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Sommario del 12/01/2016

Il Papa e la Santa Sede

Oggi in Primo Piano

Nella Chiesa e nel mondo

Il Papa e la Santa Sede



Papa: misericordia, carta di identità di Dio. Libro-intervista con Tornielli

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La misericordia è “la carta di identità” di Dio: così Papa Francesco nel libro-intervista “Il nome di Dio è misericordia”, da oggi in libreria. Il volume riporta una conversazione del Pontefice con Andrea Tornielli, vaticanista del quotidiano “La Stampa” e coordinatore del sito web “Vatican Insider” Suddiviso in nove capitoli e 40 domande, il libro – edito da Piemme – ha la copertina autografa di Papa Francesco. La prima copia del volume, in italiano, è stata consegnata ieri pomeriggio al Pontefice, presso Casa Santa Marta. Il servizio di Isabella Piro

Intervista registrata lo scorso luglio
Luglio 2015, Casa Santa Marta: Papa Francesco è da poco rientrato dal suo viaggio apostolico in Ecuador, Bolivia e Paraguay. È un pomeriggio afoso quando riceve il giornalista Andrea Tornielli, munito di tre registratori. Su un tavolino davanti a sé, il Pontefice ha una concordanza della Bibbia e le citazioni dei Padri della Chiesa. La misericordia è il tema della conversazione che nasce tra i due, in vista del Giubileo straordinario che si aprirà cinque mesi dopo. Oggi, i frutti di quel dialogo sono raccolti nel libro “Il nome di Dio è misericordia”.

Capitolo 1: è tempo di misericordia
Preghiera, riflessione sui Pontefici precedenti e un’immagine della Chiesa come “ospedale da campo” che “riscalda i cuori delle persone con la vicinanza e la prossimità”: sono questi i tre fattori, spiega il Papa, che lo hanno spinto ad indire un Giubileo della misericordia. “La nostra epoca è un tempo opportuno” per questo, dice, perché oggi si vive un duplice dramma: si è smarrito il senso del peccato e lo si considera anche incurabile, inguaribile, imperdonabile. Per questo, l’umanità ferita da tante “malattie sociali” – povertà, esclusione, schiavitù del terzo millennio, relativismo – ha bisogno di misericordia, di quella “carta di identità di Dio”, di Colui “rimane sempre fedele” anche se il peccatore Lo rinnega.

La grazia della vergogna rende il peccatore consapevole del peccato
Centrale poi la riflessione del Papa sul tema della vergogna, intesa come “una grazia” perché rende il peccatore consapevole del proprio peccato. E particolare la sottolineatura del così detto “apostolato dell’orecchio”, ossia della capacità dei confessori di “ascoltare con pazienza” perché oggi le persone “cercano soprattutto qualcuno che sia disposto a donare il proprio tempo per ascoltare i loro drammi e le loro difficoltà”. Tra l’altro – nota il Papa – è per questo che tanti si rivolgono ai chiromanti. Il Pontefice rimarca inoltre “che se il confessore non può assolvere, dia comunque una benedizione, anche senza assoluzione sacramentale”, perché “l’amore di Dio c’è anche per chi non è nella disposizione di ricevere il Sacramento”.

Essere confessori è una grande responsabilità
“Abbiate tenerezza con queste persone – dice il Papa ai sacerdoti – non allontanatele”, perché “la gente soffre” e “essere confessori è una grande responsabilità”. Al riguardo, il Pontefice cita il caso di sua nipote: “Io ho una nipote che ha sposato civilmente un uomo prima che lui potesse avere il processo di nullità matrimoniale – racconta – Quest’uomo era tanto religioso che tutte le domeniche, andando a Messa, andava al confessionale e diceva al sacerdote: ‘Io so che lei non mi può assolvere, ma ho peccato in questo e in quest’altro, mi dia una benedizione’. Questo è un uomo religiosamente formato”.

Capitolo 2: confessione non è tintoria, né tortura. Ascoltare, non interrogare
D’altronde, si va al confessionale “non per essere giudicati”, ma per “qualcosa di più grande del giudizio: per l’incontro con la misericordia” di Dio, senza la quale “il mondo non esisterebbe”. Per questo, sottolinea il Pontefice, il confessionale non deve essere né “una tintoria”, in cui lavare via a secco il peccato come una semplice macchia, né “una sala di tortura” in cui scontrarsi con “l’eccesso di curiosità” di alcuni confessori, curiosità a volte “un po’ malata”, morbosa, che trasforma la confessione in un interrogatorio.

Capitolo 3: riconoscersi peccatori. Il cuore a pezzi è offerta gradita a Dio
Invece, “nel dialogo con il confessore bisogna essere ascoltati, non interrogati” e quindi il sacerdote deve “consigliare con delicatezza”. Ma per ottenere la misericordia di Dio, ribadisce nuovamente Francesco, è importante  riconoscersi peccatori, perché “il cuore a pezzi è l’offerta più gradita al Signore, è il segno che siamo coscienti del nostro bisogno di perdono, di misericordia”.  Il Papa ricorda, poi, che la misericordia di Dio è “infinitamente più grande del nostro peccato” , perché il Signore “ci primerea”, “ci anticipa, ci attende” sempre “con il suo perdono, con la sua grazia”. “Il solo fatto che una persona vada al confessionale – spiega Francesco – indica che c’è già un inizio di pentimento”. E a volte vale di più “la presenza impacciata ed umile di un penitente che fa fatica a parlare, piuttosto che le tante parole di qualcuno che descrive il suo pentimento”.

Capitolo 4: anche il Papa ha bisogno della misericordia di Dio
Dal suo canto, il Papa si definisce “un uomo che ha bisogno della misericordia di Dio” e offre alcuni consigli al penitente e al confessore: al primo, suggerisce di non essere superbo, ma di “guardare con sincerità a se stesso ed al proprio peccato”, così da ricevere il dono della misericordia di Dio. Ai confessori, invece, Francesco suggerisce di pensare innanzitutto ai propri peccati, poi di ascoltare “con tenerezza”, senza “scagliare mai la prima pietra”, ma cercando di “assomigliare a Dio nella sua misericordia”. Come modello, il Pontefice cita il padre che va incontro al figliol prodigo e lo abbraccia, prim’ancora che il giovane ammetta i suoi peccati. “Questo è l’amore di Dio – sottolinea il Papa – Questa è la sua sovrabbondante misericordia”.

Capitolo 5: Chiesa condanna il peccato, ma abbraccia il peccatore
Di fronte a chi, poi, a volte, afferma che nella Chiesa c’è “troppa misericordia”, il Papa risponde sottolineando che “la Chiesa condanna il peccato”, ma “allo stesso tempo abbraccia il peccatore che si riconosce tale, gli parla della misericordia infinita di Dio”. Bisogna perdonare “settanta volte sette, cioè sempre”, dice il Pontefice, perché “Dio è un padre premuroso, attento, pronto ad accogliere qualsiasi persona che muova un passo o che abbia il desiderio di muovere un passo” verso di Lui, e “nessun peccato umano, per quanto grave, può prevalere sulla misericordia e limitarla”. La Chiesa, quindi, “non è al mondo per condannare, ma per permettere l’incontro con quell’amore viscerale che è la misericordia di Dio”.

Chiesa sia “in uscita”, “ospedale da campo” per i bisognosi di perdono
Per fare questo, però, essa deve essere “Chiesa in uscita”, “ospedale da campo che va incontro ai tanti ‘feriti’ bisognosi di ascolto, comprensione, perdono e amore”. È importante, infatti, “accogliere con delicatezza chi si ha di fronte, non ferire la sua dignità”, afferma il Pontefice, citando un’esperienza personale, risalente ai tempi in cui era parroco in Argentina: una donna che si prostituiva per mantenere i suoi figli, lo ringraziò perché il futuro Papa l’aveva sempre chiamata “Signora”.

Capitolo 6: non leccarsi le ferite del peccato, ma muoversi verso Dio
E ancora, Francesco mette in guardia dall’atteggiamento di chi dispera “della possibilità di essere perdonato” e preferisce leccarsi le ferite del peccato, impedendone di fatto la guarigione. “Questa è una malattia narcisista che porta l’amarezza”, nota il Papa, e in cui si riscontra “un piacere nell’amarezza, un piacere ammalato”. Al contrario, “la medicina c’è”: basta solo muovere un passo verso Dio o avere almeno il desiderio di muoverlo, “prendendo sul serio la propria condizione”, senza credersi “autosufficienti” e senza dimenticare le nostre origini, “il fango da cui siamo stati tratti, il nostro niente”. E questo “vale soprattutto per i consacrati”, sottolinea il Papa. Nella vita, infatti, l’importante non è “non cadere mai”, bensì “rialzarsi sempre”. Questo, allora, è il compito della Chiesa: “Far percepire alle persone che è sempre possibile ricominciare se soltanto permettiamo a Gesù di perdonarci”.

Delicatezza, e non emarginazione, per le persone omosessuali
Rispondendo, poi, ad una domanda sulle persone omosessuali, il Papa spiega quanto detto nel 2013, durante la conferenza stampa di ritorno da Rio de Janeiro, ovvero “Se una persona è gay, cerca il Signore e ha buona volontà, chi sono io per giudicarla?”. “Avevo parafrasato a memoria il Catechismo della Chiesa cattolica – dice Francesco – dove si spiega che queste persone vanno trattate con delicatezza e non si devono emarginare”. Il Papa apprezza la dicitura “persone omosessuali” perché – spiega – “prima c’è la persona, nella sua interezza e dignità”, che “non è definita soltanto dalla sua tendenza omosessuale”. “Io preferisco che le persone omosessuali vengano a confessarsi, che restino vicine al Signore, che si possa pregare insieme”, aggiunge il Pontefice.

Misericordia è dottrina, è primo attributo di Dio
Quanto al rapporto tra verità, dottrina e misericordia, Francesco spiega: “Io amo piuttosto dire: la misericordia è vera”, “è il primo attributo di Dio”. “Poi si possono fare riflessioni teologiche su dottrina e misericordia – aggiunge – ma senza dimenticare che la misericordia è dottrina”. A tal proposito, il Papa cita “i dottori della legge, i principali oppositori di Gesù, che lo sfidano in nome della dottrina”: essi seguono una logica di pensiero e di fede che guarda “alla paura di perdere i giusti, i già salvati”. Gesù, invece, segue un’altra logica: quella che redime il peccato, accoglie, abbraccia, trasforma il male in bene, la condanna in salvezza. È la logica di un Dio che è amore, spiega il Papa, un Dio che vuole la salvezza di tutti gli uomini, che non si ferma “a studiare a tavolino la situazione”, valutando i pro e i contro. Per il Signore, ciò che conta davvero è “raggiungere i lontani e salvarli”, sanare e integrare “gli emarginati che stanno fuori” dalla società.

Logica di Dio è logica dell’amore che scandalizza i “dottori della legge”
Certo, sottolinea Francesco: questa logica può scandalizzare, allora come oggi, provocando “il mugugno” di chi è abituato ai propri “schemi mentali ed alla propria purità ritualistica”, invece di “lasciarsi sorprendere” da un amore più grande. Al contrario, è proprio questa logica la strada che il Signore ci indica di fronte alle persone che “soffrono nel fisico e nello spirito”, per vincere così “pregiudizi e rigidezze” ed evitare di giudicare e condannare “dall’alto della propria sicurezza”. Andare verso gli emarginati ed i peccatori - aggiunge il Papa - non significa permettere ai lupi di entrare nel gregge, bensì cercare di raggiungere tutti testimoniando la misericordia, senza mai cadere nella tentazione di sentirci “i giusti o i perfetti”.

Adesione formale alle regole porta a  degradazione dello stupore
Chi si scopre “ammalato nell’anima”, infatti, deve trovare porte aperte, non chiuse; accoglienza, non giudizio o condanna; aiuto, non emarginazione. I cristiani che “spengono ciò che lo Spirito Santo accende nel cuore di un peccatore”, spiega Francesco, sono come i dottori della legge, “sepolcri imbiancati” che, con ipocrisia, vivevano attaccati alla lettera della legge, sapevano solo chiudere porte, segnare confini, ma trascuravano l’amore. Se prevale l’adesione formale alle regole – mette in guardia il Papa – allora si verifica “la degradazione dello stupore”, ossia il venir meno dello stupore di fronte alla salvezza donata da Dio, e ciò ci spinge a credere di “poter fare da soli, di essere noi i protagonisti”. Questo atteggiamento “è alla base del clericalismo” e porta i ministri di Dio a credersi “padroni della dottrina, titolari di un potere”.

Legge della Chiesa è inclusiva, non esclusiva
La Chiesa non deve mai essere così, afferma il Papa, non deve avere l’atteggiamento di chi impone “pesanti fardelli” sulle spalle della gente, senza volerli muovere “neppure con un dito”. “Ad alcune persone tanto rigide – dice il Papa – farebbe bene una scivolata perché così, riconoscendosi peccatori, incontrerebbero Gesù”. “La grande legge della Chiesa – infatti - è quella dell’et et e non quella dell’aut aut”. A tal proposito Francesco cita esempi negativi, come i cinquemila dollari richiesti ad una donna per un processo di accertamento di nullità matrimoniale o come il funerale in Chiesa rifiutato ad un bambino perché non battezzato.

Capitolo 7: corruzione, peccato elevato a sistema. Peccatori sì, corrotti no!
Ampia, poi, la riflessione di Francesco sulla corruzione, definita come “il peccato elevato a sistema e divenuto abito mentale, modo di vivere”. Il corrotto pecca e non si pente, dice il Papa, finge di essere cristiano e con la sua doppia vita dà scandalo, crede di non dover più chiedere perdono, passa la vita in mezzo alle scorciatoie dell’opportunismo, a prezzo della dignità sua e degli altri. Con la sua “faccia da santarellino”, il corrotto evade le tasse, licenzia i dipendenti per non assumerli definitivamente, sfrutta il lavoro nero e poi si vanta delle sue furbizie con gli amici o magari va a Messa la domenica, ma poi pretende una tangente sul lavoro. E “spesso non si accorge del suo stato” come “chi ha l’alito pesante”. “Peccatori sì, corrotti no!”, esorta il Papa, invitando a pregare, durante il Giubileo, perché Dio faccia breccia nel cuore dei corrotti, donando loro “la grazia della vergogna”.

Giustizia non basta da sola, serve misericordia
Poi, il Pontefice ricorda che la misericordia è “un elemento indispensabile” perché vi sia fratellanza tra gli uomini. La giustizia da sola, infatti, non basta: con la misericordia, Dio va oltre la giustizia, “la ingloba e la supera” nell’amore. “Non c’è giustizia senza perdono – dice ancora Francesco, sulla scia di Giovanni Paolo II – e la capacità di perdono sta alla base di ogni progetto di una società futura, più giusta e solidale”. Non solo: “la misericordia contagia l’umanità” e ciò si riflette “nella giustizia terrena, nelle norme giudiziarie”. Basti pensare al crescente rifiuto della pena di morte che si registra a livello mondiale.

Famiglia, prima scuola di misericordia
“Con la misericordia la giustizia è più giusta”, sottolinea ancora il Papa, rimarcando che questo non significa “essere di manica larga, spalancare le porte delle carceri a chi si è macchiato di reati gravi”, bensì aiutare chi è caduto a rialzarsi, perché Dio “perdona tutto”, “fa miracoli anche con la nostra miseria” e la sua misericordia “sarà sempre più grande di ogni peccato”, tanto che nessuno può porvi un limite. Il Pontefice ricorda, poi, che la famiglia “è la prima scuola della misericordia”, perché in essa “si è amati e si impara ad amare, si è perdonati e si impara a perdonare”.

Capitolo 8: compassione vince globalizzazione dell’indifferenza
Quanto alle caratteristiche dell’amore infinito di Dio, Papa Bergoglio ricorda che Dio ci ama con compassione e misericordia; la prima ha un volto più umano, la seconda invece è divina. Infatti, Gesù non guarda alla realtà dall’esterno, “come se scattasse una fotografia”, ma “si lascia coinvolgere”. Di questa compassione c’è bisogno oggi, spiega il Papa, e ce n’è bisogno per vincere “la globalizzazione dell’indifferenza”.

Capitolo 9: praticare opere di misericordia, è in gioco credibilità dei cristiani
A conclusione del libro-intervista, il Papa si sofferma sulle opere di misericordia, corporali e spirituali: “Sono attuali e sempre valide – dice – restano alla base dell’esame di coscienza ed aiutano ad aprirsi alla misericordia di Dio”. Di qui, l’esortazione a servire Gesù “in ogni persona emarginata”, esclusa, affamata, assetata, nuda, carcerata, malata, disoccupata, perseguitata, profuga. Nell’accoglienza dell’emarginato, ferito nel corpo, e del peccatore, ferito nell’anima, si gioca infatti “la credibilità dei cristiani”, conclude il Pontefice. Perché in fondo, come diceva San Giovanni della Croce, “alla sera della vita, saremo giudicati sull’amore”.

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Libro del Papa, gioia e commozione con Parolin e Benigni

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Il volume “Il nome di Dio è Misericordia” è stato presentato stamani all’Augustinianum. All’evento sono intervenuti assieme all’autore della conversazione con il Papa, il vaticanista Andrea Tornielli, il cardinale segretario di Stato, Pietro Parolin, l’attore e regista Roberto Benigni. Toccante la testimonianza del carcerato Zhang Agostino Jianqing. La presentazione è stata moderata dal direttore della Sala Stampa della Santa Sede, padre Federico Lombardi. Gli interventi sono stati preceduti dal saluto di don Giuseppe Costa, direttore della Libreria Editrice Vaticana. Il servizio di Alessandro Gisotti

Un libro per approfondire il mistero della Misericordia di Dio e capire cosa questa rappresenti nella vita e nel Pontificato di Papa Francesco. E’ il significato più profondo del libro “Il nome di Dio è Misericordia” nato dall’intervista, o meglio come ha precisato padre Federico Lombardi, dalla conversazione del Pontefice con il vaticanista Andrea Tornielli. Pubblicato nell’Anno Santo, il volume – edito in 86 Paesi – rappresenta secondo il direttore della Sala Stampa Vaticana un valido sussidio per il Giubileo della Misericordia:

“Questo libro-conversazione è preziosissimo proprio nel contesto di questo anno giubilare. Con questo libro-conversazione noi abbiamo la sua esperienza della misericordia, nella sua vita sacerdotale, nel suo ministero, nella sua spiritualità”.

“Chi è alla ricerca di rivelazioni – ha esordito il cardinale Pietro Parolin nel suo intervento – rimarrà forse deluso”, il volume infatti vuole “prendere quasi per mano il lettore per entrare nel mistero della Misericordia” che, sottolinea il segretario di Stato riecheggiando Francesco, è “la carta d’identità del cristiano”:

“Il volume, che si legge agevolmente, ha una caratteristica che è peculiare del suo principale autore, cioè il Papa. E’ infatti un libro che apre delle porte, che le vuole mantenere aperte e intende indicare delle possibilità; che desidera almeno far balenare, se non far brillare, il dono gratuito dell’infinita misericordia di Dio, “senza il quale il mondo non esisterebbe” – come ebbe a dire una vecchietta all’allora mons. Bergoglio, da poco vescovo ausiliare di Buenos Aires”.

Il libro, ha ripreso il porporato, non dà risposte definitive, né scende nella casistica ma “allarga lo sguardo verso l’incontro con l’infinito amore di Dio” che supera le logiche umane. E ha ravvisato che Francesco non solo ci ricorda che viviamo in un mondo che ha smarrito il senso del peccato, ma che ha sempre più bisogno di misericordia. Quindi, il cardinale Parolin ha messo l’accento sull’importanza della misericordia non solo nella conversione personale ma pure nelle relazioni tra gli Stati e i popoli. Ne è convinto Papa Francesco, ha detto il porporato, come ne era convinto San Giovanni Paolo II in particolare dopo gli attentati dell’11 settembre:

“Il messaggio del Papa, il messaggio cristiano della misericordia e del perdono, le tante porte sante che vengono spalancate, il richiamo a lasciarci abbracciare dall’amore di Dio è qualcosa che non riguarda soltanto la conversione di ciascuno di noi, la salvezza dell’anima di ogni singola persona; è qualcosa che ci riguarda anche come popolo, come società, come Paese e può aiutarci a costruire rapporti nuovi e più fraterni perché chi ha sperimentato di su sé il sovrabbondare della grazia nell’abbraccio di misericordia, chi è stato e continua a essere perdonato, può restituire almeno un po’ ciò che ha gratuitamente ricevuto”.

E’ un libro commovente, ha detto ancora, perché mostra che l’abbraccio di Gesù ci rialza se ci abbandoniamo all’amore di Dio. E commozione ha destato il successivo intervento, la testimonianza di Zhang Agostino Jianqing, giovane carcerato di origini cinesi, detenuto a Padova, che ha raccontato come dopo anni di violenza ha trovato la fede proprio in carcere, attraverso un volontario che lo ha portato all’incontro con il Signore:

“Dopo il Battesimo, ho capito tutta la misericordia di cui sono stato oggetto, anche quando non me ne rendevo conto. E questo libro di Papa Francesco mi ha aiutato a comprendere meglio quello che mi è accaduto. Ecco perché il nome 'Zhang Agostino': Agostino perché pensando ad Agostino, alla sua storia, mi ha particolarmente commosso sua madre, Santa Monica, per tutte le lacrime che aveva versato per suo figlio, sperando di ritrovare il figlio perduto. E’ un po’ come la mia situazione: pensando alla mia mamma e al fiume di lacrime che ha versato per me, sperando che io potessi ritrovare il senso della mia vita”.

Zhang Agostino ha quindi ringraziato con parole toccanti il Papa, che ha potuto incontrare proprio per la pubblicazione del libro, per la sua costante attenzione e cura verso i carcerati:

“Caro Papa Francesco, grazie per l’affezione e la tenerezza che non manchi mai di testimoniarci. Grazie per la tua instancabile testimonianza. Grazie per le pagine di questo libro dalle quali emerge il cuore di un pastore misericordioso. Ti ricordiamo sempre nelle nostre preghiere”.

Dal registro della commozione a quello della gioia prorompente: l’ultimo intervento, molto atteso, è stato quello dell’attore e regista Roberto Benigni che, destando gli applausi dei presenti, ha subito fatto notare che solo con un Papa come Francesco poteva esserci una presentazione di un libro in Vaticano con un cardinale veneto, un carcerato cinese e un comico toscano. L’attore ha innanzitutto confidato i sentimenti che gli ha suscitato la lettura del libro:

“E’ un libro in cui diciamo che ci accarezza, che ci abbraccia, che ci ‘misericordia’, che è un termine inventato dal Papa. Misericordia – attenzione! – che non è una virtù così, che sta seduta in poltrona… è una virtù attiva, che si muove: guardate il Papa, non sta mai fermo! Che muove non solo il cuore, ma anche le braccia, le gambe, i calcagni, le ginocchia, muove il corpo e l’anima, non sta ferma mai! Va incontro ai miseri, va incontro alla povertà, non sta fermo un secondo…”.

Benigni ha proseguito la sua riflessione sulla Misericordia evidenziando che questa, assieme al perdono, è il messaggio più forte che sta emergendo dal Pontificato di Francesco

“E la misericordia di Francesco – attenzione! – non è che è una visione sdolcinata, così accondiscendente o peggio ancora ‘buonista’ della vita: no! E’ una virtù severa, è una sfida vera ma non soltanto religiosa-teologica: è una sfida sociale, politica! Quello che sta facendo Francesco è impressionante. E come fa, Francesco, a vincere questa sfida, diciamo, incredibile? Cos’è che gli dà la forza? Proprio la medicina della misericordia. Lui, lo vedete, la va a cercare tra gli sconfitti, tra gli ultimi degli ultimi. Dov’è andato pubblicamente quando ha cominciato il suo Pontificato? A Lampedusa, dove arrivano proprio gli ultimi degli ultimi. E dove ha aperto le Porte Sante del giubileo? In Centrafrica, a Bangui, nel luogo più povero dei poveri dei poveri del mondo: proprio nel luogo più povero, va a trovare la vicinanza – Francesco – del dolore del mondo, della sofferenza, perché lì, in mezzo al dolore nasce la misericordia".

In un mondo che chiede la condanna, ha ripreso il mattatore toscano, Francesco vuole invece la misericordia. E non vede contrapposizione con la giustizia:

“E allora, dice, se si perdona tutto, però, allora la giustizia che ci sta a fare? Ma, la misericordia – ce lo dice Francesco – è la giustizia più grande. La giustizia è il minimo della misericordia. La misericordia non cancella la giustizia: non la abolisce, non la corrompe. Va oltre. Un mondo con solo la giustizia sarebbe un mondo freddo, no? Si sente che l’uomo non ha solo bisogno di giustizia: ha bisogno anche di qualcos’altro. E si sente che nel libro Francesco ce lo fa sentire proprio, perché è proprio la fonte del suo Pontificato, la misericordia …”.

Da ultimo, l’autore del libro con il Papa, il vaticanista de “La Stampa” Andrea Tornielli ha ringraziato quanti – a partire dall’editore – hanno creduto in questo progetto editoriale e ha voluto legare la figura di Bergoglio a quella di San Giovanni XXIII, che sapeva guardare con misericordia ai peccatori, abbracciando tutti, anche i carcerati proprio come oggi fa Papa Francesco.

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Francesco: non i Papi ma la preghiera cambia la Chiesa e i cuori

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La preghiera fa miracoli e impedisce al cuore di indurirsi, dimenticando la pietà. Lo ha ripetuto Papa Francesco all’omelia della Messa del mattino celebrata in Casa Santa Marta. “La preghiera dei fedeli – ha affermato Francesco – cambia la Chiesa: non siamo noi, i Papi, i vescovi, i sacerdoti” a “portare avanti la Chiesa”, ma “sono i Santi”. Il servizio di Alessandro De Carolis

Possiamo essere persone di fede e aver smarrito il senso della pietà sotto la cenere del giudizio, delle critiche a oltranza. La storia che racconta la pagina della Bibbia commentata dal Papa ne è un esempio lampante. I protagonisti sono Anna – una donna angosciata per la propria sterilità che supplica in lacrime Dio di donarle un figlio – e un sacerdote, Eli, che la osserva distrattamente da lontano, seduto su un seggio del tempio.

La "scommessa" della preghiera
La scena descritta dal libro di Samuele fa prima udire le parole accorate di Anna e poi i pensieri del sacerdote, il quale non riuscendo a udire niente bolla con malevola superficialità il muto bisbiglìo della donna: per lui è solo “un’ubriaca”. E invece, come poi accadrà, quel pianto a dirotto sta per strappare a Dio il miracolo richiesto:

“Anna pregava in cuor suo e si muovevano soltanto le labbra, ma la voce non si udiva. Questo è il coraggio di una donna di fede che con il suo dolore, con le sue lacrime, chiede al Signore la grazia. Tante donne brave sono così nella Chiesa, tante!, che vanno a pregare come se fosse una scommessa… Ma pensiamo soltanto a una grande, Santa Monica, che con le sue lacrime è riuscita ad avere la grazia della conversione di suo figlio, Sant’Agostino. Tante ce ne sono così”.

Lottare in ginocchio
Eli, il sacerdote, è “un povero uomo” verso il quale, ammette Francesco, “sento una “certa simpatia” perché “anche in me trovo difetti che mi fanno avvicinare a lui e capirlo bene”. “Con quanta facilità – afferma il Papa – noi giudichiamo le persone, con quanta facilità non abbiamo il rispetto di dire: ‘Ma cosa avrà nel suo cuore? Non lo so, ma io non dico nulla…’”. Quando “manca la pietà nel cuore, sempre si pensa male” e non si comprende chi invece prega “col dolore e con l’angoscia” e “affida quel dolore e angoscia al Signore”:

“Questa preghiera l’ha conosciuta Gesù nell’Orto degli Ulivi, quando era tanta l’angoscia e tanto il dolore che gli è venuto quel sudore di sangue. E non ha rimproverato il Padre: ‘Padre, se tu vuoi toglimi questo, ma sia fatta la tua volontà’. E Gesù ha risposto sulla stessa strada di questa donna: la mitezza. Delle volte, noi preghiamo, chiediamo al Signore, ma tante volte non sappiamo arrivare proprio a quella lotta col Signore, alle lacrime, a chiedere, chiedere la grazia”.

I fedeli santi, non i Papi
Il Papa ricorda ancora la storia di quell'uomo di Buenos Aires che, con la figlia di 9 anni ricoverata in fin di vita, va di notte dalla Vergine di Lujàn e passa la notte aggrappato alla cancellata del Santuario a chiedere la grazia della guarigione. E la mattina dopo, ritornando in ospedale, trova la figlia guarita:

“La preghiera fa miracoli. Anche fa miracoli a quelli che sono cristiani, siano fedeli laici, siano sacerdoti, vescovi che hanno perso la devozione pietà. La preghiera dei fedeli cambia la Chiesa: non siamo noi, i Papi, i vescovi, i sacerdoti, le suore a portare avanti la Chiesa, sono i santi! E i santi sono questi, come questa donna. I santi sono quelli che hanno il coraggio di credere che Dio è il Signore e che può fare tutto”.

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Papa, tweet: affidandoci a Dio possiamo superare tutti gli ostacoli

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Papa Francesco ha lanciato un tweet dal suo account @Pontifex: “Se ci affidiamo al Signore possiamo superare tutti gli ostacoli che troviamo sul cammino”.

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Assenso del Papa a nomina ausiliare per i siro-malabaresi

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In India, nello Stato del Kerala, il Sinodo dei Vescovi della Chiesa Arcivescovile Maggiore Siro-Malabarese riunito a Mount Saint Thomas, avendo ricevuto il Previo Assenso Pontificio ha canonicamente eletto a norma del CCEO can. 184 il sacerdote Jose Pulickal, finora protosincello responsabile per il Clero, all'ufficio di ausiliare dell’Eparchia di Kanjirapally dei Siro-Malabaresi (India). Il presule è nato a Inchiyani il 3 marzo 1964, è entrato nel Seminario Minore di Mary Matha. Dopo gli studi istituzionali a St. Thomas Apostolic Seminary, Vadavathoor, è stato ordinato presbitero il primo gennaio 1991. Dopo essere stato Vicario della Cattedrale di Kanjirapally e Direttore della Snehashram Jesus Fraternity, ha proseguito gli studi, conseguendo un Master’s di teologia biblica a St. Peter’s Institute (Bangalore) e il dottorato al Dharmaram Institute della medesima città. Ha poi svolto i seguenti incarichi: Direttore di Catechesi, Vicario del Pathanamthitta Forane, Consultore Eparchiale, Protosincello responsabile per Ranni & Pathanamthitta e , dal 2014, protosincello responsabile per il Clero.

Papa Francesco ha nominato vescovo della diocesi di Port-Gentil, in Gabon, il sacerdote Euzébius Chinekezy Ogbonna Managwu, finora vicario episcopale dell’Arcidiocesi di Libreville. Il neo presule è nato il 13 dicembre 1959 a N’Djamena, nel Tchad, da genitori nigeriani. Da bambino è emigrato con la famiglia in Gabon, crescendo e formandosi nella cultura gabonese. È stato alunno delle scuole cattoliche di Libreville e ha frequentato pure per qualche tempo la locale Università statale. Ha poi studiato nel Seminario Minore Saint Jean di Libreville e dal 1985 al 1992 in quello Maggiore Card. Emile Biayenda di Brazzaville. E’ stato ordinato Sacerdote il 1° novembre 1992 e incardinato nell’Arcidiocesi di Libreville. Dopo l’ordinazione ha svolto le seguenti mansioni: 1992-1993 Vicario parrocchiale di Notre Dame des Victoires, a Libreville; 1993-1996 Parroco di Saint Pierre, in Libreville; 1996-1997 Direttore spirituale del Seminario Minore Saint Jean di Libreville; 1997-1998 Rettore del medesimo Seminario Minore Saint Jean di Libreville; 1994-1998 Vicario episcopale dell’Arcidiocesi di Libreville; 1998-2001 Licenza in Teologia spirituale presso il Teresianum, in Roma; 2001-2002 Formazione nel Foyer e Charitè, a Chateau Neuf de Gallaume (Francia); 2002-2003 Parroco di Saint André, in Libreville; 2003-2006 Parroco della Cattedrale di Libreville; 2006-2010 Parroco di Notre Dame des Apôtres, in periferia di Libreville, e Decano di Libreville-sud; dal 2010 Parroco di Notre Dame de l’Ogooué, a Lambaréné, e Vicario episcopale di Libreville.
La Diocesi di Port-Gentil (2003), è suffraganea dell’Arcidiocesi di Libreville. Ha una superficie di 22.850 kmq e una popolazione di 128.000 abitanti, di cui 71.770 sono cattolici. Ci sono 8 parrocchie. Vi lavorano 7 sacerdoti diocesani e 4 religiosi. Vi sono, inoltre,  11 Religiose e 13 seminaristi maggiori. La Diocesi di Port-Gentil, è vacante dal 2013, a seguito del trasferimento dell’Ordinario, S.E. Mons. Mathieu Madega Lebouakehan alla Diocesi di Mouila.

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Oggi su "L'Osservatore Romano"

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Attacco al cuore di Istanbul: il presidente turco ribadisce l’impegno contro il terrorismo.

Carta d’identità: il discorso del cardinale segretario di Stato in occasione della presentazione del libro “Il nome di Dio è Misericordia”.

Un grand tour fotografico: Gaetano Vallini recensisce la mostra, a Milano, “Henri Cartier-Bresson e gli altri. I grandi fotografi e l’Italia”.

Il John Fante di san Frediano: Silvia Guidi sull’epica popolare di Vasco Pratolini.

Dentro e oltre la storia: Angelo Maffeis su Montini e le forme della testimonianza cristiana.

Lotta con Dio: messa a Santa Marta.

Misericordia continua: nell’intervista di Nicola Gori il cardinale Kurt Koch parla del giubileo e della prossima visita del Papa al tempio maggiore di Roma.

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Oggi in Primo Piano



Istanbul: colpito quartiere turistico, 10 vittime per lo più straniere

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È di almeno 10 morti e di 15 feriti il bilancio ancora provvisorio dell’attentato che questa mattina ha colpito il centro storico e turistico di Istanbul, il quartiere Sultanahmet. Secondo fonti governative le vittime sarebbero per lo più straniere, ma in queste ore le notizie arrivano frammentate dopo che il governo ha imposto la censura sui fatti. Il servizio di Marco Guerra:   

L’esplosione ha scosso piazza Sultanahmet, nei pressi dell’obelisco di Teodosio, nella zona che ospita le principali attrazioni turistiche di Istanbul, come la Moschea Blu e Santa Sofia. Infatti secondo le ultime conferme arrivate dal governo turco, tra le 10 vittime dell’attentato ci sarebbero per lo più stranieri. Lo ha riferito il vicepremier turco aggiungendo che i 15 feriti sono in gravi condizioni e che è stato identificato l’attentatore kamikaze, si tratta di un 28enne siriano. Indiscrezioni rilanciate dalla testata tedesca Bild parlano di nove tedeschi morti; la Cnn Turk riferisce invece di tedeschi, norvegesi e un peruviano fra l’elenco dei feriti. Informazioni incerte dunque dovute al divieto di diffusione di notizie imposto dal governo dopo l’attacco. Dal canto suo, il primo ministro, Ahmet Davutoglu, ha convocato una riunione di emergenza e il Presidente Erdogan ha invitato all’unità puntando il dito contro la pista siriana. E sebbene non siano giunte rivendicazioni, anche le forze di sicurezza turche ritengono che ci sia la mano del sedicente Stato Islamico dietro la strage di questa mattina. Un’ipotesi avvalorata da fatto che sono stati colpiti civili e turisti occidentali.

Per un commento Marco Guerra ha intervistato Valeria Talbot, responsabile del programma per il Mediterraneo e il Medio Oriente dell’Ispi: 

R. - Si tratta appunto di un attentato, l’ennesimo da luglio ad oggi in Turchia, un attentato nel cuore di Istanbul, nella zona turistica della città. E il messaggio potrebbe essere un segnale anche per colpire un Paese nel suo cuore turistico.

D. - Secondo fonti di sicurezza potrebbe esserci il sedicente Stato Islamico dietro questo attentato...

R. -  Non è da escludere, visto che i più gravi attentati degli ultimi mesi sono stati proprio di matrice islamica, sono stati rivendicati dallo Stato Islamico. Questo mostra come la Turchia oggi sia stata investita dal caos mediorientale, come la Turchia appunto sia bersaglio del terrorismo di matrice jihadista.

D.  – Che risposte può dare la Turchia che, come ha ricordato, è investita in pieno nella crisi mediorientale?

R. – Il governo può dare e deve dare segnali forti nella lotta contro il terrorismo di matrice jihadista, così come li sta dando nella lotta al terrorismo di matrice curda. Da luglio è ripreso lo scontro con il partito dei lavoratori del Kurdistan. La Turchia sta vivendo una situazione abbastanza complessa, tanto sul piano interno quanto a livello regionale. La Turchia è un Paese particolarmente esposto per la sua storia: il conflitto interno con i curdi, per la sua posizione geografica e strategica, proprio al confine di aree di crisi, quali la Siria, quali l’Iraq, la presenza dello Stato islamico tra Siria e Iraq, espongono la Turchia, più di altri Paesi, alle minacce del terrorismo.

D. - Ecco quindi dobbiamo aspettarci un altro periodo di instabilità e tensione in Turchia?

R. - Non è escluso che ciò possa avvenire.

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Siria, civili stremati, convocato Consiglio di Sicurezza Onu

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La gravissima situazione umanitaria della popolazione civile in Siria sarà discussa, oggi pomeriggio a New York, dal Consiglio di sicurezza dell’Onu. Sono intanto cominciati ad arrivare ieri sera gli aiuti della Mezzaluna Rossa in tre località assediate, tra cui Madaya, la cittadina nei pressi di Damasco, dove secondo la denuncia di Medici senza frontiere almeno 23 persone sono morte di fame dall’inizio di dicembre. Il servizio di Roberta Gisotti

Cibo e medicine stanno finalmente giungendo per 60 mila siriani assediati nella provincia di Idlib e dovranno bastare per un mese, ma sono 400 mila i civili che secondo l’Onu sono ridotti alla fame in varie aree del Paese, accerchiati dall’una o dall’altra delle forze in campo, in un sanguinoso conflitto che si trascina ormai da quasi 5 anni. “Abbiamo bisogno che gli aiuti arrivino a tutti coloro che ne hanno bisogno”, ha dichiarato l’ambasciatore neozelandese Bohemen che, insieme al collega spagnolo, ha sollecitato la riunione a porte chiuse del Consiglio di Sicurezza per sostenere la popolazione civile siriana, in attesa di una possibile soluzione pacifica del conflitto. Un nuovo incontro tra delegazioni del governo e delle opposizioni si terrà il 25 gennaio a Ginevra. Intanto, sul terreno proseguono gli scontri e i bombardamenti. Nei primi dieci giorni dell’anno, sono state 311 le incursioni aree russe contro oltre mille obiettivi, ritenuti terroristi da Mosca. Una guerra che non risparmia i bambini: 12 le piccole vittime nella provincia di Aleppo di due attacchi tra domenica e lunedì da parte russa e degli insorti.

L'opinione di Silvio Tessari, responsabile della Caritas italiana per il Medio Oriente ed il Nord Africa:

D. – Silvio Tessari come definire oggi lo stato della popolazione siriana?

R. – L’aggettivo è  "catastrofico". Naturalmente, molti ancora resistono nelle zone relativamente tranquille. Però, l’impressione che ho in questi ultimi giorni – se non settimane – è di un grande timore per i moltissimi siriani che sono già andati via e continuano ad andare via e in particolare la comunità cristiana dice: “Di questo passo spariremo tutti”. Io ho anche colto altri segnali: cioè, è sempre stata grave, la situazione, ma ora c’è stato un accordo tra le parti assediate e assedianti – e anche qui non è chiaro chi sia l’uno e chi l’altro – per permettere l’arrivo di un po’ di medicine e di viveri. Però, la situazione era già molto grave almeno da sei mesi, in queste tre cittadine.

D. – Questo allarme forse potrà aiutare nei colloqui di pace che vedranno, il 25 gennaio, a Ginevra, delegazioni del governo e delle opposizioni. Il Consiglio di sicurezza dell’Onu potrà in qualche modo far pressione?

R. – Non è la prima volta che si tenta di fare questi incontri, e la speranza rimane sempre. E’ piuttosto la speranza del pessimismo della ragione e dell’ottimismo della volontà. Quindi, noi ci troviamo davanti a una generazione e a una popolazione siriana che vivono come proprio in un tunnel, cioè non vedono futuro.

D. – La popolazione che è rimasta in Siria è quella più povera, che non ha potuto organizzarsi per espatriare?

R. – Sì, ma bisogna anche pensare che in Siria ci sono un numero di milioni stimato tra cinque e sei – anche sette, addirittura – di persone sfollate che sono fuggite dai loro villaggi, dalle loro città di origine, e vagano dove riescono a trovare un po’ di rifugio, e sono certamente le più povere. Da notare che "più povere" vuol dire anche classe media, ormai, cioè persone anche di una certa cultura che comunque non sono riuscite a scappare. Cioè, non è solo la possibilità concreta: è proprio non farcela. Quelli che - mi dicevano per esempio i nostri colleghi della Caritas di Damasco - fino a ieri erano assediati a Madaya, erano persone di una città relativamente moderna, quindi non erano poveri. Però erano assediati, quindi non potevano fuggire. Diciamo che ci sono i due gruppi: i più poveri, che ovviamente non sono potuti fuggire, e quelli che magari poveri non erano ma vivono in una condizione di tale insicurezza e di assedio vero e proprio che non riescono a farlo.

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Il ruolo dell'Ue e della Chiesa nella nuova fase di Cuba

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Cuba è “interlocutore privilegiato” dell’Unione Europea, che anche in passato ha lavorato per superare l’embargo: è quanto afferma il vicepresidente del Parlamento Europeo, Gianni Pittella. Di ritorno da una missione a Cuba, l’On. Pittella sottolinea le ragioni storiche, commerciali, politiche, culturali dell’Accordo di associazione tra Ue e Cuba che dovrebbe concludersi entro sei mesi. Inoltre, spiega il ruolo importante della Chiesa cattolica nel Paese caraibico in questa particolare fase storica dopo la richiesta di Obama al Congresso, il 17 dicembre scorso, di superare l’embargo da parte degli Stati Uniti. Ascoltiamo Gianni Pittella, nell’intervista di Fausta Speranza

R. – Nell’Accordo ci sono pilastri che riguardano l’economia, che riguardano la cultura, che riguardano la politica, che riguardano anche i diritti umani. Per quanto riguarda l’economia, che è un settore che può interessare molto anche le imprese italiane ed europee, dal momento che l’isola è un terreno inesplorato importante dove c’è necessità di investimenti. E’ chiaro che Cuba deve garantire un quadro regolamentare legislativo che assicuri gli investimenti esteri e dia anche remunerazione. Lì, però, c’è da fare tutto. Cuba, tolto l’embargo, riceverà almeno cinque milioni di turisti in più di quelli che già riceve oggi. Arriveremo, quindi, ad otto, dieci milioni di turisti. Con quali infrastrutture? Con quali capacità di accoglienza? Con quale qualità di accoglienza si farà tutto questo? Lì c’è poco o nulla e c’è tutto da realizzare, in termini di alberghi, di ampliamento dei posti, di organizzazione telematica. La carta di credito, per fare un esempio, potevamo utilizzarla soltanto negli alberghi, ma non nei ristoranti, non nei negozi. Tutto questo è incompatibile con una espansione che avrà sicuramente Cuba.

D. – Che cosa dire di come la popolazione di Cuba guardi all’Unione Europea?

R. – Guardano all’Unione Europea come ad un partner privilegiato; si aspettano tantissimo da noi; vedono in noi anche un modello sociale ed economico diverso da quello degli Stati Uniti, quindi, molto più attento alla dimensione sociale, al fatto che si privilegino le piccole e medie imprese piuttosto che le grandi multinazionali. Tutto questo fa dell’Unione Europea, rispetto ai cubani, un partner privilegiato.

D. – Durante la missione a Cuba ha incontrato il card. Ortega. Che dire del ruolo della Chiesa in tutto ciò?

R. – Con le sue parole semplici, ma chiarissime, il card. Ortega ha spiegato come il ruolo della Chiesa sia stato e sia decisivo per la modernizzazione di quella realtà. Lui ha citato anche delle belle frasi, alcune attribuibili anche al Pontefice, Papa Francesco, secondo cui è necessario accompagnare un processo di modernizzazione o di democratizzazione di quella realtà, senza una contrapposizione che potrebbe essere lesiva e dannosa. Ci ha anche rimandato agli esempi che ci sono stati nei Paesi dell’Est europeo, dove da un momento all’altro si è passati da un regime comunista ad un sistema di democrazia di mercato, con cittadini che erano abituati fino al giorno prima ad avere le scuole gratis, i servizi gratis, la casa gratis, tutto gratis, a non avere la libertà e, ad un certo punto, si sono trovati con la libertà, ma senza un sistema di protezione statale, come era quello del regime comunista, e sono diventati i “perdenti” di una trasformazione di una rivoluzione democratica, che invece doveva essere un beneficio per quei cittadini. In effetti, la libertà è irrinunciabile per ciascuno di noi ma bisogna conseguire un obiettivo chiaro, quello di andare verso una completa modernizzazione senza un evento traumatico. Questo è un terreno su cui lavora benissimo la Chiesa. La Chiesa sta davvero svolgendo un ruolo eccezionale. Bisogna ringraziare personalità come il card. Ortega che, sulla scia del messaggio di Papa Francesco, sta svolgendo un ruolo fondamentale sia per Cuba sia per l’America Latina.

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Vescovi Usa-Ue in Terra Santa. Cetoloni: rilanciare pellegrinaggi

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Si concluderà il 14 gennaio prossimo l’annuale visita in Terra Santa e il 16.mo incontro dell’Holy Land Coordination (Hlc), l’organismo che raggruppa vescovi e rappresentanti delle Conferenze episcopali di Stati Uniti, Europa e Canada, del Consiglio delle Conferenze episcopali europee e della Commissione degli episcopati della Comunità europea. La delegazione si trova ora in Giordania, ultima tappa di un viaggio che nell’Anno Santo della Misericordia ha toccato anche Gaza e Betlemme. Roberta Barbi ha raggiunto telefonicamente il presule italiano del gruppo, il vescovo di Grosseto, mons. Rodolfo Cetoloni: 

R. – Questa mattina siamo ad al-Fuheis, in una parrocchia vicino ad Amman, una parrocchia tutta cristiana. Poco fa, abbiamo incontrato proprio il parroco del Patriarcato, il quale ci ha parlato della grande accoglienza fatta dalla comunità cristiana a 160 famiglie di profughi iracheni, che qui si sono pienamente inseriti – sia nella comunità cattolica latina come nella comunità greco-ortodossa – bene accolti nelle scuole e nelle famiglie. Ieri, siamo stati invece in un centro della Caritas dove, nei container, sono state accolte in un primo momento queste famiglie di profughi iracheni, che adesso hanno trovato invece alloggio. Cosa abbiamo visto? Un grande lavoro della Caritas certamente, per l’accoglienza, ma anche per creare qui la possibilità, specialmente per i ragazzi, di poter accedere alle scuole.

D. – Domenica scorsa, siete stati a Beit Jala vicino alla colonia israeliana di Gilo, dove c’è una disputa territoriale per la costruzione di un muro…

R. – Questa purtroppo è una situazione che meraviglia chi viene per la prima volta e che fa tanto male a chi torna, come me che torno spesso. Non sta cambiando nulla e si vede come questa politica dell’occupazione, questa politica degli insediamenti, questa politica della sicurezza – che richiede continuamente l’ampliamento della costruzione di questo muro – stia arrivando a toccare anche le realtà più piccole. Dal contatto con la famiglia che abbiamo incontrato nella zona di Cremisan, dove c’è una disputa ormai lunga anche all’interno della Suprema Corte d’Israele, ancora non è chiaro cosa dovranno fare, ma già hanno sradicato gli ulivi, già hanno iniziato a fare una strada militare. Questo ti dà proprio il senso della impossibilità di fare qualcosa. C’è stata una bella testimonianza da parte di un giovane e di altri che una volta alla settimana si ritrovano lì a pregare: quando è stata bloccata in un primo momento, questa decisione di costruire il muro, l’hanno vista come un miracolo nella primavera scorsa. 

D. – Il vostro viaggio è iniziato a Gaza, dove avete incontrato 200 fedeli. Come vivono i cristiani laggiù?

R. – Io sono arrivato solo da Betlemme, perché era la festa dell’Epifania e non potevo lasciare la diocesi. Sono rimasti molto colpiti, ma c’è anche questo senso di grande distruzione è qualcosa che sta andando più in basso, nonostante gli sforzi, nonostante il desiderio. È stato un viaggio in cui siamo stati provocati maggiormente a trovare veri motivi di speranza, perché - diceva il patriarca Michel Sabbah – noi dobbiamo essere persone di speranza, in una situazione dove non c’è speranza.

D. – Sappiamo che lei ha un forte legame con la Terra Santa, inoltre era già stato membro di questa delegazione nel Duemila. Cos’è cambiato, secondo la sua esperienza, in questi anni?

R. – Si sono aggravate le situazioni e si sono aggravate anche per quello che è accaduto intorno, in Siria e in Iraq. C’è stata una perdita di fiducia e anche le relazioni interreligiose, credo, sono state messe ancor più alla prova. Ho trovato più stanchezza degli altri anni, in questo senso. Spesso nella gente si sente una perdita di fiducia: quello che è accaduto ai cristiani minacciati in Iraq, dove hanno perso tutto, e sono stati minacciati per la loro fede. Questo ha fatto perdere, almeno in tanta gente, la fiducia in una convivenza, proprio loro che prima erano nella convivenza. Queste prove ultime hanno ferito questa fiducia.

D. – Queste visite annuali servono, oltre che a raccontare qual è la situazione, anche a stabilire gli aiuti da portare. Qual è la prima cosa che farà, tornando in Italia?

R. – Proprio la prossima settimana ci incontreremo in Toscana con alcune persone. Vorremmo riproporre quello che accadde all’inizio della seconda Intifada: un impegno nei pellegrinaggi, a venire, perché qua non c’è pericolo. Si deve venire in pellegrinaggio, ma si deve venire anche per essere coscienti di quello che sta accadendo. Gli occhi di chi viene, al di fuori, sono molto importanti sia per incontrare gli occhi di chi rimane qui, che non si senta abbandonato, ma anche per far conoscere al mondo quello che sta accadendo qui. La situazione dei cristiani, in Palestina, in Israele e in Giordania, ha perso un po’ l’attenzione e ora il fuoco è più sulla Siria, sull’Iraq e sulla Libia. Invece, bisogna portarla qui l’attenzione, perché non ci si trovi a dire: non abbiamo fatto quello che potevamo fare per star loro vicini. Sono necessari gli aiuti, l’organizzazione, ma credo che sia anche necessaria una vicinanza umana più diretta. È questa che poi sostiene, al di là dei progetti che ci vogliono e i programmi. Io mi impegnerò molto nella ripresa dei pellegrinaggi in queste terre.

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Giornata mondiale del migrante: domenica in 5 mila a San Pietro

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Migranti gettati in mare nel Salento, rappresaglie a Colonia contro gli stranieri, l’incubo xenofobo che rinasce. La cronaca ci interpella e sotto l’invito del Papa siamo chiamati a vincere la paura e rispondere col Vangelo della Misericordia. Questo il sentimento che ispirerà le iniziative della prossima Giornata mondiale del migrante e del rifugiato, domenica 17 gennaio. Lo ha evidenziato la Fondazione Migrantes presentando oggi, nella sede della nostra emittente, le iniziative previste in 27mila parrocchie con la partecipazione a Roma di oltre 5mila tra migranti e rifugiati. Il servizio di Gabriella Ceraso

Domenica sarà la “festa dell’incontro”, perché solo solidarietà, incontro e accoglienza permettono di delineare lucidamente i contorni della migrazione e di rispondervi concretamente, anche ridisegnando le nostre società. Accoglienza, “risposta del Vangelo della Misericordia”, prima che “fatto materiale” è “apertura del cuore”, spiega mons. Guerino di Tora vescovo ausiliare di Roma e Presidente della Fondazione Migrantes:

"Non quindi una rassegnazione esterna  come a dire che quasi per forza si deve fare così - perché le cose del mondo vanno così – ma dare un orientamento a quello che è l’atteggiamento del cristiano. Il Papa ci chiede l' accoglienza come un forte richiamo all’amore di Dio, che raggiunge tutti e ciascuno. Non si tratta di cifre, di numeri, ma di persone! Ogni persona con una sua dignità, con una sua storia, con una sua realtà. E quindi il discorso dell’accoglienza diventa un'empatia: non è semplicemente sistemare una situazione, ma renderci partecipi di qualcosa di più grande, nella quale noi stiamo vivendo”.

27mila le parrocchie italiane coinvolte nelle iniziative della Giornata mondiale. Le celebrazioni principali saranno quest’anno nel Lazio, regione del centro Italia capofila per numero di immigrati, delle loro comunità cattoliche, ma anche per numero di emigranti. Domenica prossima, oltre 5.000 migranti di 30 nazionalità, parteciperanno prima all’Angelus in piazza S. Pietro, poi, passando la Porta Santa, alla celebrazione eucaristica in Basilica presieduta dal card. Antonio Maria Vegliò, presidente del Pontifcio Consiglio per i Migranti e gli Itineranti:

"E c'è una cosa particolare: ai piedi dell’altare della Cattedra, ci sarà la Croce di Lampedusa. E questo anche per ricordare il viaggio drammatico che per oltre 3.700 persone, tra cui quasi 8 mila bambini, nel 2015, si è concluso in fondo al Mediterraneo. Le Ostie che verranno consacrate e quindi consumate nella celebrazione della Messa sono state donate dai detenuti  -  anche stranieri - del Carcere di Opera, il carcere di Milano, che hanno attivato un progetto-laboratorio"

Giovedì 14 gennaio invece la giornata si celebrerà al Centro Astalli per i rifugiati, con un momento di preghiera e testimonianza alla presenza di famiglie di 10 nazionalità diverse:

"In un momento nel quale si tende a chiudere le frontiere e gli animi delle persone, dobbiamo veramente ritrovare il senso di saper guardare l’altro in faccia come nostro fratello, ricordandoci sempre che l’incontro con Dio passa attraverso l’incontro con l’uomo"

Si fatica ad aprire frontiere e cuori, ma anche a fare leggi giuste, come “abolire il reato discriminatorio di immigrazione clandestina”, commenta mons. Giancarlo Perego, direttore della Fondazione Migrantes, che guarda con timore alle reazioni xenofobe di questi giorni a Colonia:

"C’è un timore che è alimentato anche – purtroppo! – da forze politiche, da realtà culturali che non aiutano invece a leggere un cambiamento di civiltà. E’ ciò che sta avvenendo quando 400mila famiglie in Italia sono ormai famiglie miste; quando nella scuola un bambino su 10 è di un’altra cultura, di un’altra nazionalità; quando si dà il diritto di voto amministrativo anche al popolo degli immigrati"

Nelle parole di mons Perego anche un quadro della condizione dei migranti in Italia nel 2015, con la richiesta di non cedere ad allarmismi:

"Non siamo di fronte ad un’invasione del nostro Paese, ma siamo di fronte ad una immigrazione che si è fermata, ad una emigrazione che continua con 100 mila giovani che lasciano il nostro Paese e con 100 mila persone, in un Paese di 60 milioni, che chiede protezione internazionale"

Il dito è puntato sul calo dei migranti economici in Italia, segno della crisi, e sul fallimento dell’operazione europea Triton nel Mediterraneo:

"E’ stata inefficace per quanto riguarda effettivamente il salvataggio, soprattutto per individuare le persone a largo, al punto tale che Lampedusa è stato il primo porto di sbarco"

Resta ancora critico, secondo mons Perego, in Italia il trattamento di accoglienza e identificazione riservato ai minori non accompagnati, a carico per lo più del meridione, mentre in positivo è l’andamento dell’accoglienza nelle strutture ecclesiali, cresciuta dall’appello del Papa nel settembre scorso. Il bilancio è passato da 23mila a circa 27mila persone che ne stanno usufruendo.

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Ordine di Malta: l'Ue lavori unita per l'aiuto ai rifugiati

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L’Unione Europea lavori unita per una politica comune a tutela dei rifugiati. E’ l’appello lanciato oggi dal Gran Maestro del Sovrano Ordine di Malta (Smom), Fra’ Matthew Festing, che ha ricevuto il Corpo diplomatico accreditato presso lo Smom, presente in 120 Paesi nel mondo con attività medico-sociali, mense per i senza-tetto, ospedali e orfanotrofi. Il servizio di Francesca Sabatinelli:

“E’ deplorevole che i rifugiati in fuga dalla guerra siriana siano costretti a raggiungere l’Europa con mezzi che mettono in pericolo le loro vite”. Fra’ Matthew Festing si rivolge agli ambasciatori, molti dei quali dei Paesi direttamente interessati dal flusso di migranti, per dire che “l’Ue deve lavorare insieme per predisporre una politica comune per gestire questa crisi umanitaria” e che deve “riconoscere i suoi valori chiave: proteggere le vite, tutelare la dignità umana e promuovere la tolleranza”.

L’Ordine di Malta è da anni presente nei territori maggiormente colpiti da violenza, come Siria e Iraq , così come nei Paesi limitrofi. Nel 2015, ha intensificato l’assistenza a chi ha percorso la rotta balcanica, mentre poche settimane fa il Corpo italiano di Soccorso dell’Ordine di Malta, da tempo presente a Lampedusa e nel Canale di Sicilia, ha allargato la sua azione all’Egeo. Dominique de La Rochefoucauld-Montbel, Grande Ospedaliere dell'Ordine di Malta:

 R. – I don’t know if Europe is indifferent. It is sure is that what started a few months ago…
Non so se l’Europa sia indifferente. E’ certo, però, che quello che va avanti da oltre un anno, con oltre un milione di immigranti che sono entrati in Europa, è l’inizio di un movimento. Il grande problema dell’Europa è che non c’è stata una politica generale. E’ molto difficile, ovviamente, perché non si tratta soltanto di accogliere persone che vengono da altri Paesi, ma si tratta anche di provare a gestire questa faccenda con politiche interne. E questo è il motivo per cui – io credo – la maggior parte dei Paesi europei ha affrontato la questione con programmi autonomi, piuttosto disorganizzati. Credo sia molto difficile accogliere innanzitutto così tante persone: comporta problemi di integrazione, problemi di vita comunitaria, problemi nell’accettazione dello straniero. Poi, c’è la situazione economica dei singoli Paesi europei e non ultimo la loro politica. Ovviamente, l’Ordine di Malta non si rispecchia in questi schemi. La nostra politica è quella di preoccuparci di coloro che soffrono più di tutti.

D. – Ieri, il Papa ha chiesto di nuovo di non essere indifferenti…

R. – “Open your heart” is a very Christian position, and we have to keep it…
“Apri il tuo cuore” è una posizione molto cristiana, alla quale dobbiamo attenerci. Non vale la politica dell’occhio per occhio. Dobbiamo sapere come accogliere coloro che sono “diversi”, ma allo stesso tempo quelli che sono stati accolti devono a loro volta rispettare coloro che li hanno accolti. Ovviamente, da persona a persona le cose sono più facili, si capiscono meglio le tradizioni, le abitudini, i legami familiari e via dicendo. Quando si parla di Stato, tutto diventa un po’ più complicato. La problematica dello Stato, quella politica, è ben diversa. Si parla di “masse” di persone, di numeri, non sono più individui.

D. – Come ha detto il Gran Maestro, le organizzazioni religiose sono state un po’ esautorate dalla loro attività umanitaria. Quali i suoi auspici?

R. – What we have noticed on the field is that if you don’t respect the person you are looking after…
Quello che abbiamo rilevato lavorando sul campo è che se non rispetti la persona della quale ti stai occupando, se non comprendi le sue tradizioni, il suo modo di vivere, la sua storia e tutto quello che fa parte di essa, puoi dare la migliore assistenza sanitaria ma non sarai compreso né tu, né perché lo stai facendo. A noi come Ordine è stato permesso di organizzare un vertice a Ginevra dal titolo “Le religioni insieme, per l’azione umanitaria” (maggio 2015 - ndr) e credo sia stata un’occasione meravigliosa, per molti, scoprire questa dimensione che non è una dimensione fisica, quanto spirituale, e che ci insegna che l’una non può essere guarita senza l’altra. Credo che il rispetto delle tradizioni religione, la comprensione vicendevole, siano i primi passi per renderci più efficienti nelle nostre azioni umanitarie sul campo o nella nostra attività ospedaliera e forse questo può fare anche la grande differenza per altre entità che operano in questi ambiti, che a volte arrivano, offrono un’assistenza veramente ottima – questo è sicuro – ma che a volte non accettano atteggiamenti che nascono da tradizioni locali, da tradizioni familiari e così via. Accade così che quando poi vanno via, magari hanno svolto un ottimo lavoro dal punto di vista dell’assistenza sanitaria, o dell’approvvigionamento alimentare per la popolazione, ma non hanno lasciato il ricordo migliore o hanno lasciato da qualche parte qualche dolore, forse più di carattere psicologico. Proprio per questo credo che questo altro atteggiamento sia stato per le persone una vera scoperta. E questo ci stimola ad andare avanti e a organizzare un evento collaterale all’Incontro di quest’anno a Istanbul.

A Istanbul, il prossimo maggio, si svolgerà il "World Humanitarian Summit" per volere del segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon, al quale prenderà parte lo Smom, portando il contributo di altre organizzazioni umanitarie religiose.

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Nella Chiesa e nel mondo



Unicef: nelle zone di guerra 1 bambino su 4 non va a scuola

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“In 22 Paesi colpiti da conflitti, circa 24 milioni di bambini che vivono in zone colpite da crisi non frequentano le scuole”. In pratica “1 su 4 dei 109,2 milioni di bambini in età da scuola primaria e secondaria – generalmente tra i 6 e i 15 anni – che vivono in zone di conflitto non sta seguendo programmi di istruzione”. È questo l’allarme lanciato dall’Unicef diffondendo i dati di un’analisi condotta dalla stessa organizzazione. 

Situazione drammatica in Sud Sudan, Niger, Sudan e Afghanistan
In Sud Sudan - riporta l'agenzia Sir - oltre la metà (51%) dei bambini in età da scuola primaria e secondaria non ha accesso all’istruzione. Il Niger è al secondo posto con il 47% dei bambini che non frequentano le scuole, seguito da Sudan (41%) e Afghanistan (40%). “I bambini che vivono in Paesi colpiti da conflitti hanno perso le loro case, i familiari, gli amici, la sicurezza, la normalità. Adesso, non possono apprendere, né scrivere né leggere”, afferma Jo Bourne, responsabile dell’istruzione per l’Unicef, per il quale “rischiano di perdere il proprio futuro e di non poter dare il loro contributo, quando diventeranno adulti, alle economie dei propri Paesi e alle loro società”. 

Un bambino che non va a scuola è soggetto ad abusi, sfruttamento e reclutamento
​“Le scuole – prosegue – nel breve periodo garantiscono loro stabilità e strutture adeguate per affrontare i traumi che hanno vissuto”. “Quando un bambino non va a scuola – aggiunge Bourne – è ancor più esposto a pericoli di abuso, sfruttamento e reclutamento in gruppi armati”. “L’istruzione – sottolinea l’Unicef in una nota – continua a essere uno degli ultimi settori finanziati negli appelli umanitari. In Uganda, dove l’Unicef sta garantendo supporto ai rifugiati sud sudanesi, l’appello per l’istruzione non è stato finanziato per l’89%”. (R.P.)

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Patriarca Laham: aiuti a Madaya nelle mani di bande armate

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Madaya è una città “presa in ostaggio da persone che vivono all’interno”, da bande armate e gruppi terroristi, oltre che da membri di Daesh (acronimo arabo per il sedicente Stato Islamico, Is), che usano i civili “come scudi umani”. È quanto afferma all'agenzia AsiaNews il Patriarca melchita Gregorio III Laham, il quale precisa che nella città siriana contesa fra governo e ribelli abitano “20mila, non 40mila abitanti come scritto in questi giorni sui media”. “Noi come Chiesa non abbiamo accesso a questa città - aggiunge - ma sappiamo che inviare aiuti è rischioso, perché spesso finiscono nelle mani, come già successo in altre parti, di bande criminali e gruppi terroristi”. 

Rischio per 400mila siriani sotto assedio in 15 diverse località
Ad oggi in Siria fino a 4,5 milioni di persone vivono in aree contese e difficili da raggiungere per le agenzie umanitarie, tra le quali almeno 400mila in 15 diverse località sotto assedio, che vivono in condizioni di estrema necessità e senza la possibilità di ricevere aiuti. Fra queste vi è Madaya, 25 km a nord-ovest di Damasco e a soli 11 km dal confine con il Libano; dal luglio scorso la zona è assediata dalle forze governative, sostenute dagli alleati sciiti libanesi di Hezbollah. Sebbene non vi siano cifre aggiornate sul numero delle vittime, fonti di Medici Senza Frontiere (Msf) riferiscono che dal primo dicembre scorso sarebbero morte di fame almeno 23 persone. Funzionari delle Nazioni Unite parlano di testimonianze (credibili) di persone morte di fame e di altre uccise mentre cercavano di fuggire dall’area.

Partiti per Madaya i primi aiuti
Ieri, dopo una lunga attesa, un convoglio carico di generi alimentari è partito per Madaya, con cibo e scorte in grado di sfamare i 20mila abitanti almeno per un mese. Dall’ottobre scorso la popolazione non riceve aiuti e i prezzi delle derrate, ormai introvabili, sono schizzati alle stelle con un litro di latte venduto al mercato nero a oltre 200 dollari. Nei prossimi giorni dovrebbero arrivare in città anche medicine e altri beni di prima necessità, che non siano generi alimentari.

Gli aiuti rischiano di finire nelle mani di terroristi e bande armate
Gregorio III, siriano, patriarca di Antiochia e di tutto l’Oriente, afferma ad AsiaNews che in situazioni come quella di Madaya, è necessario fare attenzione nell’invio di aiuti perché “rischiano di finire nelle mani dei terroristi, non della popolazione”. La situazione della città è in tutto simile a quella vissuta a Yarmouk, che in passato il nunzio apostolico a Damasco aveva definito una “vergogna” consumata nel silenzio della comunità internazionale. “Se entrano generi alimentari - spiega sua beatitudine - il rischio è che vengano confiscati. Il problema è complicato, qui non si tratta solo del governo che non vuole far entrare aiuti, ma è un crimine che continua a danno dei più deboli. È la guerra dei grandi che miete sempre vittime fra i più piccoli”. 

Ascoltare l'appello alla pace di Papa Francesco
L’auspicio, prosegue il Patriarca, è che gli aiuti inviati oggi “arrivino alla popolazione”. Al governo e all’opposizione “rinnoviamo, come Chiesa, l’appello di non dimenticare l’essere umano, la vita, che deve essere tutelata e protetta”. La speranza è che si muova presto la diplomazia internazionale e che la risoluzione per la pace in Siria votata a New York “prenda corpo”, anche se la crisi fra Iran e Arabia Saudita “complica la situazione”. In questo contesto di guerra e violenza, conclude, “assume ancora più valore l’Anno della Misericordia di Papa Francesco”, perché ricorda alla gente che “non bisogna lasciar estinguere il fuoco della speranza, che bisogna pregare e adoperarsi per la pace e la riconciliazione”. (R.P.)

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Iraq. Mons. Sako: "digiuno di Ninive" per la pace in Medio Oriente

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I cristiani caldei, nel rispetto della propria tradizione liturgica, si preparano a osservare il cosiddetto “digiuno di Ninive” (Bautha d'Ninwaye), che precede di tre settimane quello quaresimale. Per tre giorni, a partire da lunedì 18 gennaio - riferisce l'agenzia Fides - i caldei desiderosi di osservare questa pratica spirituale astenendosi dal cibo e dalle bevande dalla mezzanotte fino al mezzogiorno del giorno successivo, evitano per tutti i tre giorni di mangiare cibi e condimenti di origine animale.

Il digiuno per la pace in Medio Oriente
Nell'imminenza del “digiuno di Ninive”, il Patriarca di Babilonia dei caldei, Luis Raphael I, ha invitato tutti i fedeli della Chiesa caldea a pregare e a vivere l'astinenza dal cibo per chiedere al Signore il ritorno della concordia e il dono della convivenza pacifica in Iraq e in tutta la martoriata regione del Medio Oriente.

Nel digiuno di Ninive il modello del pentimento sincero
La pratica del “digiuno di Ninive” si rifà al digiuno chiesto dal Profeta Giona agli abitanti di quella città corrotta, che sorgeva nell'area dell'attuale Mosul, oggi in mano ai jihadisti del sedicente Stato Islamico (Daesh). Quel digiuno – così si legge nella Bibbia - commosse Dio (cfr Gion 3,1) e salvò la città dall'annientamento. Nel comunicato diffuso dai media ufficiali del Patriarcato per suggerire ai fedeli le intenzioni con cui accompagnare il digiuno, il Primate della Chiesa caldea ricorda anche le parole di Sant'Efrem, che indicò in Giona e nel digiuno di Ninive, il modello del pentimento sincero. 

Preghiera e penitenza per chiedere a Dio la conversione
​Nel comunicato, ripreso dalla Fides, il Patriarca Sako ripete che l'Iraq si trova alle prese con un “conflitto mortale”, alimentato dal fanatismo religioso, e chiama tutti a preghiere e penitenze per chiedere la conversione e invocare la rinuncia di tutti alla violenza e alla guerra. (G.V.)

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Libano: nuovo appello del card. Raï per pace in Medio Oriente

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E’ rivolto in particolare ai leader politici cristiani il nuovo forte appello del Patriarca di Antiochia dei maroniti Béchara Raï ad uscire dallo stallo politico che da oltre un anno e mezzo ormai impedisce l’elezione del nuovo Presidente della Repubblica in Libano.  Un empasse determinato in buona parte dalle divisioni tra le fazioni politiche cristiane.

I politici cristiani non dimentichino i loro doveri indicati dal Vangelo
“Quando rilanciamo l’appello agli esponenti politici ad adempiere ai loro obblighi fondamentali, a cominciare da quello dell’elezione del nuovo Presidente come premessa del rilancio della Camera dei Deputati e del Governo, lo facciamo con il pensiero rivolto in particolare a quelli cristiani, in virtù del dovere imposto dalla loro coscienza di battezzati”,  ha detto il cardinale, citato dall’Orient-le-Jour, durante l’omelia domenicale a Bkerké. “Anche il testo dell’Esortazione apostolica post-sinodale (“Ecclesia in Medio Oriente” ndr) – ha aggiunto - ricorda il dovere dei cristiani di manifestare la loro fede al servizio del bene comune, perché il Vangelo illumina tutti gli affari umani e i cristiani non possono dimenticare o rinnegare i suoi insegnamenti”.

Basta ai massacri in Medio Oriente alimentati da interessi economici e politici
Nell’omelia il card. Raï ha parlato ancora una volta anche della spirale senza fine della crisi in Medio Oriente, rivolgendo un nuovo accorato appello ai governanti della regione e alla comunità internazionale perché “cessi la guerra con le sue atrocità, crimini e devastazioni in Palestina, in Iraq, Siria, Yemen, Arabia Saudita , Egitto, Libia e altrove”. “Basta alle devastazioni programmate al servizio di interessi economici, politici e strategici”, ha continuato. “Non c’è vergogna più grande di quella di usare le popolazioni civili come scudo umano, di massacrarle con le armi e la fame, come accade a Madaya, Fouaa, Kfarya e altrove. La comunità internazionale – ha concluso il Patriarca dei maroniti - non ha il diritto di rinunciare ad impegnarsi con tutte le sue forze per portare aiuti a chi sta morendo di fame, imporre il cessate il fuoco e trovare soluzioni politiche che conducano a una pace giusta, globale e durevole nell’intera regione”. (L.Z.)

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Indonesia: Chiesa alla Marcia interreligiosa per la tolleranza

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Combattere l’estremismo religioso e il terrorismo e promuovere il pluralismo come vero fondamento della società indonesiana: sono i motivi che hanno spinto il Nahdlatul Ulama (Nu), il più grande movimento islamico sunnita del Paese, a organizzare per domenica 17 gennaio, una manifestazione interreligiosa a Jakarta. All’iniziativa hanno aderito 13 organizzazioni musulmane, insieme alla Conferenza episcopale indonesiana, alle comunità protestanti e all’Alto consiglio confuciano della nazione asiatica. Almeno 10mila persone — riferisce l'agenzia AsiaNews — si riverseranno a Lapangan Banteng, piazza storica della capitale, dove si affacciano la cattedrale cattolica e la grande moschea.

L’adesione dei vescovi
“Parteciperemo di sicuro alla manifestazione per portare il messaggio che la diversità deve essere la forza della nazione. Dobbiamo mostrare che la coesistenza pacifica è possibile”,  ha spiegato padre Guido Suprapto, segretario generale della commissione episcopale per l’apostolato dei laici. In vista dell’appuntamento, l’arcidiocesi di Jakarta ha fatto stampare un gran numero di volantini da distribuire a tutta la comunità cristiana.

Contrastare ogni possibile infiltrazione dell’Is in Indonesia
“Il nostro messaggio è chiaro: unire in fratellanza tutte le fazioni della nazione”, ha dichiarato il presidente del Nahdlatul Ulama Marsyudi Syuhud, uno degli ideatori dell’iniziativa, che non ha dubbi nell’affermare che “bisogna combattere la percezione che l’islam non sia una religione pacifica perché ora vediamo sciiti e sunniti attaccarsi fra loro”. Secondo Syuhud, il Nu vuole contrastare ogni possibile infiltrazione del cosiddetto Stato islamico in Indonesia: “Il pericolo è chiaro e presente. Abbiamo visto che alcuni hanno avuto il coraggio di appendere bandiere dell’Is per le strade. Ci sono persone che vanno a combattere in Siria e poi tornano, e il Governo non fa nulla per contrastare tutto questo”.

800 foreign fighters dall’Indonesia
Secondo l’agenzia per l’antiterrorismo indonesiana, sono 150 i cittadini tornati dalla Siria. Altre fonti governative affermano che 800 persone sono partite dall’Indonesia per unirsi all’Is, 284 delle quali sono state identificate. Almeno 52 sarebbero morte”. (L.Z.)

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Vescovi Messico: cattura di "el Chapo" diminuirà la criminalità?

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Mons. José Benjamín Castillo Plascencia, vescovo di Celaya, ha affermato che la nuova cattura di "el Chapo", il noto criminale messicano a capo di una organizzazione dedita al traffico internazionale di droga, più volte arrestato ed evaso, alimenta la speranza che il tasso di criminalità nel Paese possa diminuire. "Bene per la cattura! E' una persona che ha debiti con la giustizia e li deve pagare – riferisce l'agenzia Fides -. Magari diminuirà anche il traffico di droga e la criminalità - afferma - perché fino adesso, quando un criminale lasciava, subentrava un altro, quindi questa cattura deve lasciare qualcosa di buono". Mons. Castillo Plascencia ha evidenziato inoltre che si deve sapere che fine fanno i beni confiscati dal governo ai criminali: "Su questo aspetto c'è molto che ancora rimane poco chiaro; qualcosa si dovrebbe riconsegnare alla comunità, visto che si tratta di una fortuna fatta con il sangue della povera gente".

Critiche ai media che non dà una giusta dimensione all'evento
​Una posizione molto più critica è stata espressa dal vescovo di Irapuato (Guanajuato), mons. José de Jesus Martinez Zepeda, il quale ha commentato che la cattura di 'el Chapo' non fa certo salire la credibilità del governo federale e ha accusato i media di fare con questa notizia una “cortina fumogena” su altre questioni importanti come l’aumento del dollaro e il calo del petrolio. Occorre quindi dare la giusta dimensione che questo evento merita: "Come abbiamo criticato i fallimenti, dobbiamo congratularci con i successi. Non si può negare il successo che rappresenta, sarebbe chiudere gli occhi e rimanere sempre negativi". (C.E.)

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Vietnam: rapporto sui principali eventi ecclesiali del 2015

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La creazione a cardinale di mons. Pierre Nguyên Van Nhon; la visita in Vietnam del card. Fernando Filoni, Prefetto della Congregazione per l’evangelizzazione di popoli; la creazione della prima università cattolica del Paese; la convocazione del 3° Congresso nazionale per l’evangelizzazione; la 13ª Giornata nazionale della Gioventù e le celebrazioni del 170° anniversario della diocesi di Vinh. Sono stati questi gli eventi principali che hanno segnato la vita della Chiesa in Vietnam nel 2015, secondo il rapporto di fine anno dei vescovi vietnamiti.

La creazione del 6° cardinale nel Paese e la visita pastorale del card. Filoni
Tra gli avvenimenti più importanti – riporta l’agenzia Eglises d’Asie – il rapporto mette al primo posto il conferimento della berretta cardinalizia all'arcivescovo di Hanoi Pierre Nguyên Van Nhon, durante il Concistoro del 14 febbraio 2015, che ha portato a sei il numero dei cardinali creati nel Paese. Il secondo evento importante segnalato dalla Conferenza episcopale è la visita pastorale compiuta dal 20 al 26 gennaio 2015 dal card. Fernando Filoni su invito del presidente dei vescovi.  Tra i momenti salienti della visita la Messa conclusiva a Da Nang delle celebrazioni del 400° anniversario dell’evangelizzazione del Vietnam ad opera dei Gesuiti e la visita al Santuario mariano di La Vang per affidare alla Vergine il cammino dell’evangelizzazione nel mondo e in particolare in Vietnam.

L’istituzione della prima università cattolica del Vietnam
Il terzo evento che ha segnato l’anno appena trascorso è stato il decreto con cui la Congregazione vaticana per l’educazione cattolica ha formalmente istituito il 21 ottobre l’”Istituto cattolico del Vietnam”,  la prima università cattolica del Paese. Altro avvenimento ricordato dai vescovi è il 3° Congresso nazionale per l’evangelizzazione svoltosi dal 1° al 4 settembre sul tema “Il rinnovamento delle attività evangelizzatrici in Vietnam oggi”. Un incontro che ha visto la partecipazione di diversi vescovi, 76 sacerdoti, 63 religiosi e religiose e 68 laici da tutte le diocesi del Paese.

La posa della prima pietra del nuovo santuario mariano di Mont Cui
Il rapporto segnala poi la 13.ma Giornata nazionale della gioventù, ispirata alle Gmg internazionali e che si è svolta dal 17 al 18 ottobre sul tema “Siamo il sale e la luce del mondo”. Nel 2015 inoltre la diocesi di Vinh ha festeggiato il 170° anniversario di fondazione , avvenuta nel 1846, con una Messa di rendimento di grazie presieduta dal neo-cardinale Nguyên Van Nhon. Tra gli eventi significativi dell’anno il rapporto segnala infine la posa della prima pietra del nuovo santuario mariano di Mont Cui, nella diocesi di Xuân Lôc.

I cattolici il 7% della popolazione
I cattolici in Vietnam rappresentano oggi circa il 7% dei suoi 87 milioni di abitanti, la metà dei quali di religione buddista.  Minoritaria, la comunità cristiana è attiva nei settori dell'educazione, sanità e sociale. (L.Z.)

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India: appello vescovi del Kerala per tutela degli agricoltori

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È forte l’appello che i vescovi cattolici del Kerala, nel sud dell’India, lanciano al governo locale, affinché tuteli i diritti degli agricoltori. In un messaggio letto domenica scorsa in tutte le Chiese della regione, i presuli sottolineano che “oltre alla caduta dei prezzi del settore agricolo, i cambiamenti climatici, il finto ambientalismo ed il dramma dei debiti rappresentano grandi sfide alla sopravvivenza degli agricoltori”. Il tutto mentre i politici e le istituzioni locali “trascurano i contadini che producono cibo per l’intera popolazione e materie prime per le industrie”.
 
Non dimenticare i poveri
Non solo: i vescovi del Kerala accusano il governo di aver indotto gran parte della popolazione ad investire nell’agricoltura, garantendo prestiti e sussidi, salvo poi voltare le spalle agli stessi agricoltori, nel momento della crisi. “Ogni anno – sottolineano i presuli – il governo prevede benefici fiscali per i dipendenti pubblici ed i pensionati e sottoscrive investimenti per industrie che sono state chiuse a causa del loro cattivo funzionamento, ma non fa nulla per i contadini, i pescatori ed i poveri”. La Chiesa locale, inoltre, critica lo Stato per non aver garantito “la stabilità dei prezzi”, in particolare di quello della gomma, uno dei principali prodotti dell’economia della regione.
 
Tutelare i diritti degli agricoltori, al di là delle differenze religiose 

Infine, i vescovi cattolici del Kerala – che rappresentano la Chiesa latina, quella siro-malabarese e la Chiesa siro-malankarese – si appellano agli stessi agricoltori affinché, al di là delle differenze religiose, siano uniti nella difesa dei loro diritti. (I.P.)

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Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LX no. 12

E' possibile ricevere gratuitamente, via posta elettronica, l'edizione quotidiana del Bollettino del Radiogiornale. La richiesta può essere effettuata sul sito http://it.radiovaticana.va

Segreteria di redazione: Gloria Fontana, Mara Gentili, Anna Poce e Beatrice Filibeck, con la collaborazione di Barbara Innocenti.