informa il sito della Conferenza episcopale olandese, citato dall’agenzia Sir -  saranno il cardinale di Utrecht, Willem Eijk, mons. Herman Woorts, referente per i rapporti con l’ebraismo, il vescovo emerito Jan van Burgsteden, presidente del Consiglio cattolico per il dialogo interreligioso (Cid).

In città un pellegrinaggio di pace e dialogo
Dopo la preghiera, alle 14.30, i partecipanti cristiani, i musulmani, gli ebrei gli indù e i buddisti sfileranno per il centro di Utrecht in un pellegrinaggio di pace e dialogo e ciascuna comunità di fede porterà qualcosa di appartenente alla propria tradizione e simboleggiante la pace. A coordinare l’evento è l’Associazione interreligiosa "Uniti nella libertà", “In Vrijheid Verbonden (Ivv),  che riunisce persone appartenenti a religioni e filosofie diverse, "che lavorano insieme per mostrare la ricchezza delle diverse tradizioni religiose e filosofiche nei Paesi Bassi, nel rispetto dell’unicità di ciascuno”.

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Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LX no. 24

E' possibile ricevere gratuitamente, via posta elettronica, l'edizione quotidiana del Bollettino del Radiogiornale. La richiesta può essere effettuata sul sito http://it.radiovaticana.va

Segreteria di redazione: Gloria Fontana, Mara Gentili, Anna Poce e Beatrice Filibeck, con la collaborazione di Barbara Innocenti.