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Sommario del 19/01/2016

Il Papa e la Santa Sede

Oggi in Primo Piano

Nella Chiesa e nel mondo

Il Papa e la Santa Sede



Francesco: non c’è Santo senza passato, né peccatore senza futuro

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Dio non si ferma alle apparenze, ma vede il cuore. E’ quanto affermato da Francesco nella Messa mattutina a Casa Santa Marta, incentrata sulla Prima Lettura che narra l’elezione del giovane Davide a re d’Israele. Il Papa ha sottolineato che, anche nella vita dei Santi, ci sono tentazioni e peccati, come dimostra proprio la vita di Davide, ma mai - ha avvertito - bisogna "usare Dio per vincere una causa propria". Il servizio di Alessandro Gisotti

Il Signore rigetta Saul “perché aveva il cuore chiuso", non gli aveva ubbidito e pensa dunque a scegliere un altro re. Papa Francesco ha preso spunto dal Primo Libro di Samuele laddove si narra l’elezione di Davide.

Il Signore vede il cuore, non si ferma alle apparenze
Una scelta lontana dai criteri umani, ha sottolineato, giacché Davide era il più piccolo dei figli di Iesse, un ragazzino. Ma il Signore fa capire al profeta Samuele che per lui non conta l’apparenza, “il Signore vede il cuore”:

“Noi siamo tante volte schiavi delle apparenze, schiavi delle cose che appaiono e ci lasciamo portare avanti da queste cose: ‘Ma questo sembra…’ Ma il Signore sa la verità. E così questa storia... Passano i sette figli di Iesse e il Signore non sceglie alcuno, li lascia passare. Samuele è un po’ in difficoltà e dice al Padre: ‘Nemmeno costui, Signore, hai scelto?’ ‘Sono qui tutti i giovani, i sette?’ ‘Ma, sì, ce n’è uno, il piccolo, che non conta, che ora sta pascolando il gregge’. Agli occhi degli uomini questo ragazzino non contava”...

Davide riconosce il suo peccato e chiede perdono
Non contava per gli uomini, ha ripreso il Papa, ma il Signore lo sceglie e comanda a Samuele di ungerlo e lo Spirito del Signore “irruppe su Davide”, e da quel giorno in poi “tutta la vita di Davide è stata la vita di un uomo unto dal Signore, eletto dal Signore”. “Allora – si domanda Francesco – il Signore lo ha fatto Santo?” No, è la sua risposta, “il Re Davide è il Santo Re Davide, questo è vero, ma Santo dopo una vita lunga”, anche una vita con peccati:

“Santo e peccatore. Un uomo che ha saputo unire il Regno, ha saputo portare avanti il popolo d’Israele. Ma aveva le sue tentazioni… aveva i suoi peccati: è stato anche un assassino. Per coprire la sua lussuria, il peccato di adulterio... ha comandato di uccidere. Lui! ‘Ma il Santo Re Davide ha ucciso?’ Ma quando Dio ha inviato il profeta Natan per fargli vedere questa realtà, perché lui non si era accorto della barbarie che aveva ordinato, ha riconosciuto ‘ho peccato’ e ha chiesto perdono”.

Così, prosegue il Papa, “la sua vita è andata avanti. Ha sofferto nella sua carne il tradimento del figlio, ma mai ha usato Dio per vincere una causa propria”. Ha così ricordato che quando Davide deve fuggire da Gerusalemme rimanda indietro l’Arca e dichiara che non userà il Signore a sua difesa. E quando veniva insultato, Davide in cuor suo pensava: “Me lo merito”.

Non esiste Santo senza passato, né un peccatore senza futuro
Poi, ha annotato Francesco, “viene la magnanimità”: poteva uccidere Saul “ma non l’ha fatto”. Ecco il Santo re Davide, grande peccatore, ma pentito. “A me – ha confidato il Papa – commuove la vita di quest’uomo” che ci fa pensare anche alla nostra vita:

“Tutti noi siamo stati scelti dal Signore per il Battesimo, per essere nel suo Popolo, per essere Santi; siamo stati consacrati dal Signore, in questo cammino della santità. E’ stato leggendo questa vita (di Davide ndr), da un bambino – ma, un bambino no... era un ragazzo – da un ragazzo ad un vecchio, che ha fatto tante cose buone e altre non tanto buone, mi viene di pensare che nel cammino cristiano, nel cammino che il Signore ci ha invitato a fare, mi viene da pensare che non c’è alcun Santo senza passato, neppure alcun peccatore senza futuro”.

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Papa, tweet: Vangelo chi chiede di dare speranza concreta ai poveri

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Papa Francesco ha lanciato un tweet dal suo account @Pontifex: “Il Vangelo ci chiama ad essere ‘prossimi’ dei poveri e degli abbandonati, per dare loro una speranza concreta”.

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Unità cristiani, il racconto della prima focolarina anglicana

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La storia dello sviluppo dei rapporti ecumenici ha visto protagoniste molte realtà ecclesiali. Seguendo la propria specifica vocazione, il Movimento dei Focolari fondato da Chiara Lubich si spende da decenni per l’unità dei cristiani. A testimoniarlo è Lesley Ellison, la prima focolarina anglicana, intervistata da Rosario Tronnolone

R. – Ho conosciuto il Movimento nel 1966 da un frate francescano anglicano. Quando ho conosciuto i Focolari ero molto colpita da una frase che le focolarine ripetevano spesso: “Bisogna vivere il Vangelo”. Questa è stata una grandissima novità per me, perché quello che ho capito – cercando di vivere il Vangelo – è che la Parola di Dio appartiene a tutti noi, al di là della Chiesa di appartenenza: per cui io vivo Vangelo lo vivo da anglicana, lei lo vive da cattolico, però ci troviamo uniti, uniti nella Parola di Dio. E così ho cominciato a capire l’unità.

D. – Il tema della Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani di quest’anno è “Chiamati per annunciare a tutti le opere meravigliose di Dio”. Volevo chiederle proprio un commento sul tema di quest’anno…

R. – Questo viene da Pietro, che vuole far capire ai primi cristiani cosa abbia fatto l’amore di Dio per loro e questo ha portato a tutte queste belle frasi: “stirpe eletta”, “sacerdozio regale”, “nazione santa”, “popolo di Dio”… Allora, questo Popolo di Dio siamo noi cristiani, tutti. Fra di noi ci sono logicamente tante differenze, diversi modi di pensare nelle tradizioni e nelle culture, ma io sento che queste diversità vadano accolte con rispetto, riconoscendo la bellezza di questa grande varietà. E anche questo per me è molto importante, consapevole che l’unità non è l'uniformità. E’ per questo che dobbiamo conoscerci meglio, così possiamo raccontare fra di noi le opere meravigliose del Signore: dopo il nostro proclamare diventa più credibile, perché gli altri ci vedono uniti, ci vedono nell’amore reciproco.

D. – L’unità nasce anche dal perdono delle reciproche offese: noi stiamo vivendo quest’anno proprio il Giubileo della Misericordia. Può essere questa un’occasione particolarmente importante?

R. – Importantissima, secondo me, molto importante. Perché noi, nella nostra esperienza dei Focolari, abbiamo capito che l’unità è un dono di Dio, però arriva solo dove c’è l’amore scambievole, dove si incontra l’altro nel nome di Gesù, che ha promesso di essere fra di noi. Quando Lui è fra di noi, porta con sé l’unità e questa misericordia che dobbiamo avere fra di noi, per noi stessi e per gli altri e questo può creare una nuova cultura fra di noi. Io la chiamo la “cultura della fiducia”, però questa fiducia viene dalla misericordia: prima ci vuole la misericordia.

D. – L’Enciclica “Laudato si’” contiene un appello del Papa ai cristiani delle varie confessioni per la cura del mondo, per la cura della casa comune. Forse questa è una base per poter lavorare insieme?

R.  – Io penso certamente di sì. Abbiamo avuto una bellissima esperienza a Londra, in Inghilterra, con un gruppo di giovani: i nostri giovani vengono da varie chiese. Cercando di fare qualcosa insieme, hanno conosciuto addirittura un gruppo di musulmani che volevano anche loro lavorare per la cosiddetta “casa comune”. Loro avevano il progetto di creare boschi nuovi: insieme sono andati in questi campi e hanno piantato centinaia di alberi. In un giorno, insieme, una ventina di musulmani e una ventina di cristiani di varie Chiese hanno piantato tutto il bosco nei pressi di Londra. Questa è una cosa molto bella… Io penso ci siano tantissimi progetti di questo genere e certamente dobbiamo realizzarli insieme il più possibile.

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Don Bettega: ecumenismo è coerenza evangelica non manierismi

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La Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani, iniziata ieri, vive di molteplici iniziative in tutto il mondo. A fare da filo conduttore quest’anno è certamente il tema della misericordia, posto da Papa Francesco al centro di un Anno Santo straordinario. In che modo testimoniare la misericordia può aiutare il progresso del dialogo ecumenico? Fabio Colagrande lo ha domandato a don Cristiano Bettega, direttore dell'Ufficio Cei per l'ecumenismo e il dialogo interreligioso: 

R. – Riflettere, anche in maniera concreta, sul tema della misericordia sicuramente è un discorso, diciamo così, teologico: è uno degli aspetti del volto di Dio. Ma rischierebbe di rimanere soltanto una bella riflessione se poi non trovassimo occasioni concrete per tradurre in pratica questo discorso di misericordia: una di queste concretizzazioni io credo sia proprio l’ecumenismo. Anzitutto, dobbiamo partire dal concetto che la misericordia riguarda ogni uomo e ogni donna: Dio è misericordioso verso tutti, indistintamente. E se Dio rivolge la sua misericordia indistintamente verso ogni uomo e ogni donna, se noi cerchiamo di essere coerenti con il suo messaggio dovremmo cercare di fare altrettanto. Penso poi che la misericordia vada rivolta anche verso se stessi. Forse, anche io ho bisogno di guardare a me stesso con occhi di misericordia – a me stesso e quindi anche alla mia Chiesa – e a riconoscere, se vogliamo, anche le incoerenze. Questo, in un certo senso, è anche fonte di comunione, perché ci rendiamo cioè conto che essere cattolici o protestanti o anglicani o ortodossi non significa essere migliori o peggiori degli altri: significa riconoscere che questa misericordia Dio la rivolge verso di me e verso gli altri, ma gli altri ne hanno bisogno così come ne ho bisogno io.

D. – Quando si parla di Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani, si parla di un argomento che non interessa molto ai grandi mezzi di comunicazione o all’informazione che viaggia sulla Rete. Eppure, il Papa lo ha ricordato, è importantissima la testimonianza comune in un mondo lacerato da conflitti e segnato dal secolarismo…

R. – Certo, sì. E’ vero, molto spesso, tolta la Settimana dal 18 al 25 gennaio, tolte altre occasioni che comunque durante l’anno si creano, in generale i mezzi di comunicazione non sono molto attenti a questi temi, né relativamente all’ecumenismo né relativamente al dialogo fra le religioni – quando, invece, il Papa lo ha messo in cima ai punti del suo programma pastorale sin da subito: ha iniziato a parlare e ad agire in maniera molto concreta a favore dell’ecumenismo e del dialogo e a ripetere in ogni circostanza e in ogni occasione questa necessità. Credo veramente che dobbiamo tutti aiutarci, gli uni gli altri – anche con pazienza e allo stesso tempo con fermezza – a capire che approfondire o forse tante volte inaugurare uno stile ecumenico non è questione di bella maniera, non è questione di buona educazione: siccome viviamo molto spesso come cattolici a contatto con cristiani di altre tradizioni, allora tanto per essere educati guardiamo con un sorriso ai fratelli di altre confessioni cristiane… No, non è questione di buone maniera: è questione di coerenza della testimonianza cristiane. Di questo la storia ci sta già da subito chiedendo conto.

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P. Faltas: la Terra Santa è vuota, luoghi sacri sembrano musei

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La Terra Santa soffre la mancanza di pellegrini: i luoghi sacri sono vuoti e i cristiani impegnati nel settore del turismo, pensano di andare via. Solo dall’Italia si stima nell'ultimo anno un calo di partenze di oltre il 40%. Non è solo un problema economico-sociale ma una minaccia di perdita di valore dei luoghi della vita di Gesù. In questi giorni la questione riemerge in occasione del Giubileo degli Operatori dei pellegrinaggi e dei Santuari che inizia oggi con la Messa a San Giovanni in Laterano. Una testimonianza forte arriva da padre Ibrahim Faltas, francescano della Custodia di Terrasanta. Gabriella Ceraso lo ha intervistato: 

R. – Veramente, il 2015 è stato un anno molto difficile per tutta la Terra Santa, per i pellegrini … Possiamo dire che ne sono venuti meno della metà rispetto all’anno precedente e questo ci danneggia molto. Danneggia anche la presenza dei cristiani perché sapete che la maggior parte dei cristiani lavorano nel settore del turismo: hanno alberghi, hanno ristoranti, sono guide, e in questo momento tutti gli alberghi e tutti i santuari sono vuoti. La gente piange e tanti sono diventati disoccupati e per questo vanno via dalla Terra Santa. Questo è il problema.

D. – Rispetto al passato – sappiamo che lei ha vissuto anche la seconda Intifada – com’è la situazione?

R. – Quest’anno è peggio della seconda Intifada: sono passato l’altro ieri dal Getsemani. Al Getsemani entravano tra le 5 mila e le 6 mila persone al giorno. L’altro ieri era vuoto: non c’era nessuno, proprio nessuno.

D. – Quanta responsabilità hanno i media, anche, nel raccontare quello che accade lì?

R. – I media raccontano sempre le cose negative, non raccontano mai le cose positive, perché le cose negative fanno notizie. Una guerra fa notizia, un attentato fa notizia, ma un incontro di pace non fa notizia. E poi penso che la gente abbia paura non soltanto di venire in Terra Santa, ma anche di venire in tutto il Medio Oriente. In Egitto, in Giordania c’è la stessa situazione. Adesso in Turchia, dopo i recenti attentati .Sono problemi grossi, problemi sempre legati alla paura .Per questo io dico alla gente: ‘Vincete la paura. Dovete tornare come pellegrini. Veramente, non è mai successo nulla a un pellegrino, qua: palestinesi e israeliani rispettano i pellegrini, rispettano i turisti. Nella seconda Intifada, io ero a Betlemme quando doveva entrare un gruppo: hanno interrotto gli scontri per fare entrare il gruppo’. Io dico alla gente che non deve dar retta ai media che sempre trasmettono notizie di questi problemi, di attentati… E poi, gli attentati avvengono in luoghi lontani da Betlemme e da Gerusalemme... La maggior parte in questo momento si verificano a Hebron, a Gaza.

D. – E muoversi per le città, per le strade, com’è, per voi?

R. – Tutto tranquillo. Noi stiamo vivendo un momento molto calmo. La gente va, viene, non siamo in guerra.

D. – Certo, bisogna ribadirlo e bisogna forse anche ribadire – padre Faltas – che se non si prega nei luoghi di Gesù non si ha neanche la forza per superare le difficoltà di oggi...

R. – Certo. Preghiamo anche per i cristiani: se non vengono i turisti, se non vengono i pellegrini, veramente la gente va via, sta andando via…

D. – Voi come comunità avete pensato a qualche iniziativa?

R. – Abbiamo fatto tanti appelli, ma la gente non ci ascolta. La gente continua ad avere paura…

D. – Allora, cerchiamo di farla cambiare, questa tendenza…

R. – …altrimenti, i Luoghi Santi diventeranno musei: senza i cristiani locali, perderanno tutto il loro significato religioso.

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Card. Parolin: la solidarietà non sia una vittima della crisi

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“In tempi di crisi e le difficoltà economiche lo spirito di solidarietà globale non deve essere perso”. È la convinzione di Papa Francesco rilanciata dal cardinale segretario di Stato, Pietro Parolin, nel suo intervento di ieri all’incontro promosso ieri a Roma dalla Global Foundation sul tema dell’economia globale inclusiva. Il porporato ha evidenziato come fin dal titolo – “Respingere la globalizzazione dell’indifferenza – mobilitarsi per un’economia globale più inclusiva e sostenibile” – l’incontro volesse richiamare alcuni degli insegnamenti più a cuore al Papa “fin dall'inizio del suo Pontificato”.

Il Papa, ha ricordato il cardinale Parolin, “non ha mancato di mettere in chiaro, con speciale attenzione, le gravi conseguenze dell'indifferenza e della mancanza di responsabilità”, chiamando “tutte le persone a impegnarsi, liberamente e responsabilmente, per la correzione di un economia che provoca l'esclusione e la disuguaglianza”. Ricchi ei poveri, gente potente e semplice, politici e imprenditori, tutti – ha insistito il segretario di Stato, sono invitati da Francesco “a mettere il potere creativo di intelligenza umana al servizio del bene comune, con spirito di solidarietà e – aggiungerei – misericordia”.

Una parte di “questo grande sforzo”, ha notato il cardinale Parolin, riguarda “la creazione e la distribuzione della ricchezza”. Un “giusto uso delle risorse naturali, la corretta applicazione della tecnologia e lo sfruttamento dello spirito imprenditoriale sono – ha sostenuto ancora il porporato – elementi essenziali di un'economia che cerca di essere moderna, inclusiva e sostenibile”. (A.D.C.)

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P. Ayuso ad Abu Dhabi: sconfiggiamo l’estremismo con il dialogo

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“Il dialogo è una necessità, non un’opzione”. E’ quanto affermato da padre Miguel Ángel Ayuso Guixot al primo Arab Thinkers Forum, che ha riunito in questi giorni ad Abu Dhabi numerose personalità del mondo arabo tra cui il Gran Muftì del Libano. Il segretario del Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso è stato l’unico relatore non musulmano all’evento.

Dialogo è condizione necessaria per la pace nel mondo
Nel suo discorso, padre Ayuso si è soffermato in particolare sul dialogo interreligioso come strumento per sconfiggere quelle forme di estremismo che oggi sembrano prevalere in molte parti del mondo. In particolare, ha ripreso l’esortazione di Papa Francesco a promuovere una “cultura dell’incontro” in una “umanità ferità”. Il dialogo interreligioso, ha sottolineato, “è la condizione necessaria per la pace nel mondo e un dovere per ognuno di noi”. Il dialogo, ha ribadito, “crea una scuola di umanità e diventa uno strumento di unità, aiutando a costruire una migliore società fondata sul mutuo rispetto e l’amicizia”.

Combattere estremismi, sono una minaccia alla pace mondiale
Gli estremismi, ha poi soggiunto, “sono attualmente tra le più pericolose minacce alla pace e alla sicurezza mondiale”. Per questo, ha esortato il segretario del dicastero per il Dialogo Interreligioso, “dobbiamo accrescere la nostra consapevolezza che l’estremismo, con le sue tendenze alla violenza, è incompatibile con gli autentici valori religiosi e per questo deve essere sconfitto attraverso un serio e diffuso sforzo per il dialogo”. Per raggiungere questo obiettivo, ha ripreso, “c’è bisogno di un impegno genuino dei leader religiosi” nell’individuare gli estremisti che diffondo visioni ideologiche della religione.

Importanza della preghiera per un mondo di pace e giustizia
La pace, ha ribadito, “non è solo un dono di Dio, è anche un dovere personale e sociale che richiede l’impegno di ognuno”. Ed ha ammonito che “dialogo è in realtà una necessità, non una opzione”. Per contrastare l’estremismo, ha detto ancora, dobbiamo “coinvolgerci in un dialogo sincero: non ci può essere pace nel mondo senza dialogo, specialmente tra credenti che rappresentano di gran lunga la maggioranza dell’umanità di oggi”. Infine, padre Ayuso non ha mancato di ricordare l’importanza della preghiera. “Noi credenti – ha detto, citando Papa Francesco – non abbiamo ricette” per i problemi del mondo, “ma abbiamo una grande risorsa: la preghiera. E noi credenti preghiamo. Dobbiamo pregare. La preghiera è il nostro tesoro, a cui attingiamo secondo le rispettive tradizioni, per chiedere i doni ai quali anela l’umanità”. (A cura di Alessandro Gisotti)

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Oggi su "L'Osservatore Romano"

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In prima pagina, un editoriale di Lucetta Scaraffia sulla figura di Ponzio Pilato a partire da un libro di Aldo Schiavone.

Nell'informazione vaticana, la Messa a Santa Marta.

Un cammino di ricerca: Nicola Gori a colloquio con l’arcivescovo José Rodríguez Carballo sull’Anno della vita consacrata.

Giotto e la luce: in cultura, Pietro Petraroia sull’audacia innovativa del padre della pittura italiana.

Primo passo  verso la pace in Libia: nell'informazione internazionale, l'annuncio della formazione del Governo di unità nazionale.

La mia casa è la tua casa: nel servizio religioso, Gabriel Quicke sul dialogo con gli ortodossi orientali.

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Oggi in Primo Piano



Libia: annunciato governo di concordia nazionale, fuori Haftar

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In Libia, annunciato il governo di concordia nazionale. E’ un “salto” in avanti ma ora “abbiamo davanti un duro lavoro”, ha dichiarato Martin Kobler rappresentante speciale dell’Onu per la Libia. Ora si attende la ratifica da parte del parlamento. Il servizio di Massimiliano Menichetti: 

La Libia tenta di uscire dalla crisi in piena guerra contro i jihadisti dell’Is e la frammentazione interna. Annunciata oggi la formazione del governo di accordo nazionale: 32 ministri guidati dal premier Fayez al Sarraj affiancato a sua volta da 4 vicepremier. Non assegnato al generale Khalifa Haftar il dicastero della Difesa come auspicato dal parlamento di Tobruk, quello finora riconosciuto a livello internazionale a differenza di quello di Tripoli. Per l’Ue che ieri si è riunita a Bruxelles a livello di ministri degli Esteri il neonato esecutivo è “l'unico legittimo" e le altre formazioni diventano solo realtà “parallele”. Intanto, sul terreno è ancora violenza, per mano dei jihadisti dell’Is, nelle ultime 24 ore si sono registrati scontri nei pressi di Bengasi e vicino Surman, a 60 km da Tripoli. In questo quadro, ieri, Germania e l’Italia non escludono “se richiesto” l’intervento armato per fermare il Califfato e stabilizzare il Paese.

Per un commento al nuovo esecutivo abbiamo intervistato Gabriele Iacovino, responsabile degli analisti del Centro studi internazionali: 

R. – E’ un passo aspettato; ma è ancora un primo passo verso la soluzione libica, perché – stando ai numeri annunciati – è un governo molto più grande di quello previsto e soprattutto è un esecutivo che per entrare in carica ha ancora bisogno dell’approvazione del parlamento.

D. – Quale parlamento dovrà approvare: Tobruk o Tripoli? Tobruk, lo ricordiamo, è quello riconosciuto a livello internazionale, finora …

R. – Per adesso le cancellerie europee, quelle tra le più contente per questo accordo, parlano solo del parlamento di Tobruk, fermo restando il fatto che l’accordo iniziale sottoscritto dalle Nazioni Unite a novembre - e di cui questo governo dovrebbe essere figlio - prevedeva anche l’approvazione del governo di Tripoli. Ma anche su questo punto per ora non vi è certezza sul reale processo istituzionale di approvazione. La sensazione è che questo nuovo passo sia necessario soprattutto per la diplomazia internazionale, per creare un soggetto unitario e rappresentativo di un certo volere libico, soprattutto per la stabilizzazione del Paese in un’ottica futura e per un possibile intervento.

D. – Viene ribadito un esecutivo composto da 32 ministri provenienti da ogni parte del Paese: che rappresentatività hanno queste persone?

R. - È tutto da verificare, anche che forza possono avere sul territorio. Un altro grande interrogativo è come questo governo sarà accettato all’interno della Libia. Se già vi erano tantissimi malumori quando c’è stata l’implementazione di questo accordo a fine 2015, possiamo solo immaginare in questo momento quale possa essere il sentire libico per questo nuovo governo.

D. - Ma il governo potrebbe ottenere sostegni interni vista l’avanzata dell’Is, quindi fungere da catalizzatore contro questa realtà?

R. - Molto più in Occidente che all’interno della Libia, anche perché sul territorio ci sono già delle milizie che in passato anche adesso hanno combattuto lo Stato islamico, prima fra tutte la milizia di Misurata, però ora sarà poco rappresentata all’interno di questo governo. Finora tutti i segnali mostrano un nuovo esecutivo quale primo passo verso una possibile missione internazionale.

D. – Dunque alcune luci, ma ancora tantissime incognite …

R. – Non solo per il governo e la sua approvazione, ma per tutta la soluzione libica. E’ come se ci fossero due strade: una interna dove la percezione di questo governo e di tutto questo processo rimane molto ombrosa, poco accettata sia dalla popolazione sia dalle varie realtà di potere locale e un’altra strada - quella occidentale - che ha bisogno appunto di un’entità governativa per programmare una stabilizzazione del Paese.

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Cina: il Pil scende a 6,9% il livello più basso in 25 anni

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Ancora rallentamenti per l’economia cinese. Il Pil scende a 6,9%, il livello più basso in un quarto di secolo. E' vero che, dopo il clamoroso picco di crescita al 14% del 2007, l'obiettivo di Pechino è ormai il 7% e non di più, e dunque non lontano dalla realtà attuale. Ma in ogni caso preoccupa l'andamento della Borsa altalenante degli ultimi tempi e le possibili conseguenze dei cambiamenti nell'economia reale che sta attraversando il gigante Cina. Fausta Speranza ne ha parlato con Franco Bruni, docente di politiche monetarie all'Università Bocconi, appena rientrato dalla Cina: 

R. – Naturalmente i mezzi di informazione non sono trasparenti, il governo non è trasparente, quindi  la sensazione è abbastanza poco chiara. Certo, c’è un ritmo di attività e un clima, anche psicologico, non travolgente ed entusiasta come quello di un paio di anni fa.

D. – Rallentamento dell’economia, tra borsa ed economia reale. Che dire?

R. – Loro stanno facendo – diciamo – due grossi esperimenti di trasformazione. Hanno due grandi progetti economici: da un lato, quello di trasformarsi da un’economia concentrata sulle esportazioni in una economia concentrata sui servizi e sui consumi interni. Un lavoro molto, molto difficile che va accompagnato con provvedimenti di vario genere - liberalizzazioni, incentivi, trasformazioni fiscali ed amministrative - e ha con sé un risultato di tipo occupazionale, perché è nei servizi. Questo, quindi, dovrebbe aiutare ad assorbire l’offerta di lavoro, anche con tassi di crescita più bassi, che sono il risultato normale della trasformazione dall’industria ai servizi. I servizi, infatti, hanno una produttività che cresce meno. Il discorso, dunque, funziona, è disegnato da tempo. Di solito i cinesi hanno la vista lunga, invece che corta, solo che è tremendamente difficile da realizzare, anche dal punto di vista sociale e politico.

D. – L’altra trasformazione è quella di aprirsi alla finanza internazionale, con libertà di uscita e di entrata dei quattrini, e internazionalizzazione della moneta. Qui credo, invece, che abbiano fatto un po’ di pasticci. E’ una trasformazione necessaria, perché hanno bisogno di investimenti internazionali, per fare questo lavoro di modernizzazione interna.  E’, però, obiettivamente stato fatto, probabilmente, con una serie di incidenti di comunicazione, forse anche troppo affrettatamente, con un rapporto non chiarissimo con il Fondo Monetario Internazionale. Forse hanno fatto tutto questo troppo svelti e, quindi, è venuto fuori un pasticcio finanziario, che poi diventa anche mediaticamente la notizia “La borsa di Shanghai crolla”. Il problema non è quello.

D. – In realtà, lo stato dell’economia cinese potrebbe davvero, come dicono alcuni analisti, essere peggiore di quanto non indichino i dati ufficiali?

R. – No, io penso, anzi, che sia migliore di quello che molti in questo momento pensano. L’aspetto che mi preoccupa di più è proprio quello finanziario, che ha a che fare anche con debiti eccessivi di alcuni operatori cinesi, pubblici e privati, comprese le province e le loro regioni, comprese le banche. C’è un grosso indebitamento. Parte di questo indebitamento è in dollari. Se aumentano i tassi di interesse, quindi, sul dollaro, può essere antipatico. E c’è questa borsa ancora incerta. Quindi, c’è disordine finanziario, che potrebbe anche avere delle conseguenze traumatiche e di breve periodo. Invece, però, la struttura di base dell’economia, la capacità produttiva, la competitività potenziale futura, è meglio di quello che la gente pensi. C’è questo grandissimo problema dell’inquinamento, che è un costo anche sociale e alla fine economico, che va considerato, e loro lo stanno mettendo in conto, stanno tenendone conto. Il cammino, però, per riuscire a ripulire quello che hanno sporcato è veramente un cammino lunghissimo. Sta andando molto svelto, ma è un cammino talmente lungo che costituisce un grosso costo per loro, per il loro sviluppo.

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Turchia, bombe su curdi in Iraq. Ankara teme Kurdistan autonomo

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Ci sono episodi che passano quasi inosservati nel tormentato scenario mediorientale. Tra sabato e domenica scorsi, l’esercito turco ha bombardato un villaggio curdo, Sharanish, al confine con l’Iraq, nella regione del Kurdistan, abitato anche da cristiani caldei e assiri. Da qui la ferma condanna del Patriarcato di Baghdad e la protesta formale nei confronti di Ankara, che ha motivato l’azione con il pretesto di colpire postazioni dei ribelli curdi del Pkk. Ma a che punto è la complessa questione curda nella Turchia del presidente Erdogan, uscito grandemente vittorioso nelle elezioni politiche del novembre scorso? Roberta Gisotti lo ha chiesto a Valeria Talbot, ricercatrice dell’Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi): 

R. – Da luglio 2015, stiamo assistendo a una ripresa dello scontro tra lo Stato turco e il Pkk, il Partito dei lavoratori del Kurdistan, che dalla Turchia ma anche dall’Unione Europea e dagli Stati Uniti viene considerato un’organizzazione terroristica. Questa ripresa dello scontro ha causato centinaia di vittime tra militanti curdi e civili, militari turchi e polizia nelle regioni dell’Anatolia meridionale. Lo scontro mette fine a una tregua durata per oltre due anni e che rientrava in un più ampio processo di pace avviato dal presidente Erdogan all’inizio del 2013, grazie a negoziati segreti avviati con il leader storico in prigione del Pkk, Abdullah Ocalan. La questione curda è una delle più sentite in Turchia. I curdi rappresentano circa il 20% della popolazione turca, che oggi ammonta a 78 milioni di abitanti. È una questione che ha diversi risvolti. Proprio l’Akp – il partito di Erdogan –  che è al potere in Turchia dal novembre 2002, era stato il promotore del dialogo con i curdi e di una serie di riforme che nel corso degli anni avevano dato riconoscimenti culturali alla minoranza curda, come l’utilizzo della loro lingua nelle scuole private, nelle trasmissioni locali, l’utilizzo di nomi in curdo. Un processo che comunque nel corso degli anni ha portato anche all’apertura di un dialogo e all’avvio di questo processo di pace volto a mettere fine, a dare una soluzione comprensiva della questione. Da luglio 2015 - come detto prima - invece lo scontro è ripreso: in Turchia sono cambiate diverse cose, ma da più parti, però, si chiede la ripresa del dialogo e dei negoziati di pace perché nelle regioni dell’Anatolia meridionale si sta assistendo a un vero e proprio scontro, di cui si parla poco ma che coinvolge un’intera popolazione.

D. – Dott.ssa Talbot, è pur vero che il mondo intero guarda ai curdi e conta sui curdi per sconfiggere i miliziani del sedicente Stato islamico…

R. – Sì, gli Stati Uniti si sono appoggiati e hanno sostenuto molto i curdi siriani nella lotta contro lo Stato islamico. I curdi sono stati impegnati in prima linea sul campo per fronteggiare lo Stato islamico nelle regioni del Nord della Siria. Questa politica americana non ha trovato il sostegno di Ankara che, comunque, vede nei curdi siriani degli alleati del Pkk. Il grande timore turco è che si crei un’autonomia “de iure” oltre che “de facto” dei curdi siriani, che possa creare dei problemi con la propria popolazione curda e possa costituire un polo di attrazione per la formazione di uno Stato curdo autonomo. Avendo chiaro questo in mente, bisogna guardare l’atteggiamento della Turchia e della politica turca in Siria. La Turchia, dopo essersi unita alla Coalizione anti-Is nell’estate scorsa, ha bombardato tanto le postazioni dell’Is quanto quelle del Pkk. Ha avuto una politica volta a evitare una "saldatura" curda nel nord della Siria che potesse costituire una minaccia al suo confine meridionale.

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Rapporto Onu sull'Iraq: violenze dell'Is sono sconcertanti

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Nuovo rapporto dell’Onu sulla situazione in Iraq, nei territori dominati dal sedicente Stato Islamico: nel 2015 ci sono stati oltre 18 mila morti tra i civili, 2,3 milioni gli sfollati e sono circa 3500 le persone rese schiave dall’Is, soprattutto donne e bambini. Le Nazioni Unite parlano di “violenza sconcertante”, “barbarie” e “genocidio”. Stefano Pesce ha intervistato al riguardo Paolo Rozera, direttore generale di Unicef Italia: 

R. – Questo rapporto fa luce sul tema delle violenze che vengono perpetrate nei confronti di civili; violenze fatte in modo sistematico, in  modo particolare da regimi che basano il loro potere sulla violenza. In questo caso si parla delle zone occupate dall’Is.

D. – Si parla di 3500 persone rese schiave, tra queste soprattutto donne e bambini che hanno un destino tragico …

R. – Sì, è così. Noi sappiamo ed abbiamo evidenza come Unicef di situazioni che si verificano ad esempio in Siria, dove le donne sono spesso costrette ad attraversare il confine con la Giordania per partorire, perché se una donna va in un ospedale controllato dall’Is e con lei anche il marito, questo viene subito arruolato; se ci va il figlio grande viene preso per essere arruolato. Se va senza marito viene messa a disposizione di qualsiasi altro uomo che milita nell’Is dichiarandola "vedova di guerra". Quindi è una situazione di schiavitù.

D. – Per i bambini – se vogliamo – il destino è ancora peggiore: per i maschi c’è l’indottrinamento, per le bambine lo stupro sistematico e la morte …

R. – Sì. Questa è la realtà di questo rapporto che ci dà questi numeri; questo è ciò che continua ad accadere in questi posti – Iraq, Siria - che sono controllati da queste persone che basano la loro potenza sul fanatismo. Questo fanatismo fa molto leva sulla disperazione delle persone e quindi sulle condizioni di vita che sono al limite dell’accettabile da parte delle popolazioni. In queste situazioni le donne, le bambine sono assolutamente poco considerate.

D. – Come si sviluppa l’azione dell’Unicef all’interno di questi territori dove, secondo l’Onu, viene perpetrato un vero e proprio genocidio?

R. – Principalmente quello di strappare donne e bambini a questo genocidio, perché è una cosa assolutamente inammissibile. Quindi dobbiamo riuscire a creare - facendo un grosso lavoro di diplomazia, di convincimento con le parti in causa - delle zone libere, degli spazi liberi per donne e bambini affinché possano vivere con un minimo di tranquillità rispetto alle condizioni di vita o di sfruttamento. Non è facile: è un lavoro molto lungo e molto minuzioso. È un lavoro di convincimento su quanto sia importante riuscire a determinare qual è il migliore interesse per il bambino.

D. – Siete anche presenti in numerosi campi profughi che raccolgono quei 2,3 milioni di sfollati di cui parla il rapporto dell’Onu …

R. – Sì, siamo presenti ovunque. Tra l’altro recentemente sono andato a visitare i campi di accoglienza in Libano, i cosiddetti “campi informali”, dove i profughi provenienti dalla Siria rappresentano un terzo della popolazione attuale del Libano. Quindi la situazione è molto pesante; queste persone vivono in situazioni tra l’altro molto gravi soprattutto in questo periodo, dove le temperature scendono sotto lo zero, dove c’è la neve. Sono condizioni inumane. Noi cerchiamo di migliorare queste situazioni dando servizi igienici, permettendo l’accesso alla scuola. Con il governo libanese abbiamo fatto degli ottimi accordi per permettere ai bambini – almeno quelli della scuola elementare – di poter accedere alle scuole; stiamo aiutando i bambini profughi siriani e quelli poveri libanesi.

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Vittime di tratta e richiedenti asilo: spesso un unico destino

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Dall’inizio dell’anno, sono almeno 77 i migranti morti in mare nell’Egeo, 18 quelli annegati nel canale di Sicilia. Le cifre sono dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni che elenca stime drammatiche: nei primi 18 giorni del 2016 in Grecia sono arrivate via mare oltre 31 mila persone, 21 volte gli arrivi dell’intero gennaio scorso. La maggior parte degli arrivi riguarda siriani, seguiti da afghani, iracheni, perlopiù richiedenti asilo. Un fenomeno si delinea sempre più proprio tra i richiedenti protezione internazionale ed è stato messo in luce in un Convegno oggi a Roma organizzato dall’Associazione nazionale comuni italiani (Anci) e da altre sigle: la presenza di vittime di tratta tra i richiedenti asilo è un fenomeno in aumento. Il servizio di Francesca Sabatinelli

“E’ sempre più difficile separare i percorsi fisici e individuali delle persone in cerca di protezione internazionale da quelli delle vittime di tratta”.  E’ grave l’allarme lanciato da chi la tratta degli esseri umani la combatte a tempo pieno, e che ci ricorda come la sfida migratoria si accompagni ad altre drammatiche sfide, come appunto quella costituita dalla tratta. Quale intreccio esiste tra richiesta di protezione internazionale e lo sfruttamento a vario titolo, da quello sessuale, a quello lavorativo, all’accattonaggio? C’è una correlazione molto stretta, emersa nel Convegno romano: spesso le persone che chiedono protezione sono anche vittime di tratta. Per alcune il percorso si avvia sin dalla partenza, per altre si delinea all’arrivo, anche all’interno dei grandi centri di accoglienza, perché è anche lì che i migranti vengono a contatto, o addirittura convivono, con gli sfruttatori. Mirta Da Pra, responsabile progetto vittime del Gruppo Abele:

R. – Quello che noi diciamo e che abbiamo visto è che bisogna avere degli operatori e delle persone che, ai diversi livelli, sappiano identificare le vittime. Parlo anche delle forze di Polizia, parlo della magistratura, parlo di tutte quelle realtà, come l’Oim (Organizzazione internazionale per le migrazioni - ndr), che sono sui luoghi del primo arrivo. Anche nelle prefetture e nei luoghi di smistamento bisogna fare in modo che non siano messi in contatto subito con gli sfruttatori presenti sul territorio: dobbiamo intercettare noi le persone, prima degli sfruttatori. E poi bisogna fare in modo che le persone siano più osservate, attraverso progetti in cui gli operatori possano osservare chi è vittima e chi può essere anche sfruttatore. Occorre poi tenere occupate le persone: l’inattività, il fatto di non poter fare delle cose, il non mandare soldi a casa, non avere l’idea che il progetto riesca, fa sì che le persone finiscano in circuiti anche di illegalità e di sfruttamento.

D. – Ci sono molte polemiche legate agli  “hotspot”: le autorità locali – penso a Lampedusa – denunciano il fatto che non ci siano delle regole e che la trasformazione in “hotspot” abbia creato molti più problemi…

R. – Sicuramente, quello che noi vediamo è che manca l’attuazione di una strategia che esiste. Sulla carta ci sarebbe già un sistema di accoglienza, ma sta di fatto che però non si fanno i conti, ad esempio con la ridistribuzione: 400 Comuni, invece che 8 mila, che accolgono, hanno bisogno di una strategia, ci vuole un accompagnamento del piccolo comune che deve accogliere, perché magari non sa neanche da che parte cominciare. Per cui è necessaria una strategia sulla gestione degli immigrati, includendo l’osservazione e la competenza di chi si occupa di vittime di tratta, cosa che fino ad oggi non c’è mai stata. Dico di più: le vittime di tratta, da anni ormai, sono dimenticate dalla politica e dalle politiche. Un’assenza di questo genere ha fatto sì che tanti progetti chiudessero. Prima avevamo un Ministero delle Pari Opportunità, oggi non c’è più; prima c’era un referente politico, oggi non c’è più neanche quello. E una delle domande che ci stiamo facendo ormai da anni: deve rimanere lì il discorso della tratta? E’ meglio che vada agli Interni, al Ministero del Lavoro? E’ assolutamente importante, anche perché questo il tema - con l’art. 18 (prevede il rilascio di uno speciale permesso di soggiorno alle persone vittime di violenza e grave sfruttamento e la loro partecipazione ad un programma di assistenza e integrazione sociale ndr), il miglior articolo che c’è in Europa e nel mondo sulla tratta - oggi manca della seconda parte di applicazione: da una parte si zoppica con l’accoglienza alle vittime, mentre dall’altra il contrasto non viene assolutamente fatto, non come dovrebbe essere, il che vorrebbe dire separare vittime da persone, invece, che lucrano su questo. E questo sarebbe utilissimo, in termini anche di giustizia e di politiche, e quindi accogliere da una parte, punire invece chi sfrutta.

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Aperto Al Gemelli un Centro per le psicopatologie da web

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E’ stato presentato ieri, presso il Centro Congressi Europa dell’Università Cattolica di Roma, il Centro pediatrico interdipartimentale per la Psicopatologia da web del Policlinico Gemelli. L’uso sconsiderato della Rete da parte di bambini e adolescenti può causare problemi dell’ambito cognitivo, comportamentale, ma anche prettamente fisico come la vista e le patologie di tipo ortopedico. Eliana Astorri ha intervistato il prof. Federico Tonioni, ricercatore presso l’Istituto di Psicologia e Psichiatrica e responsabile Area delle Dipendenze da sostanze e delle dipendenze comportamentali della Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli di Roma: 

R. – È un’evoluzione naturale di quello che prima era soltanto un ambulatorio. Questo perché apprendendo dall’esperienza abbiamo deciso di dare una visione più intera sia ai sintomi – correlando l’ambulatorio con la pediatria e la neuropsichiatria infantile – che per tutto quello che riguarda l’obesità, la sedentarietà davanti al computer o i disturbi neurocognitivi che potrebbero insorgere. Nello stesso modo, avere una visione più intera della situazione significa pensare alle cause e in questo senso la nostra ricerca procede sempre più verso nuove forme di assenza genitoriale. Infatti, presso la nostra struttura ci sono due ampi gruppi che si occupano esclusivamente di genitori oltre che dei loro figli.

D. – Quanto è vasto il fenomeno della dipendenza dei bambini e dei ragazzi dal web in Italia?

R. – Non ho dati precisi, perché non amo i dati. Quello che possiamo dire è che i nativi digitali hanno la tendenza a stare al computer più tempo possibile, ma questo fa parte non tanto dell’infanzia, quanto dell’adolescenza a livello fisiologico. Quello che è vero è che i genitori mettono i bambini davanti al computer fin da piccoli – ce li mettiamo noi – e dovremmo interrogarci sul motivo: è diminuita l’interazione dal vivo su larga scala tra i bambini e non solo i genitori, ma anche i fratellini, le nonne, le tate… Se una famiglia, se i genitori si fanno sostituire dal computer, ci sono delle conseguenze. Se invece il computer costituisce un elemento di unione, di condivisone, non quando i figli sono adolescenti ovviamente, ma quando sono piccolini, credo che  tante disarmonie potrebbero essere evitate.

D. – La ragazzina di 12 anni di Pordenone che si è gettata dalla finestra perché non ce la faceva più ad andare a scuola e a trovarsi presumibilmente a subire angherie dai suoi coetanei: la polizia sta vagliando i messaggi sui social network. È da capire se il bullismo lo subisse direttamente a scuola o via web. In ogni caso, è una dodicenne che tenta il suicidio, volontà della quale nessuno se ne era accorto né genitori né scuola. Un suo commento…

R. – Questa è la caratteristica delle situazioni più gravi, ovvero quando i ragazzi sentono di non avere lo spazio non solo per andare a scuola e tendono a uscire malvolentieri a ritirarsi socialmente, ma, ancor prima, di non sentire lo spazio di potersi confidare in famiglia, con un insegnante o con un amico. Queste sono le situazioni dove un’azione aggressiva nei confronti di un altro che può essere anche normale per quanto spiacevole nel mondo degli adolescenti, diventa una vera esperienza persecutoria.

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Nella Chiesa e nel mondo



Siria: nuovi aiuti umanitari nelle città assediate

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Nuovi convogli carichi di aiuti - composti da cibo, medicinali e carburante - hanno fatto il loro ingresso in almeno quattro città della Siria, da tempo sotto assedio e in cui la popolazione è ai limiti della fame. In un comunicato congiunto le Nazioni Unite, la Croce rossa internazionale (Icrc) e la Mezzaluna rossa (Sarc) riferiscono che consegne simultanee hanno raggiunto ieri le località sotto assedio.

Carburante per le città assediate
Mezzi carichi di carburante - riferisce l'agenzia AsiaNews - hanno varcato la soglia di Fuaa and Kafraya, sotto l’assedio dei ribelli, e Madaya, stretta nella morsa delle forze governative fedeli al Presidente Bashar al-Assad. Cibo e medicine sono state consegnate alla città di Zabadani, in mano ai ribelli, che non era stata inserita nell’elenco delle città (Fuaa, Kafraya e Madaya) bisognose di aiuto. Tutte e quatto le località sono parte di un accordo raggiunto lo scorso anno, finalizzato all’interruzione dei combattimenti per consentire l’ingresso di aiuti. Tuttavia, i team umanitari hanno dovuto posticipare le consegne a Fuaa e Kafraya in seguito a rapporti di gruppi armati che parlavano di “mancanza dei presupposti di sicurezza”. 

Agenzie umanitarie fanno difficoltà a raggiungere 400mila persone assediate
Secondo fonti delle Nazioni Unite, ad oggi in Siria fino a 4,5 milioni di persone vivono in aree contese - tra le quali almeno 400mila sparse in 15 località sotto assedio - difficili da raggiungere per le agenzie umanitarie, Fra queste vi è Madaya, 25 km a nord-ovest di Damasco e a soli 11 km dal confine con il Libano. Dal luglio scorso la zona, in cui vivono 20mila abitanti, è assediata da forze governative, sostenute dagli sciiti libanesi di Hezbollah. Situazioni analoghe si registrano a Foah e Kefraya - sotto assedio da parte delle milizie ribelli - al cui interno vi sono almeno 20mila persone intrappolate dal marzo scorso e prive di aiuti; circa un migliaio a Zabadani.

Nunzio Zenari: fame e sete usati come arma di guerra
​Sulla crisi umanitaria è intervenuto nei giorni scorsi anche il nunzio apostolico a Damasco, mons. Mario Zenari, che in un’intervista ad AsiaNews ha parlato di uso “vergognoso” della fame e della sete “come arma di guerra”. Un crimine, ha aggiunto il diplomatico vaticano, che i media internazionali hanno denunciato con colpevole ritardo. (R.P.)

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Congresso eucaristico Cebu. Card. Bo: evangelizzazione e dialogo

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Evangelizzare attraverso il dialogo con le religioni, le culture ed i poveri: questa la sfida più urgente sottolineata dal card. Charles Maung Bo, arcivescovo di Yangon, in Myanmar. In questi giorni, il porporato si appresta a partire per le Filippine per partecipare, in qualità di Legato pontificio, al 51.mo Congresso eucaristico internazionale, in programma a Cebu dal 24 al 31 gennaio, sul tema “Cristo in voi, speranza della gloria”. “L’Asia è il crocevia delle più importanti religioni al mondo – spiega il porporato in un’intervista all’agenzia AsiaNews – è un’area che non ha ancora abbracciato il secolarismo, come avvenuto in Occidente. E lo zelo spirituale testimoniato a livello comunitario è una delle principali risorse in tema di evangelizzazione”.

Eucaristia conduce i cristiani verso la missione sociale
L’auspicio, dunque, è che “nell’anno del Giubileo, questo congresso riesca ad infondere nei cattolici lo spirito della misericordia”. Scopo principale del Congresso, aggiunge il card. Bo, è quello di “far diventare la celebrazione eucaristica la fonte e il culmine della tradizione spirituale, ma anche di approfondire la missione sociale della Chiesa”, perché “è l’Eucaristia a condurre i cristiani verso la missione sociale”. Non solo: il Convegno dovrà cercare di lavorare ad una strategia comune, che sappia fronteggiare il doppio pericolo dell’ingiustizia economica e ambientale, molto elevato in Asia. Tre, allora, saranno le direzioni da seguire, sottolinea il Legato pontificio: “Il dialogo con le religioni, il dialogo con le culture, il dialogo con i poveri”.

Combattere povertà, divenuta purtroppo ‘religione comune’ di tanti
Riguardo al primo punto, il card. Bo sottolinea come “la realtà asiatica sia pervasa da esperienze spirituali. E ciascuno può essere fonte di insegnamento per l’altro”. Quanto al dialogo interculturale, l’Asia rappresenta un vero e proprio “mosaico di culture che hanno vissuto in armonia l’una con l’altra e con la natura, in un clima di grande spiritualità”. “Vi è, quindi, una ricca tradizione – sottolinea il porporato - che è in attesa del messaggio di Cristo”. Infine, il dialogo con i poveri che nel continente sono milioni: “La povertà è la ‘religione comune’ di tanti che  non riescono nemmeno a procurarsi un pasto al giorno – nota l’arcivescovo di Yangon – mentre il traffico di vite umane, le rotte migratorie a rischio e le forme moderne di schiavitù continuano a minacciare la dignità umana”.

Mettere la Bibbia al centro della vita
Riferendosi, poi, nello specifico alla vita della Chiesa in Myanmar, il card. Bo ribadisce: “Il Paese è da poco risorto da un passato buio e l’Eucaristia è il centro della nostra vita, come una richiesta comune di giustizia. Speriamo per questo che il nuovo governo (guidato dalla Lega nazionale per la democrazia, vincitrice delle elezioni dell’8 novembre scorso dopo decenni di opposizione e lotta extraparlamentare) si impegni a condividere il pane della riconciliazione, della cura, dello sviluppo umano”. In quest’ottica, l’arcivescovo annuncia che a fine febbraio la Chiesa birmana terrà il suo incontro annuale con l’obiettivo di “rafforzare l’evangelizzazione in Asia.” Infine, il porporato auspica che il Congresso eucaristico possa “spingere la nostra gente a mettere la Bibbia al centro della propria vita”, ispirando le persone a “diventare apostoli nella loro vita personale”.

Al Congresso, attesi 10mila partecipanti da 57 Paesi del mondo
Intanto, fervono i preparativi per l’evento: oltre 10mila i  partecipanti previsti, provenienti da 57 nazioni del mondo, ed oltre 5mila volontari disponibili. Attesi anche 20 cardinali, 50 vescovi asiatici e 100 filippini, mentre quasi 600 famiglie si sono dette pronte ad accogliere i visitatori. Un’apposita Commissione, inoltre, è stata incaricata di favorire la partecipazione dei fedeli più indigenti. Da ricordare che quello di Cebu sarà il secondo Congresso eucaristico a svolgersi nelle Filippine (l’unico Paese asiatico a maggioranza cattolica) dopo il 30.mo, che si tenne a Manila nel febbraio del 1937 per volontà di Pio XI.

Liturgia ed inculturazione tra i temi in esame
La scelta filippina, sottolinea l’arcivescovo di Cebu, mons. Jose Palma, è rilevante, perché nel 2021 ricorreranno i 500 anni dell’evangelizzazione della nazione, avvenuta nel 1521. Fra i temi che verranno affrontati durante i lavori, vi sono “Liturgia e inculturazione”, “Evangelizzazione nel mondo secolare”, “Eucaristia e dialogo con le altre culture”, “Eucaristia e il rapporto interreligioso”. Fra i principali relatori, sono previsti il card. Oswald Gracias da Mumbai (India), il card. John Onaiyekan da Abuja (Nigeria), il card. Timothy Dolan di New York (Stati Uniti) e l’arcivescovo di Manila card. Luis Antonio Tagle. (A cura di Isabella Piro)

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India. Rapporto violenze anticristiane: 200 episodi nel 2015

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Nel 2015 sono stati censiti oltre 200 incidenti verificati di violenza anticristiana. Sette Pastori protestanti e un laico sono stati uccisi, mentre le vittime della violenza nel complesso sono circa 8.000, incluse donne e bambini. Numerose chiese sono state devastate. Sono i dati diffusi dal Rapporto “India Christian Persecution”, edito dal “Catholic Secolar Forum” (Csf), organizzazione della società civile indiana, e riprese dall’agenzia Fides. 

Violenze ad opera di gruppi estremisti indù
Secondo il Rapporto, che analizza la violenza anticristiana in India avvenuta nel 2015, gli autori della violenza sono gruppi e formazioni estremiste e fanatiche induiste, che promuovono l’ideologia dell’Hindutva (“induità”), che vorrebbe eliminare dall'India i credenti delle religioni non indù. Tali gruppi sono ostili alle minoranze religiose musulmane e cristiane e diffondono una campagna di odio e di diffamazione che poi genera atti concreti di violenza.

Nel Madhya Pradesh il maggior numero di violenze anticristiane
Secondo il rapporto, lo Stato di Maharashtra è quello in cui l'ideologia è maggiormente diffusa, mentre il Madhya Pradesh è in cima alla lista per numero di episodi di violenza anticristiana. Seguono Tamil Nadu, Jharkhand, Chhattisgarh, Haryana, Odisha, Rajasthan, in un elenco che comprende 23 Stati dell’Unione indiana.

Cerimonie indù di riconversione per dalit e tribali cristiani
Il Rapporto nota che una della accuse principali ai cristiani è quella di conversioni forzate e con mezzi fraudolenti. Per questo il governo del Madhya Pradesh, ha modificato la cosiddetta “legge anti-conversione”, inasprendo le pene. Il laico cattolico Joseph Dias, responsabile del Csf, nota che “la conversione forzata non è in alcun modo parte dell'orizzonte della fede cristiana: si tratta solo di lasciare libertà di coscienza e di religione, previste dalla Costituzione”. Sono invece cresciute le cosiddette “cerimonie di riconversione”, organizzate dai gruppi estremisti indù in numerosi Stati indiani, in cui dalit e tribali cristiani vengono riportati in massa all’induismo.

La diffusione del gruppo estremista indù Rss
Tra i gruppi fautori delle violenze, si è consolidato nel 2015 il Rashtriya Swayamsevak Sangh (Rss), che ha “rafforzato la sua presa sul sistema politico del Paese”, nota il testo, che oggi conta oltre 15 milioni di militanti sparsi in oltre 50mila cellule locali, e conta membri anche nella polizia, nella magistratura, nella amministrazione statale. (P.A.)

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Filippine: 3 milioni di fedeli a processione del Santo Niño

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Più di tre milioni di persone hanno partecipato domenica 17 gennaio a Cebu alla Festa del Santo Niño, una delle immagini più venerate dai fedeli filippini. La festa è dedicata alla statua di Gesù Bambino donata nel 1521 dall'esploratore Ferdinando Magellano alla Regina di Cebu e che è il simbolo dell’arrivo del cristianesimo nelle Filippine. Perduta in un incendio durante una rivolta nell'isola di Mactan che costò la vita al navigatore portoghese, l’icona fu ritrovata nel 1565 in una capanna bruciata da un militare spagnolo ed è oggi conservata nella Basilica Minore del Santo Niño a Cebu dei Padri Agostiniani. La Chiesa filippina festeggia l'icona sacra ogni terza domenica del mese di gennaio con una grande processione a Cebu e in ogni località dove è venerata, in cui i devoti portano con sé le immagini del Bambin Gesù.

La festa un invito a proteggere i bambini
La celebrazione del 17 gennaio è stata presieduta dall’arcivescovo Jose Palma che ha sottolineato come la festa ricordi il dovere “di prenderci cura dei nostri bambini allo stesso modo in cui portiamo Gesù nei nostri cuori e nelle nostre vite”.  “Molti nostri  bambini – ha detto nell’omelia - forse non ricevono da noi l’amore e la compassione a cui hanno diritto. Amiamoli, prendiamoci cura di loro e portiamoli così come amiamo, adoriamo, portiamo e veneriamo il Santo  Niño”, ha quindi esortato, facendo eco alle parole di Papa Francesco alla Messa celebrata il 18 gennaio dell’anno scorso presso Quirino "Grandstand-Rizal Park" di Manila, in occasione del suo viaggio apostolico nelle Fillippine.

Una tradizione molto sentita insieme alla Festa del Nazareno Nero
Quella del Santo Niño” è una delle tradizioni più importanti e sentite dai fedeli filippini, insieme alla Festa del Nazareno Nero celebrata il 9 gennaio.  Si tratta di due feste complementari, come sottolinea mons. Hermando Coronel,  Rettore del Santuario di Quiapo, dove è conservata la statua lignea del Narareno portata a Manila da un sacerdote agostiniano spagnolo nel 1607 a bordo di una nave proveniente dal Messico.  “I filippini hanno un profondo affetto per il Bambin Gesù” che associano ai propri bambini,  “e allo stesso modo si identificano con le sofferenze del Nazareno. In fin dei conti si tratta dello stesso Signore Gesù” , spiega all’agenzia Ucan il sacerdote.  (A cura di Lisa Zengarini)

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Chiese d'Olanda: documento ecumenico per lotta alla povertà

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Si intitola “La risorsa del coinvolgimento” il documento che le Chiese dei Paesi Bassi presenteranno venerdì 22 gennaio a Houten: si tratta del primo di una serie di volumi dedicati all’impegno delle Chiese nella lotta alla povertà nel Paese. Il libro, spiega un comunicato del Consiglio delle Chiese cristiane locali ripreso dall'agenzia Sir, “presenta 70 iniziative selezionate tra una gamma inesauribile di progetti” in aiuto agli indigenti: l’offerta  di pasti ai rifugiati, l’organizzazione di vacanze per persone con risorse economiche limitate, un impegno costante nella politica locale, l’attenzione speciale ai minori.  

Incoraggiare un vasto movimento per la carità e la giustizia
Gli esempi sono preceduti da un’introduzione di Klaas van der Kamp, segretario del Consiglio delle Chiese nei Paesi Bassi, e Herman Noordegraaf, docente presso l’Università teologica protestante. Il progetto editoriale si accompagna alla più vasta iniziativa “Intersezione Chiese e povertà”, spazio di “scambio interreligioso” e di riflessione per “rendere visibile il grande impegno delle Chiese contro la povertà nei Paesi Bassi, incoraggiare chi è già coinvolto e stimolare coloro che si vogliono impegnare, nella consapevolezza di essere parte di un più vasto movimento di carità e di giustizia”.

Presente anche il sindaco della città
Il programma della presentazione del libro e dell’iniziativa prevede un’introduzione di carattere teologico, l’intervento del sindaco di Houten, Wouter de Jong, ed il saluto della presidente del Congresso cristiano-sociale Josine Westerbeek. (I.P.)

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America centrale: documento Caritas sulle migrazioni

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In occasione della Giornata mondiale del migrante e del rifugiato, che si è celebrata il 17 gennaio, le Caritas e la pastorale sociale del Messico e dei Paesi del Centro-america hanno fatto sentire la loro voce attraverso un documento dedicato all’imponente flusso migratorio che interessa l’America centrale, da Panama fino agli Stati Uniti. Le Caritas – riferisce l’agenzia Sir - tracciano, anzitutto, una mappa dei flussi migratori, sottolineando che quello maggiore riguarda i profughi che cercano rifugio negli Usa. Non mancano, però, altri ingenti flussi “regionali”, come quello dal Nicaragua al Costa Rica, che oggi è il Paese con la maggior percentuale di stranieri dell’America Latina e del Caribe.

Forte la denuncia della tratta di persone, “crimine contro l’umanità”
Le Caritas, inoltre, denunciano con forza il flagello della tratta di persone, definito “crimine contro l’umanità”: “Bande di trafficanti, conosciuti come coyote – spiegano gli organismi cattolici - oltre che sfruttare economicamente le persone che sono state spinte a migrare, spesso assaltano i migranti, oppure li abbandonano, lasciandoli esposti ad altri pericoli, come gruppi criminali, estorsioni, omicidi, estrazione di organi, violenze sessuali e sparizioni”.

Il dramma dei minori non accompagnati e l’emergenza dei profughi cubani
L’analisi dei dati poi, rivela che il Messico ha espulso più centroamericani degli Stati Uniti (almeno 118mila persone nei primi nove mesi del 2015). Nel documento viene anche segnalato il dramma dei minori non accompagnati: almeno 80mila quelli alla frontiera tra Usa e Messico. A tale situazione si aggiunge l’emergenza, esplosa di recente, dei profughi cubani che cercano di raggiungere gli Usa, per godere dei benefici della cosiddetta “Legge di aggiustamento cubano”, grazie alla quale si può ottenere, automaticamente, la residenza americana entro un anno.

Garantire alle persone il diritto di vivere una vita degna
Il documento presenta anche numerose richieste: tra queste, l’attenzione a rimuovere le cause economiche e politiche e le violenze che provocano così grandi flussi; garantire il diritto alle persone di poter vivere una vita migliore; l’adozione di politiche concertate tra i vari Stati. (I.P.)

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Onu. Rev. Tveit: sui migranti l'Europa cammina senza unità

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“La risposta più efficace” all’attuale crisi migratoria in Europa “sarebbe l’avvio di un solido processo politico di pace in Siria, fermare la guerra, sforzi più coordinati contro il terrore dello Stato Islamico”, ma anche riportare sicurezza e stabilità in altri Paesi africani ed asiatici come l’Afghanistan, la Libia, l’Iraq, la Somalia e l’Eritrea. Lo ha detto il Segretario generale del Consiglio mondiale delle Chiese (Wcc) , Olav Fykse Tveit, aprendo ieri a Ginevra la conferenza di alto livello sull’emergenza rifugiati promossa dallo stesso Wcc insieme diversi organismi delle Nazioni Unite (Unicef, Unhcr e Unfpa).

Un’Europa che cammina in ordine sparso
All’incontro, che si svolge in due giorni, partecipano un’ottantina di leader di governi europei, agenzie Onu e organizzazioni non governative. L’obiettivo è di capire meglio e con realismo le sfide poste dall’attuale crisi e impegnare tutti i soggetti coinvolti in una collaborazione coordinata per farvi fronte. La crisi - ha infatti sottolineato nel suo intervento il pastore Tveit - ha un duplice risvolto: quello dei rifugiati che a centinaia di migliaia cercano protezione in Europa e quello del modo in cui l’Unione Europea ha affrontato finora questa ondata. Essa si è dimostrata “incapace di coordinare i propri membri di fronte a una situazione che richiede solidarietà, protezione dei diritti umani e condivisione delle risorse”.  

Una collaborazione europea più stretta per ridare voce alla speranza
Solo con una più stretta collaborazione – ha quindi rilevato - è possibile ridare voce alla speranza”. Una speranza “che è più che mero ottimismo.  È la capacità che abbiamo come esseri umani di aspettarci qualcosa di meglio non solo per noi, ma per tutti, soprattutto per chi è nel bisogno.  È avere cura per gli altri adesso e in futuro.”

L’emergenza rifugiati non può essere gestita senza uno sforzo comune
Tveit ha citato come esempio in questo senso la nuova politica di apertura ai rifugiati della Cancelliera tedesca Angela Merkel.  “Questa decisione storica – ha detto - è stata un segno di rispetto per la dignità e i diritti umani di persone che sono nel bisogno. Inoltre, essa è stata un segno dei valori umanitari sui quali l’Europa afferma di essere fondata e dimostrati da gesti di solidarietà, giustizia, apertura, generosità e ospitalità” di tanti cittadini comuni, che - ha evidenziato - sono anche “espressione del retaggio cristiano in questo continente”. 

L'importanza dell'integrazione dei rifugiati  nei Paesi che li accolgono
​A questi gesti – ha poi ricordato Tveit - vanno aggiunti i tanti appelli delle Chiese e di altre organizzazioni ad intervenire nei Paesi di origine dei rifugiati, a creare corridoi umanitari e ad offrire asilo e mezzi di sostentamento a queste persone per permettere loro di rifarsi una nuova vita. “Sappiamo che se non si investono risorse nell’integrazione, i rifugiati e anche i Paesi di accoglienza rischiano di precipitare in nuove crisi, soprattutto se si creano ghetti di persone sottopagate e disoccupate. Questa situazione – ha ribadito in conclusione il segretario del Wcc - non può essere gestita senza uno sforzo comune”. (A cura di Lisa Zengarini)

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Svizzera: al via riunione dei Primati delle Chiese ortodosse

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La preparazione del grande Concilio pan ortodosso, previsto entro l’anno, sarà al centro della Sinassi, la riunione dei Primati delle Chiese ortodosse, che si terrà dal 21 al 28 gennaio a Ginevra-Chambésy, in Svizzera. Lo rende noto un comunicato del Patriarcato ecumenico di Costantinopoli, guidato da Bartolomeo I.

Tutti i Primati hanno confermato la loro presenza
Tutti i Primati hanno confermato la loro presenza, prosegue la nota, a parte il Patriarca greco-ortodosso di Antiochia, Giovanni, ed il metropolita di Varsavia, Sava, impossibilitati a partecipare per motivi di salute. Assente anche, per ragioni personali, l’arcivescovo di Atene e di tutta la Grecia, Girolamo. Prevista, ad ogni modo, la presenza di rappresentanti autorizzati.

24 gennaio, Divina Liturgia nella Chiesa dell’Apostolo Paolo
​“Nell’ambito della Sinassi – informa il Patriarcato ecumenico – il 24 gennaio avrà luogo una Divina liturgia inter-ortodossa presso la Santa Chiesa stavropegiaca dell’Apostolo Paolo, presieduta dal Patriarca Bartolomeo”. Tra gli altri partecipanti ai lavori, l’arcivescovo decano d’America Demetrio, l’arcivescovo di Telmessos Job, il metropolita decano di Pergamo Ioannis ed il metropolita di Francia, Emanuele. (I.P.)

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Ungheria: card. Erdő ricorda Santa Margherita

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“In un’epoca segnata dalla stanchezza, abbiamo anche oggi bisogno della spiritualità domenicana e, in essa, dell’esempio di Santa Margherita”: è quanto ha detto domenica scorsa il card. Péter Erdő, arcivescovo di Esztergom-Budapest e primate d’Ungheria, nell’omelia pronunciata sull’Isola Margherita, a Budapest, durante la celebrazione per la memoria liturgica di Santa Margherita d’Ungheria (che ricorreva ieri). La Messa all’aperto a metà gennaio sull’Isola Margherita – si legge sul blog dell'Ambasciata d'Ungheria presso la Santa Sede ed il Sovrano Militare Ordine di Malta – è ormai una tradizione dal 1979; i fedeli vi si radunano ogni anno - nonostante il gelo e la neve - tra le rovine dell’antico convento delle domenicane, dove Santa Margherita è vissuta ed è stata sepolta, nel 1270.

La consacrazione di Santa Margherita a Cristo per il bene dell’Ungheria
“Santa Margherita ha vissuto la sua vita nell’attesa ardente dell’incontro con Cristo – ha spiegato il card. Erdő –. Per l’uomo di oggi può forse sembrare spaventoso il rigore delle mortificazioni che la tradizione ci ha tramandato di lei. Eppure la principessa Margherita non ha odiato la vita e il mondo. Ha rinunciato alle bellezze della vita terrena non come una persona disgustata e amareggiata … Santa Margherita ha amato Cristo fino all’estasi. E’ stata questa a portarla a compiere opere inusuali”. Santa Margherita (1242-1270), figlia di Béla IV re d’Ungheria (1235-1270) - che la offrì al Signore in voto per la liberazione del Paese dal flagello dell’invasione dei tartari (mongoli) del 1241 - educata sin da bambina dalle suore domenicane, ha aderito di sua scelta alla vocazione religiosa, offrendo la sua vita come espiazione per il suo Paese. In tre occasioni si è rifiutata di uscire dal convento per non sposare, quale suggello di alleanze politiche, tre diversi sovrani potenti dell’epoca: il principe polacco, il re di Boemia ed il re di Napoli. Quest’ultimo - Carlo I d’Angiò - ebbe, più tardi, come nuora una nipote di Margherita, Maria d’Ungheria, che ebbe un ruolo importante nella diffusione del culto dei santi ungheresi in Italia. Margherita è stata canonizzata nel 1943, da Pio XII.

L’isola a lei dedicata a Budapest oggi è un parco e santuario a cielo aperto
Oggi l’Isola Margherita è una delle mete turistiche più visitate della capitale ungherese. E’ anche un santuario a cielo aperto e crocevia di pellegrinaggi ed è divenuta un bellissimo parco in mezzo al Danubio, grazie all’arciduca Giuseppe, palatino d’Ungheria e capostipite del ramo ungherese della famiglia d’Asburgo-Lorena. (A cura di Tiziana Campisi)

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Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LX no. 19

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